Colossi colpiti e affondati: così la Silicon Valley rischia di diventare la nuova Standard Oil

Un secolo fa il presidente americano Roosevelt brandì lo Sherman Act, la legge antitrust contro i monopoli che distrusse l’impero dei Rockfeller. Dopo cento anni, ora, nel mirino dell’amministrazione Biden ci sono le aziende di big tech. Parallelismi

C’era la folla delle grandi occasioni quel lunedì 15 maggio del 1911 nel Campidoglio di Washington. La coda si dipanava lungo tutta la rotonda, sotto la cupola con gli affreschi dell’Apoteosi di George Washington del pittore italo-greco Costantino Brumidi, per cercare di trovare posto nell’aula della Corte Suprema. Il massimo organo giudiziario degli Stati Uniti non aveva ancora una sua sede ed era ospitato nel Capitol, insieme a Camera e Senato. I giornalisti avevano occupato molte file di poltrone e c’era un’attesa enorme per quello che avrebbe detto il Chief Justice Edward White.
 

La scena è di quelle che provocano brividi lungo la schiena ai ceo di Apple, Google, Amazon, Microsoft o Meta, che sono stati chiamati spesso a testimoniare in questi anni nello stesso edificio, uscendo ogni volta pallidi e stremati da audizioni di fronte a commissioni del Congresso sempre più ostili. Perché quel che accadde tra le 16 e le 17 di quel lontano 15 maggio potrebbe toccare anche a loro. In un’ora, leggendo appunti con tono monocorde, il giudice White spiegò i motivi di una sentenza storica: gli Stati Uniti avevano deciso di applicare lo Sherman Act a Standard Oil, all’epoca la più grande realtà industriale al mondo, ordinandole di dissolversi nel giro di sei mesi. Fu la più sorprendente offensiva antitrust mai avvenuta e da allora è un promemoria per ogni colosso americano che abbia raggiunto dimensioni e controllo del mercato tali da far scattare l’allarme monopolio.
 

Sembra una storia lontana, ma a pagina 13 delle 88 con cui l’Amministrazione Biden giorni fa ha messo sotto inchiesta Apple, accusandola di pratiche da monopolista per come ha costruito l’ecosistema degli iPhone, si spiega che il ministero della Giustizia ha agito sulla base della “sezione 2 dello Sherman Act”. Né più né meno di quello che aveva fatto il governo americano oltre un secolo fa, quando aveva deciso di dare una lezione una volta per tutte all’arroganza e allo strapotere con cui si muoveva l’uomo più potente d’America: che non era il presidente degli Stati Uniti, bensì John D. Rockefeller, il fondatore e l’inventore dell’intreccio inestricabile di società petrolifere riunite sotto il marchio Standard Oil.
 

Lo Sherman Act fu varato dal Congresso nel 1890 ed è una legge semplicissima, con tre soli articoli, che si è rivelata però potente per colpire pratiche contrarie alla concorrenza e costruzioni di monopoli. John Sherman, l’uomo che le ha lasciato in eredità il nome, era un senatore dell’Ohio con velleità presidenziali, ma non riuscì mai ad andare oltre un paio di candidature nelle primarie del partito repubblicano. Si consolò con incarichi di governo come ministro del Tesoro e segretario di stato, ma il suo capolavoro fu trovare i voti sufficienti per far passare la legge antitrust. Un tema che sentiva con forza anche per la sua provenienza dall’Ohio, lo stato dove Rockefeller aveva cominciato a costruire il suo impero.
 

Il futuro magnate era nato nello stato di New York ma era cresciuto a Cleveland ed è qui che nel 1863 era entrato nel business della raffinazione di petrolio insieme a due soci, Maurice Clark e Samuel Andrews. Sette anni dopo l’attività era già diventata un colosso e Rockefeller aveva dato vita alla sua nuova creatura in Ohio, chiamandola Standard Oil Company. Da lì in poi era stata un’ascesa continua, eliminando gli avversari, facendo fusioni con altre società, comprando ferrovie, ottenendo concessioni privilegiate, manovrando i prezzi del kerosene per l’illuminazione. In pochi anni, Standard Oil aveva assunto il controllo della raffinazione del 90-95 per cento del petrolio prodotto negli Stati Uniti. A quel punto, era il 1882, la costellazione di imprese era stata riorganizzata in un trust, con una quarantina di realtà tenute insieme da un complesso labirinto di controllate e controllanti costruito dagli studi legali che lavoravano per Rockefeller. Un intreccio che scoraggiava chi cercava di svelarne le reali dimensioni, anche per la cultura di totale segretezza che regnava intorno alle attività e ai rapporti tra la Standard Oil del New Jersey – dove era stata trasferita da Cleveland la sede della holding – e le altre società che erano racchiuse nel trust.
 

Era un monopolio di fatto, senza più rivali, che aveva reso Standard Oil la più grande società petrolifera al mondo e Rockefeller l’uomo più ricco d’America di tutti i tempi: il suo patrimonio aggiornato ai valori contemporanei è calcolato in 420 miliardi di dollari e fa impallidire anche i 150-180 miliardi di ricchezza personale di Elon Musk.
 

I guai per Standard Oil erano cominciati a emergere con l’approvazione in Congresso dello Sherman Act. Un’operazione che il senatore Sherman aveva gestito avendo ben in mente il colosso costruito a Cleveland da Rockefeller e soprattutto la struttura segreta dei trust che lo accompagnava. L’atmosfera politica stava cambiando, come segnalava l’esito del voto sulla legge antitrust: 51-1 al Senato, 242-0 alla Camera.
 

Rockefeller non se ne curava, non scendeva a patti con i politici, non aveva una struttura di comunicazione – la allestì in modo spartano solo nel 1906, quando era troppo tardi – non dava interviste e non credeva alle pubbliche relazioni. Quando il procuratore generale dell’Ohio David Watson provò a metterlo sotto inchiesta sulla base dello Sherman Act, il magnate si limitò a spostare tutte le attività tra New York e il New Jersey e a sottrarsi al controllo dello stato del Midwest. Ma fu un atto di arroganza che costò caro a Standard Oil (non personalmente a Rockefeller, la cui famiglia sarebbe rimasta ricchissima per tutto il secolo successivo).
 

Tre nemici risultarono fatali al colosso petrolifero. Il primo si materializzò inaspettato nel settembre 1901, quando l’anarchico Leon Czolgosz sparò al presidente degli Stati Uniti William McKinley, che morì pochi giorni dopo in ospedale. Il suo vice era in vacanza in Vermont e fu fatto cercare per farlo giurare in fretta e furia come presidente, tra i timori degli altri esponenti del partito repubblicano, che lo conoscevano come un irascibile attaccabrighe con cui era difficile lavorare. Si chiamava Theodore Roosevelt e divenne uno dei più popolari e influenti presidenti della storia americana.
 

Tra le tante cose che Roosevelt non sopportava, c’erano i colossi industriali che non rispettavano le regole. Ben presto si guadagnò la fama di “trust buster” per il suo ricorso intensivo allo Sherman Act. I suoi tre predecessori, sommati insieme, avevano lanciato in totale diciotto indagini antitrust. Roosevelt da solo ne promosse quarantaquattro durante la sua presidenza. La più importante fu quella che prese di mira la Standard Oil, contro la quale scatenò un avvocato che si sarebbe guadagnato a sua volta il soprannome di “trust buster”: Frank Kellogg, futuro segretario di stato e premio Nobel per la pace, che nel 1906 cominciò a indagare sul colosso di Rockefeller e non mollò fino alla sentenza del 1911. C’era anche Kellogg in aula il giorno in cui il giudice White ordinò lo smantellamento di Standard Oil, mentre Roosevelt a quel punto non era più alla Casa Bianca. Gli era succeduto William Taft, che era stato membro del suo governo ma ben presto divenne un nemico per Roosevelt. L’anno dopo la storica sentenza antitrust, l’ex presidente si ricandidò sfidando Taft (un po’ come Donald Trump, che ha in Roosevelt un modello di come si può provare a tornare alla Casa Bianca) e dando vita a un proprio partito “progressista”. Finì male per i due ex colleghi repubblicani diventati rivali: si sottrassero voti a vicenda e a vincere nel 1912 fu il democratico Woodrow Wilson.
 

Roosevelt e Kellogg furono due nemici che Rockefeller sottovalutò, pensando di potersi sottrarre allo scrutinio della politica e della giustizia con il semplice peso della ricchezza che produceva negli Stati Uniti. Altri settori industriali furono più scaltri di lui, per esempio i re dell’acciaio, che si affidarono alle cure del banchiere J. P. Morgan e alla sua capacità di tenere buone relazioni con il Congresso e il ministero della Giustizia. Anche il terzo nemico che affondò la Standard Oil apparteneva a un mondo con cui Rockefeller non voleva avere niente a che fare: la stampa.
 

Violare la segretezza che circondava i trust del petrolio divenne infatti l’ossessione di Ida Tarbell, una scrittrice che fu tra i protagonisti del movimento dei “muckrakers”, gli inventori del giornalismo investigativo moderno. Tra il 1902 e il 1904 la Tarbell pubblicò sulla rivista McClure’s una serie di diciannove articoli che svelavano per la prima volta all’America i segreti del network di imprese messo in piedi da Rockefeller. Poi completò l’opera con il libro The History of the Standard Oil Company, che divenne un immediato successo editoriale e fu la base di partenza per le indagini di Kellogg e del ministero della Giustizia, che portarono fino alla sentenza della Corte Suprema.
 

Lo smantellamento di Standard Oil ha dato vita a un mondo del petrolio concorrenziale che si trasformò presto nelle cosiddette “sette sorelle”. Pezzi del colosso di Rockefeller sono diventati Exxon, Mobil, Amoco, Chevron, Texaco e altre compagnie petrolifere poi tornate a fondersi tra loro. Il caso del 1911 è stato il punto di riferimento per altre grandi offensive antitrust del governo americano, come la decisione di smantellare il monopolio di AT&T, dando vita a tante piccole “Baby Bells” della telefonia. O come gli attacchi al monopolio dell’hardware e del software di Ibm e Microsoft, che non hanno però portato a smembrare le società.
 

Adesso una nuova generazione di “trust busters” ha messo nel mirino la Silicon Valley e sogna di far fare ai suoi colossi la fine di Standard Oil. Dopo gli anni delle battaglie con Microsoft, i bracci di ferro tra il mondo tech e le autorità di Washington si erano un po’ placati, fino a quando nel 2020 non è arrivato l’attacco a Facebook e a Mark Zuckerberg da parte della Federal Trade Commission (Ftc). L’accusa è molto simile a quella che era toccata a Rockefeller: aver ucciso la concorrenza comprando gli avversari e inglobandoli. Zuckerberg deve rispondere della struttura della sua Meta, che ha dentro Instagram e WhatsApp, cioè realtà che gli facevano concorrenza e che ha assorbito
 

Accuse diverse di monopolismo o di concorrenza sleale sono poi arrivate per Alphabet-Google, Amazon e ora Apple, con la complicazione che il loro top manager deve battersi contemporaneamente non solo contro Washington, come ai tempi di Rockefeller, ma anche contro Bruxelles, che è diventata una “trust buster” più esigente ancora degli americani.
 

Biden non ha certo le caratteristiche di nemico dei magnati che aveva Theodore Roosevelt, ma la sua amministrazione ha un paio di mastini che assomigliano a Frank Kellogg. Uno è Jonathan Kanter, che guida dal novembre 2021 la sezione antitrust del ministero della Giustizia. Le indagini contro Google e Apple portano la sua firma. L’altra è Lina Khan, la presidente della Ftc, che ha invece messo sotto inchiesta Meta e Amazon. Insieme, Kanter e Khan stanno quindi sfidando quattro dei sei colossi del mondo tech americano (mancano Microsoft, che in un certo senso “ha già dato” negli anni Novanta, e Nvidia, il gigante dei microchip, che non ha però una posizione dominante di mercato) e potrebbero ottenere per ciascuno di loro, potenzialmente, uno smembramento in stile Standard Oil. Un percorso nel quale li assiste sul piano accademico il professor Timothy Wu della Columbia Law School, dove è tornato a insegnare da poco dopo aver lavorato per l’amministrazione Biden come architetto di tutta la strategia antitrust del presidente.
 

Kanter ha firmato il durissimo atto di accusa contro Apple che mette in discussione l’identità e la natura stessa della società e va indietro nel tempo per attribuire pesanti responsabilità allo scomparso Steve Jobs. Secondo la sua lettura, l’azienda degli iPhone e dei Mac ha beneficiato negli anni Novanta proprio dei problemi giudiziari che aveva Bill Gates per colpa dell’antitrust e ha ripreso a prosperare da quel momento in poi, con il ritorno di Jobs a Cupertino. Una versione che gli avvocati della Apple e tutto il suo apparato di comunicazione hanno già cominciato a respingere con veemenza
 

Il cinquantenne capo dell’antitrust di Biden viene dipinto come un idealista cresciuto in una famiglia della classe media nel Queens e nelle sue interviste si dice dalla parte dei consumatori, dei lavoratori più umili e in generale della Main Street americana. Anche se qualcuno, con un pizzico di perfidia, fa notare le sue foto sui giornali dove mette in mostra un orologio da polso A. Lange & Söhne da 34 mila dollari, che non è proprio alla portata degli operai del Queens di cui dice di voler tutelare gli interessi
 

Il vero nemico di Kanter e Khan è però il tempo. I processi antitrust sono lunghissimi e a novembre un’eventuale elezione di Donald Trump potrebbe azzerare tutto e cambiare completamente l’approccio di Ftc e ministero della Giustizia. Nella Silicon Valley nessuno lo dichiarerà mai apertamente, ma il ritorno dell’ex presidente potrebbe essere la chance migliore che hanno per non fare la fine di Standard Oil

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Storia romana per alunni del serale

Viste le lacune di molti e le difficoltà ad affrontare programmi completi con gli alunni del serale, ho pensato di sintetizzare in un unico file tutta la storia romana. Un’impresa ardua, ma ci ho provato! Molto spesso gli alunni dei percorsi serali sono persone che hanno frequentato i primi anni di scuola superiore e poi hanno interrotto gli studi; quando tornano a scuola sono passati anni, in alcuni casi anche decenni, per cui ricordarsi la storia antica è veramente difficile. Si trovano, così, a dover affrontare direttamente lo studio della storia medievale, se non addirittura quella contemporanea, senza ricordare o senza aver mai saputo nulla di quella precedente. Se consideriamo il fatto che la nostra storia è l’evoluzione di quella romana e che la nostra lingua e la nostra letteratura sono collegate alla latinità, allora è proprio un peccato restare con questo vuoto di conoscenza. Per questo motivo ho pensato di sintetizzare in poche pagine tutta la storia romana, sperando di lasciare qualche traccia in chi tempo per approfondire ne ha poco. Ovviamente è bene aiutare la comprensione del testo e accompagnare la lettura dello stesso con interruzioni verbali atte a puntualizzare ed esplicare argomenti accennati brevemente, in modo da fornire un quadro chiaro di oltre venti secoli di storia.

Tratti salienti di Storia Romana

La nascita di Roma fu la
conseguenza di un lungo processo, cui contribuirono non solo i latini, ma anche
molte altre popolazioni, tra cui gli etruschi, i sabini e i greci. Il
popolamento dell’Italia avviene attraverso varie sovrapposizioni di
popoli.

La fondazione di Roma è fissata
alla metà dell’VIII sec. a. C. , in quel periodo l’Italia
presenta una serie di popoli: etruschi, greci, fenici, umbri, siculi, sicani,
latini, ecc. E’ in un’ Italia dal popolamento eterogeneo, ma dominate da due
culture avanzate (etrusca e greca) che nasce Roma. Nei primi anni sono numerose
le lotte interne: Roma si espande sottomettendo i popoli che la contrastano,
primo tra tutti quello dei latini da cui i romani stessi discendono.

La leggenda della fondazione di Roma

Secondo la tradizione, Roma sarebbe stata fondata il 21 aprile del 753 a. C. I romani, diventati i padroni del mondo, attribuivano alla loro città origini divine. Partendo da antiche leggende, il poeta Virgilio ( 70-19 a. C.) ne raccontò la storia nel poema Eneide. Enea, figlio di Venere, fuggito da Troia in fiamme col vecchio padre Anchise e il figlio Ascanio chiamato anche Iulo, giunse, guidato dagli dei, presso la foce del Tevere. Accolto dal re Latino, sposò la figlia mentre suo figlio Iulo fondava Albalonga (sui colli Albani, nel Lazio). Qui finisce l’Eneide, ma il racconto continua, tramandato da grandi storici di Roma (Tito Livio il più autorevole e il greco Dionigi di Alicarnasso), che hanno raccolto altre leggende. Passarono gli anni. Re di Albalonga divenne Numitore, ma il fratello Amulio lo spodestò e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a diventare sacerdotessa della dea Vesta rinunciando quindi al matrimonio. Tuttavia il dio Marte, invaghitosi di lei, si unì alla fanciulla e nacquero due figli, Romolo e Remo. Temendo di perdere il trono Amulio li fece mettere in una cesta e gettare nel Tevere, ma la cesta, protetta dagli dei, s’impigliò nei rami di un fico e una lupa li allattò, consentendo loro di sopravvivere.

In realtà, alcuni storici, sostengono che Romolo altri non fosse che un pastore a capo di un gruppo dedito al brigantaggio.

Dalla monarchia alla Repubblica a Roma

Dal latino Senatvs PopvlvsQve Romanvs – il Senato e il Popolo Romano = il Senato e il popolo, cioè le due classi dei patrizi e dei plebei che erano a fondamento dello Stato romano.

Durante il periodo monarchico l’organizzazione politica è basata sulla monarchia costituzionale elettiva: il potere diviso tra re, senato e comizi curiati (assemblee di cittadini romani). Romolo (romano) fu il primo dei 7 re di Roma, gli altri furono: Numa Pompilio (sabino), Tullo Ostilio (romano),  Anco Marzio (sabino), Tarquino Prisco (etrusco), Servio Tullio (etrusco), Tarquinio il Superbo (etrusco).

La cacciata dell’ultimo re espone Roma
alle mire dei popoli vicini, come Volsci, Sabini e la Confederazione latina.

La
rivolta dei patrizi, dei popoli italici, degli abitanti delle colonie della
Magna Grecia sono le ragioni che determinano l’avvento della repubblica.

I
romani si troveranno ad affrontare guerre contro i sanniti , guerre contro i
greci e contro i cartaginesi per governare in Italia, nell’Asia Minore e
nell’Africa del Nord.

Nell’VIII secolo la Grecia estendeva la sua
influenza nell’Italia meridionale; Magna Grecia viene denominata l’area
geografica colonizzata.

Dal 509 a.C. i patrizi decisero di
istituire un nuovo tipo di governo in cui le decisioni venissero prese non da
un re, ma da tutti gli abitanti di Roma: tale governo fu chiamato res
publica, ossia “cosa pubblica”. Al posto del re furono eletti due consoli,
che rimanevano in carica per un solo anno. Accanto a loro venivano eletti,
sempre ogni anno, altri magistrati che si occupavano di amministrare la città e
il suo territorio. In pratica però nei primi anni della repubblica il potere
rimase nelle mani dei patrizi, gli unici che potevano essere eletti consoli e
diventare magistrati o senatori. I plebei, ossia tutto il resto
della popolazione non appartenente alle famiglie dei patrizi, erano esclusi da
qualsiasi decisione politica.

I plebei volevano però partecipare alla vita
politica. Così nel 494 a.C. attuarono una sorta di sciopero: si riunirono su un
colle fuori dalle mura di Roma (secessione
sull’Aventino e sul monte Sacro), non svolgendo più alcun lavoro e non
partecipando al servizio militare. Sarebbero ritornati alla vita normale solo
se i patrizi avessero loro concesso di eleggere i propri rappresentanti
politici, i tribuni della plebe, e di riunirsi in assemblee formate
da soli plebei, i concili della plebe. I patrizi furono costretti ad
accettare le loro richieste. Dalla metà del V secolo i plebei ottennero altre
concessioni che permisero progressivamente la loro piena partecipazione alla
vita politica. Il conflitto tra patrizi e plebei finì nel 367 a.C.,
quando una legge stabilì che uno dei due consoli dovesse essere plebeo
(leggi licinie sestie). In questo
modo i plebei riuscirono ad avere libero accesso anche al Senato, dato che i
consoli, una volta terminato il loro anno di carica vi entravano di diritto.
Ricordiamo, però, che per accedere al consolato servivano mezzi economici che
solo una piccola parte della plebe possedeva.

Nel I  secolo
a.C. fu eletto console Gaio Mario, a
lui si oppose Silla, portavoce delle
idee della nobiltà.

La guerra civile tra Mario e Silla e la dittatura di quest’ultimo avevano dimostrato che le istituzioni repubblicane (Senato, magistrature e comizi) avevano perso gran parte del loro valore e riuscivano a imporsi, sulla scena politica, generali che potevano contare sull’appoggio del proprio esercito. Morti Mario e Silla, infatti, fu la volta di altri tre generali: Marco Licinio Crasso, Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare.

Fattosi valere come generale di Silla nella guerra
civile contro Mario, Pompeo venne eletto console nel 70 a.C. insieme con
Crasso.

Il Senato preoccupato che Pompeo, divenuto troppo
potente, seguisse i passi di Silla e instaurasse una dittatura, non volle
riconoscere i provvedimenti da lui presi in Oriente e rifiutò di concedere le
terre che aveva promesso come premio ai suoi soldati. Pompeo, per ottenere
quanto gli spettava, cercò quindi l’appoggio degli uomini allora più influenti
a Roma: Marco Licinio Crasso e Caio Giulio Cesare,
un patrizio che era diventato il capo dei popolari
(sostenendo gli interessi dei plebei per ottenere l’allargamento
delle basi del potere favorendo allo stesso tempo i grandi commercianti, i
finanzieri e i cavalieri; a questa fazione si opponevano gli ottimati, “i migliori”: ristretto
gruppo di famiglie che rappresentavano la nobilitas,
alla quale facevano parte le antiche famiglie patrizie e quelle plebee più in
vista. Pompeo sosteneva questa fazione).

Nel 60 a.C. i tre strinsero un patto privato, noto
con il nome di primo triumvirato, in quanto indicava l’unione di tre (tres) uomini (viri)
a capo del governo.

La
guerra civile tra Cesare e Pompeo

Nel 53 a.C. Crasso era morto e si era quindi rotto
il triumvirato. Cesare, finita la sua campagna militare in Gallia, voleva
tornare a Roma e candidarsi al consolato. Il Senato, temendo che
Cesare portasse al potere i popolari, preferì sostenere Pompeo e lo elesse
unico console. Ordinò poi a Cesare di fare rientro a Roma come privato
cittadino, sciogliendo il suo esercito. Cesare rifiutò. Nel 49 a.C. si diresse
verso Roma e a capo delle sue truppe attraversò il fiume Rubicone,
che segnava il confine del territorio sacro di Roma. Era una vera e propria
dichiarazione di guerra contro il Senato e Pompeo. Questi, consapevole della
forza di Cesare, preferì lasciare Roma e fuggire prima nel Sud Italia e di lì
in Oriente, per avere il tempo di radunare un esercito. Cesare lo raggiunse e
lo affrontò a Farsalo, in Grecia. I pompeiani furono sconfitti e
Pompeo fuggì in Egitto, dove venne ucciso dal re Tolomeo XIII, che credeva così di farsi amico Cesare. Questi,
invece, lo punì per il suo atto, lo depose dal trono e consegnò il regno alla
sorella Cleopatra.

Nonostante la sua politica mirasse a non scontentare
nessuno, una parte della classe senatoria non accettò il suo enorme potere,
considerandolo un pericolo per la repubblica. Così alle Idi di marzo del 44 a.C.,
mentre entrava in Senato, Cesare fu ucciso a pugnalate da un gruppo di
senatori.

Nel calendario romano le Idi erano
il tredicesimo giorno di ogni mese, ad eccezione dei mesi di marzo, maggio,
luglio e ottobre nei quali cadevano il quindicesimo giorno.

I senatori che avevano ucciso Cesare avrebbero
voluto il ritorno della repubblica, ma troppe cose erano ormai
cambiate nella società e nell’organizzazione politica di Roma. Cesare aveva
nominato come erede nel suo testamento il figlio adottivo (nonché suo
pronipote) Gaio Ottavio. Questi prese il nome del padre Gaio Giulio
Cesare Ottaviano e, deciso prima di tutto a vendicare la morte del
padre, si alleò con Marco Antonio, luogotenente di Cesare, e con un
altro generale, Marco Emilio Lepido.  Nel 43 a.C. i tre formarono il secondo triumvirato.

Marco Antonio si innamorò di Cleopatra, la sposò e
instaurò una monarchia di tipo orientale. La popolazione romana e
il Senato iniziarono a temere che Antonio volesse costituire un regno
indipendente, sottraendo a Roma le province orientali. Ottaviano capì che era
il momento di rompere il triumvirato per ottenere tutto il potere e, messo da
parte Lepido, dichiarò Antonio nemico di Roma. Radunò quindi un esercito,
raggiunse l’Egitto e si scontrò con Antonio ad Azio, nel 31 a.C. L’esercito egiziano,
nonostante fosse più numeroso, venne sconfitto. Antonio e Cleopatra fuggirono,
ma, inseguiti da Ottaviano, si tolsero la vita. Ottaviano rimaneva ormai
l’unico incontrastato dominatore di Roma. Con Cleopatra finì l’ultima delle
grandi monarchie ellenistiche, nate dalla spartizione dell’immenso impero di
Alessandro Magno.

L’Impero
a Roma

Tredici anni dopo la morte di Cesare, Ottaviano si
ritrovava unico erede del potere del padre adottivo e doveva scegliere quale
tipo di governo instaurare a Roma: la dittatura l’avrebbe portato
all’insuccesso, così come era capitato a Cesare, e anche il modello di monarca
orientale pensato da Marco Antonio non era ben visto dai Romani. Capì che
l’unico modo per non fallire era riproporre un governo basato sulle vecchie
istituzioni repubblicane, in modo da ottenere il consenso di tutte le
classi sociali. Il primo titolo che si fece attribuire fu infatti quello
di restitutor rei publicae, colui che restaura la repubblica.
In realtà ripristinò i comizi e i concili della plebe che, come in età
repubblicana, eleggevano tutti i magistrati. Le magistrature, però, diventarono
solo delle cariche onorifiche e persero del tutto i loro
poteri, che passarono nelle mani di Ottaviano. La scelta politica di Ottaviano
metteva quindi definitivamente fine alla repubblica, ma, per come
veniva proposta, appariva ai Romani una completa restaurazione delle
istituzioni repubblicane. Nel 27 a.C. il Senato attribuì a Ottaviano il titolo
di Augusto (cioè “degno di venerazione”). Con Ottaviano
comincia di fatto l’epoca imperiale.

Ottaviano abbellì Roma con nuovi templi e monumenti.
Uno tra i più importanti fu sicuramente l’Ara pacis, l’Altare
della pace, che Ottaviano fece costruire proprio al centro del Campo di Marte,
la piazza dedicata al dio della guerra. Con quest’opera ben visibile a tutti i
cittadini, Augusto si presentava come l’iniziatore di una nuova era di
pace dopo tanti anni di guerre.

Il sistema politico creato da Augusto rimase
invariato fino all’inizio del III secolo. Questo lungo periodo di stabilità
assicurò a tutta la popolazione dell’Impero pace e benessere. Un aspetto che,
però, Ottaviano non aveva curato e che diventò spesso motivo di tensione e di
conflitto era la successione. Come scegliere il successore di un’eredità così
importante? Augusto aveva capito che la successione dinastica,
ossia l’eredità di padre in figlio o tra membri della stessa famiglia, sarebbe
stato l’unico modo per evitare forti contrasti e garantire stabilità. Così dopo
di lui si succedettero imperatori della sua stessa famiglia, la dinastia
giulio-claudia, fino al 68 d.C., quando Nerone, l’ultimo
imperatore della dinastia, morì. La successione dinastica non rimase però una
regola fissa. Dopo un’altra dinastia, la dinastia flavia (69-96),
in cui l’Impero passò dal padre Vespasiano ai suoi due
figli, Tito e Domiziano, venne inaugurato, sotto
la spinta del Senato, che sperava così di controllare maggiormente la scelta
degli imperatori, il sistema dell’eredità per adozione: ogni
imperatore prima di morire aveva il compito di scegliere (e quindi di
“adottare”) il suo successore.

Durante l’Impero di Vespasiano fu progettato e
costruito l’Anfiteatro Flavio,
inaugurato nell’80 dal figlio Tito. Questo grandioso monumento, noto con il
nome di Colosseo per le sue
dimensioni enormi, poteva contenere 50 000 spettatori. Era destinato a ospitare
spettacoli per il popolo, come le lotte tra i gladiatori e le battaglie navali,
per le quali si riempiva di acqua il centro dell’anfiteatro.

Successore di Vespasiano fu il figlio Tito che
governò soli tre anni (morì per una forte febbre) con la stessa moderazione del
padre e si trovò costretto a fronteggiare disastri naturali quali l’incendio di
Roma e l’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei, Ercolano e
Stabia; domò una grave rivolta a Gerusalemme a seguito della
quale fu distrutto il tempio e iniziò la diaspora degli Ebrei. 

Alla fine del III secolo d.C., dopo un lungo periodo
di crisi, salì al potere Diocleziano, che cercò di porre lo stato
sotto il suo totale controllo.

Convinto che i cristiani
fossero un pericolo per il bene dello Stato, nel 303 scatenò contro di loro una
lunga e sanguinosa persecuzione: furono distrutti i templi,
confiscati i beni delle chiese, bruciati i libri sacri e molti subirono la
condanna a morte.

Nel 312, alla fine di  lotte sanguinose, prese il potere Costantino.
Il primo provvedimento del nuovo imperatore fu l’editto di Milano del 313 d.
C., conosciuto anche con il nome di editto di tolleranza,
perché concedeva ai cristiani la libertà di praticare la loro fede. Il
cristianesimo fu posto sullo stesso piano del paganesimo e di tutte le altre
religioni dell’Impero. Tuttavia Costantino favorì in ogni modo i cristiani:
concesse loro privilegi, diede ai vescovi incarichi importanti nella cura
dell’amministrazione e della giustizia, dichiarò la domenica giorno di festa
obbligatorio e fece costruire numerose chiese. L’imperatore si era reso conto
che il cristianesimo era ormai molto diffuso, soprattutto nelle città, e
pensava che la fede in un unico Dio e una religione di grande forza potessero
rendere lo Stato più forte e stabile. Grazie alla libertà di culto il cristianesimo
si diffuse anche in zone molto lontane dell’Impero.

Alla morte di Diocleziano, inizialmente, l’impero
aveva due padroni, Costantino in Occidente e Licinio
in Oriente. Costantino aveva ottenuto la vittoria decisiva contro il
rivale Massenzio alle porte di Roma nel 312 d. C. , anno in
cui fece costruire l’arco di Costantino per commemorare la vittoria. Nel 324
d. C. riuscì a unificare l’impero ed essere unico
imperatore. La capitale non fu portata a Roma, ma fu costruita una nuova città
chiamata Costantinopoli che divenne la capitale; politica,
cultura ed economia gravitarono così a Oriente.

Negli anni successivi alla morte di Costantino il
numero dei cristiani aumentò rapidamente finché il cristianesimo divenne
la religione più diffusa tra gli abitanti delle città:
ovunque, soprattutto nelle regioni orientali dell’Impero, si formarono comunità
cristiane molto ben organizzate sotto la guida di un vescovo. La vittoria
definitiva del cristianesimo arrivò nel 379 d.C., quando divenne
imperatore Teodosio. Egli pensava che il cristianesimo e i vescovi
fossero un valido sostegno per rafforzare la propria autorità; per questo
motivo, con l’editto di Tessalonica del 380 d.C., stabilì che il cristianesimo
fosse la sola religione ammessa
nell’Impero: venivano così vietate tutte le altre religioni e gli antichi
riti pagani, definiti «insani e dementi». Era la fine del paganesimo.

La
divisione dell’Impero romano e il crollo dell’Impero romano d’Occidente

Alla morte di Teodosio, l’Impero romano fu diviso in
due: l’Impero romano d’Oriente e l’Impero romano d’Occidente. Soprattutto
quest’ultimo fu preso d’assalto dai popoli germanici (Franchi, Angli e Sassoni,
Vandali, Burgundi, Visigoti e Unni) che in alcune zone dell’Impero arrivarono a
formare dei veri e propri insediamenti.

Tra il 406 e il 407 d.C. numerose tribù
germaniche, spinte dal popolo degli Unni, varcarono il Reno e
si riversarono in Occidente alla ricerca di nuove terre da abitare. Ormai
caduto in una crisi profonda, l’Impero d’Occidente non si risollevò più.
Nel 476 il generale di stirpe germanica Odoacre,
comandante della guardia imperiale in Italia, fu acclamato re dai soldati e
depose l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo. Questa data segna
il crollo definitivo dell’Impero romano d’Occidente. Le invasioni barbariche determinarono,
così, la fine dell’Impero romano d’Occidente!

Da questo momento iniziano a formarsi i regni
romano-barbarici.

In Italia il re
degli ostrogoti venne, con il sostegno dell’imperatore d’Oriente, a
scacciare Odoacre (493). Teodorico era cresciuto nella corte
romana ed era grande ammiratore della civiltà imperiale. Non volle che goti e
romani si mescolassero, proibendo i matrimoni misti, ed ebbe cura di far vivere
pacificamente i due popoli, ciascuno con le proprie leggi. Lasciò ai romani l’amministrazione del regno
e riservò ai goti la difesa militare. La sede del re
ostrogoto era Ravenna che si
arricchì di monumenti, tra cui il Mausoleo
(tomba di Teodorico) , oggi patrimonio
mondiale dell’Umanità.

Alla morte di Teodorico in Europa troviamo in Oriente l’imperatore Giustino.
Suo successore, nel 527 d. C., fu il nipote, di bassa estrazione sociale, Giustiniano.
Il suo sogno è la restaurazione imperiale. Tale obiettivo si scontra
inevitabilmente con i goti in Italia, al termine di un continuo susseguirsi di
battaglie che frastagliano l’intera Europa troveremo una Roma completamente
distrutta e spopolata.

Giustiniano non seppe comprendere come, da un punto
di vista economico, l’impero si reggesse sull’Asia e sul Medio-Oriente,
piuttosto che sull’Italia. Alla sua morte il regno era parecchio indebolito.

Lasciò ai posteri la più completa e coerente
raccolta di diritto romana, il Codice, che trovò nell’Impero
d’Oriente e nell’Italia meridionale (sottoposta ai bizantini) una chiara
affermazione.

L’Impero romano d’Occidente era oramai crollato
sotto le spinte dei barbari, quello d’Oriente – l’impero bizantino – rimaneva ricco e forte. Costantinopoli, la capitale,
era la città più ricca e grande del Mediterraneo.

Distacco
tra Oriente e Occidente

Culturalmente tra bizantini e romani c’era un’enorme
distacco: i bizantini parlavano e scrivevano in greco, lingua che
l’Europa occidentale aveva completamente dimenticato. Inoltre, i bizantini si
consideravano gli unici continuatori della civiltà romana.

In campo religioso, nell’VIII secolo, i
vescovi di Roma si opposero alla distruzione delle sacre icone (immagini
sacre solitamente dipinte su tavola), ordinata dagli imperatori di
Costantinopoli che consideravano superstizioso il culto delle immagini. Questo
è l’inizio della rottura che avverrà tra le due Chiese nell’XI secolo.

L’Impero romano d’Oriente, separatosi
dall’occidente dopo la morte di Teodosio I nel 395 d.c. dovrebbe segnare la
fine dell’impero “romano” per sostituirlo con il termine
“bizantino”, da Bisanzio, l’antico nome della capitale Costantinopoli,
oggi Istambul.

L’Impero
bizantino, tra molte lotte, terminò nel 1453 con la conquista di
Costantinopoli da parte dei Turchi ottomani guidati da Maometto II. Non fu
solo un cambiamento di dominatori ma un cambiamento di civiltà, ovvero una
retrocessione di civiltà.

                                                                                                                                 Prof.ssa E. Gurrieri

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