L’eco-ansia dei giovani

L’argomento è nuovo ma già fa molto discutere: l’emergenza ambientale può influenzare la salute mentale, secondo quanto segnalato dagli scienziati dell’Ipcc (l’organizzazione delle Nazioni Unite incaricata della sorveglianza del clima) nel loro sesto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici. Ma, avvertono gli esperti, a causa della crisi climatica si stanno diffondendo anche veri e propri disturbi da “ansia ambientale”.

Panico da crisi climatica. Come può succedere? «In molti modi, anche se la maggiore incidenza di problemi (quali disturbo da stress post-traumatico, depressione e ansia) arriva in seguito a eventi meteo estremi ma “brevi” come tempeste, inondazioni e incendi», spiega Susan Clayton, professoressa di psicologia e studi ambientali presso il College di Wooster, Ohio, una delle massime esperte al mondo di ansia da cambiamenti climatici. «C’è però anche un aumento di stress legato alla semplice consapevolezza dei cambiamenti climatici». Un fenomeno che, in tutto il mondo, riguarda soprattutto i giovani: come nel caso della ragazza che nell’estate 2023, al Giffoni Film Festival, ha dichiarato piangendo di fronte al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin di soffrire di ecoansia. Già nel 2021, un’indagine tra 10.000 ragazzi di 16-25 anni condotta in 10 Paesi aveva evidenziato che la maggior parte di essi avvertiva forti preoccupazioni per la crisi climatica e riferiva di provare ansia, tristezza, rabbia, impotenza, vulnerabilità e senso di colpa per questa situazione. In più del 45% dei casi si trattava di sensazioni così marcate da influire sulla vita di tutti i giorni, e molto spesso emergeva la frustrazione per l’inadeguatezza di governi e istituzioni nel far fronte al problema.

«Nello specifico, l’eco-ansia è una costellazione di emozioni negative legate alla consapevolezza del cambiamento climatico», precisa Clayton. Il termine è talmente attuale da essere appena stato inserito tra le nuove parole dell’edizione 2024 dello Zingarelli, il vocabolario della lingua italiana della casa editrice Zanichelli: “eco-ansia o ecoansia [comp. di eco- e ansia; 2015] s. f. • ansia derivante dal timore delle possibili conseguenze di disastri ambientali legati all’emergenza climatica”.

I giovani e l’ansia climatica. Come si manifesta? «Sintomi clinicamente rilevanti potrebbero includere difficoltà del sonno, interferenza con la capacità di lavorare o socializzare, incapacità di smettere di pensare ai cambiamenti climatici», risponde l’esperta. Colpisce soprattutto i giovani perché si trovano ad affrontare compiti come pianificare il proprio futuro, trovare un impiego stabile, costruire una rete di relazioni sociali.

«A dire il vero i giovani non sono gli unici a sperimentarla», precisa Clayton. «Tuttavia diversi studi hanno riscontrato che provano livelli di ansia climatica più alti. Il motivo principale è che saranno colpiti più fortemente dal cambiamento climatico, mentre gli anziani tendono a sentire che non saranno vivi quando gli impatti più gravi di questi mutamenti cominceranno a manifestarsi».

Cittadini consapevoli. Se non diventa invalidante, l’ansia climatica non è di per sé patologica: per molti versi è anzi una risposta sana, realistica e perfettamente comprensibile al modo in cui viene affrontata la crisi climatica. «Dovremmo essere cauti nel valutare le risposte legate a disagi come l’eco-ansia come disturbi individuali. Quando agiamo in questo modo, finisce che il problema troppo facilmente riguarda il singolo individuo, che viene spesso aiutato ad adattarsi alla realtà attraverso la terapia e persino con farmaci», afferma Matthew Adams, psicologo dell’Università di Brighton (UK) e membro della Climate Psychology Alliance, una comunità di terapeuti, artisti e ricercatori che cura il lato psicologico ed emotivo della crisi climatica. «Il rischio, inquadrando il problema in questo modo, è di cadere collettivamente in una forma di negazione del problema».

Come si deve reagire. L’eco-ansia è dunque un male da cittadini consapevoli e non si può cancellare. Ma si può evitare che divenga debilitante e prenda il sopravvento su tutto il resto. Come? «Incanalare questo disagio nell’azione per il clima può aiutare a farvi fronte in modo costruttivo, e allo stesso tempo può servire ad affrontare il cambiamento climatico», continua Clayton. Si agisce per sentirsi bene e intanto si fa del bene. «Per la maggior parte delle persone, un primo passo potrebbe essere informarsi meglio (in modo da avere dati precisi sul problema), oltre a connettersi con altre persone interessate al tema e trovare un modo di agire comune, per sentire che si sta affrontando attivamente la cosa. Chi invece si sente davvero sopraffatto dovrebbe provare a sviluppare capacità di regolazione emotiva come prendere le distanze dalla necessità di seguire le notizie, impegnarsi in tecniche di riduzione dello stress come la respirazione consapevole e fare esercizio fisico».

Quello che inizia come un piccolo passo per uscire dalle sabbie mobili personali, insomma, può trasformarsi in una forma di “contagio positivo” che incoraggia anche altri ad agire.

«L’importante è fare tutto quello che si può e poi parlarne con tutti quelli con cui si riesce», aggiunge Susan Joy Hassol, comunicatrice scientifica, analista e autrice che dirige Climate Communication, un progetto no profit per diffondere una maggiore comprensione scientifica della crisi climatica. E per farlo bisogna usare il linguaggio giusto. «Parlare di come i cambiamenti climatici ci stanno influenzando qui e ora è più efficace di astratte proiezioni sul futuro. Si sente anche parlare molto di ciò a cui dobbiamo rinunciare per salvare il clima. Ma invece di raccontare una storia di sacrificio e privazione, possiamo raccontare una storia di opportunità e miglioramento nelle nostre vite, nella nostra salute e nel nostro benessere: una storia di esseri umani che prosperano in un’era post-combustibile fossile».

Trasmettere positività. Quella dell’esempio positivo sembra in effetti essere la molla più potente che ci spinge ad agire per il clima. In un’analisi di 430 precedenti studi pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, Magnus Bergquist, psicologo dell’Università di Gotebörg in Svezia, e Matthew H. Goldberg, direttore della ricerca sperimentale presso lo Yale Program on Climate Change Communication (Usa), hanno stabilito che gli interventi basati sugli incentivi economici e sul confronto sociale stimolano comportamenti eco-friendly molto più di tante spiegazioni su cosa è buono o giusto da fare.

Informazione e consapevolezza. Anche se le campagne di informazione sono necessarie, snocciolare i fatti non sembra influenzare granché i comportamenti: «Il solo fatto di sapere che cosa è giusto o salutare o eco-friendly, non è sufficiente per alterare il modo di agire», spiega Bergquist (del resto, quante volte rinunceremmo a una birra con gli amici solo perché sappiamo che non è il massimo per la salute?). La pressione sociale funziona meglio, forse perché sentiamo il bisogno di conformarci alla norma. Ed è efficace anche nella sua forma “passiva”: vedere i vicini di casa che installano pannelli solari e confrontare i consumi nel consuntivo delle spese, può spingerci a emulare i comportamenti positivi. Ovviamente alcuni comportamenti sono più facili da cambiare rispetto ad altri: «È più difficile convincere qualcuno ad andare in bicicletta o a prendere l’autobus invece di guidare una macchina, rispetto a indurlo a spegnere le luci quando esce dalla stanza», chiarisce Matthew Goldberg, coautore dello studio.

Non è tutto perduto. Che si tratti di strategie di persuasione gentile (nudging) o di psicoterapia, l’obiettivo per tutti è contrastare quella sensazione di immobilismo data dall’idea che contro la crisi climatica non ci sia sforzo che tenga, che siamo comunque spacciati.

Gli esperti la chiamano l’Apocalypse fatigue, la tentazione di disconnettersi dal problema e dalle scelte virtuose perché “tanto, nulla sembra fare la differenza”. «Spesso evitiamo di pensare alle cose che più di tutte richiederebbero la nostra attenzione perché il pensiero di esse è associato a emozioni negative», fa notare Susan Clayton. «Se le persone non sanno cosa fare per risolvere il problema e mitigare il cambiamento climatico, cercheranno di gestire le proprie emozioni evitando il problema, cercando semplicemente di non pensarci».

Il nostro modo di riferirci all’emergenza clima dovrebbe quindi far passare il messaggio che non ci rassegniamo: «Meglio evitare di usare espressioni come “disastri naturali” quando quelli che vediamo ora sono invece disastri non naturali, o come “nuova normalità” quando sarebbe più preciso chiamarla “nuova anormalità”», conclude Hassol. E anche parlare semplicemente di cambiamenti climatici non è più sufficiente: «Ciò che stiamo sperimentando ora è un vero sconvolgimento climatico causato dall’uomo. Allora meglio usare termini come “stranezza globale”, che in alcuni contesti funzionano». L’importante è che non passi, neanche a livello linguistico, il messaggio che ormai tutto è perduto. Perché è proprio questo a causare molti problemi psicologici. E poi non è vero: possiamo fare ancora molto.

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