Sushi o frittura di mare? Una tartàre ben condita o una bistecca alla fiorentina? Le mode culinarie offrono pane per i denti sia degli amanti del crudo a tutti i costi, sia di chi cuocerebbe a fuoco vivo qualsiasi cibo. Ma viene da chiedersi: che cosa è meglio per l’organismo? Mangiare tutto crudo, perché l’uomo primitivo dalla salute di ferro faceva così (o almeno, così favoleggiano i fautori del crudismo), oppure sfruttare il cucinare a oltranza, per rendere più digeribili tanti alimenti? La scienza aiuta a dare qualche risposta.
In teoria, l’uomo può mangiare cibi crudi (tranne i funghi)
Sul piano teorico «l’essere umano può mangiare qualsiasi cibo senza che debba essere per forza cotto, perché l’organismo è attrezzato per farlo», specifica Enzo Spisni, direttore del Laboratorio di fisiologia traslazionale e nutrizione dell’Università di Bologna. «Perfino i legumi, che sono al limite della commestibilità, possono essere mangiati crudi e lo stesso vale per tuberi come le patate: in queste solanacee ci sono sostanze tossiche che la cottura neutralizza, ma se mangiassimo pezzetti piccoli di una patata non germogliata non correremmo grossi rischi. L’unico cibo in cui il consumo a crudo alza parecchio l’asticella del pericolo sono i funghi: infatti perfino i porcini contengono piccole quantità di molecole tossiche, che la cottura di solito rende innocue». Posto che con i funghi non si scherza, con il resto degli alimenti non ci sono impedimenti e potremmo fare a meno della cottura.
Inventando la cottura dei cibi, l’uomo primitivo si è evoluto prima e meglio
La capacità di controllare il fuoco però è stata decisiva nella storia dell’uomo, e non per caso: il fuoco è stato usato per cucinare per la prima volta circa 780.000 anni fa, come ha documentato di recente Irit Zohar dell’Università di Tel Aviv (Israele), trovando denti di pesce carbonizzati in falò primitivi di un sito archeologico in Giordania. La scoperta del fuoco ha coinciso con uno dei momenti più importanti nell’evoluzione umana. Fino a poco tempo fa si pensava che i primi pasti cotti risalissero a circa 170.000 anni fa; la ricerca di Zohar invece ha datato la nascita della cucina a ridosso del periodo in cui l’uomo è diventato più alto, grosso e soprattutto ha sviluppato un cervello più grande, avviando la trasformazione da Homo erectus a Homo sapiens.
Poter cucinare la carne, il pesce e i vegetali infatti li ha resi più digeribili e sicuri, migliorando l’efficienza dei pasti, fornendo più calorie con minor sforzo digestivo e metabolico e consentendo così all’umanità di sviluppare al meglio fisico e cervello.
È la teoria dell’antropologo e primatologo inglese Richard Wrangham, che nel suo libro L’intelligenza del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo (Bollati Boringhieri) indica proprio nella capacità di cuocere il cibo l’elemento che ci ha cambiato più profondamente rispetto agli altri animali. Potendo passare meno tempo a masticare e digerire alimenti crudi, abbiamo potuto sviluppare fisico e cervello ma anche dedicarci ad altro, evolvendo il pensiero e lo stile di vita.
Cuocere le verdure: i pro e i contro
Ma oggi che si può scegliere fra cibo cotto e crudo senza che ci siano ripercussioni sulla taglia del cervello, che cosa dovrebbe guidarci nella scelta? A livello dei nutrienti qualcosa cambia, come spiega Spisni: «Con la cottura, per esempio, la fibra dei vegetali si concentra molto: pensiamo a quanto rimpiccioliscono cavoli e spinaci quando li cuciniamo rispetto a quando sono crudi. Cuocere le verdure, quindi, ci aiuta a introdurre la giusta quantità di fibre, che spesso nelle nostre diete scarseggiano, senza dover mangiare un campo di spinaci per riuscirci.
Anche il contenuto di vitamine è differente nei vegetali cotti e crudi perché alcune, soprattutto quelle del gruppo B come le vitamina B1 e B5, sono sensibili alla temperatura e molte, per esempio le vitamina C, E, K B12 e i carotenoidi, lo sono all’ossidazione: temperatura e ossidazione aumentano con la cottura, perciò il contenuto di queste vitamine si riduce nelle verdure cotte. L’altro problema è il dilavamento, ovvero il fenomeno per cui nutrienti come vitamine e minerali (stabili alle alte temperature) si disperdono nell’acqua di cottura. Vi si può però ovviare cuocendo i cibi al vapore».
Le vitamine delle carote e dei peperoni
Tutto ciò non significa che mangiare i vegetali crudi sia una scelta obbligata: uno studio dell’Istituto di scienze nutrizionali dell’università tedesca di Giessen, per esempio, ha dimostrato che nei crudisti i livelli di vitamina A e di beta-carotene sono analoghi a quelli di chi mangia anche vegetali cotti, ma sono più scarse le quantità dell’antiossidante licopene, un pigmento rosso abbondante in prodotti come pomodori e peperoni. La cottura dei pomodori, spezzando le pareti delle cellule vegetali, lo renderebbe infatti più disponibile. Qualcosa di simile accadrebbe con il beta-carotene nelle carote cotte (dove però pare ridursi il contenuto di polifenoli). I pomodori e i peperoni, per giunta, sono solanacee come le melanzane e le patate, e contengono perciò molecole tossiche che si inattivano con la cottura.
Fanno meglio i pomodori crudi o cotti?
Dobbiamo quindi abbandonare definitivamente l’insalata di pomodori a favore della salsa? «No, non occorre farsene un cruccio, basta alternare pomodoro cotto e crudo», risponde Spisni. «Esistono diete che consigliano di evitare le solanacee, ma con la moderazione e l’alternanza dei metodi di consumo non danno problemi; alcune poi, come melanzane e patate, è difficile che vengano mangiate crude». L’emblema del fatto che con i vegetali non bisogna vedere la questione in maniera troppo rigida sono forse i broccoli, che da crudi hanno livelli più elevati di sulforafano, una molecola che blocca la proliferazione tumorale, ma da cotti si arricchiscono di indolo, un composto che riesce a uccidere le cellule precancerose. Alla fine insomma quel che conta è mangiare frutta e verdura in abbondanza, scegliendo di cuocerle o meno a seconda di come ci piacciono di più perché così sarà più probabile consumarne quantità maggiori.
Intossicazioni alimentari: quali cibi rischiano di essere contaminati?
La faccenda si complica semmai tenendo conto del rischio di intossicazioni alimentari connesso ai cibi crudi, soprattutto carne, pesce e altri prodotti animali come latte e uova. In questi casi la probabilità che siano contaminati da batteri o germi patogeni non è così remota. Una recente ricerca di Hyejeong Lee, del Dipartimento di biotecnologia e scienze alimentari della Università Norvegese di Scienza e Tecnologia, ha dimostrato che nel pesce crudo o affumicato, oltre al batterio Listeria monocytogenes (che può contaminare il sushi), si trovano parecchi ceppi di batteri Aeromonas, anch’essi patogeni. Non solo, alcune specie di Aeromonas sono particolarmente efficienti nel trasmettere ad altri batteri la resistenza agli antibiotici. Perciò l’abitudine a mangiare pesce crudo, oltre a esporre a qualche poco piacevole sintomo gastrointestinale, potrebbe contribuire a diffondere batteri resistenti alle terapie. Non va meglio con la carne: uno studio dell’Istituto Federale per la Valutazione dei Rischi tedesco ha richiamato l’attenzione su fondute e bourguignonne, perché la carne in genere viene maneggiata cruda dai commensali, prima della cottura in olio. Gli autori raccomandano di assicurarsi che la carne raggiunga in ogni suo punto i 70 °C per almeno due minuti, per essere certi di eliminare i batteri del genere Campylobacter, che possono contaminarla.
Attenzione a sushi e tartare. Ma anche a uova e latte “genuini”
Dobbiamo allora dire addio a sushi e tartare? «Se il pesce e la carne sono stati ben conservati, abbattuti, macellati e si può avere la certezza che non siano contaminati, il consumo da crudi non è un problema», spiega Spisni.
«Anzi, il pesce crudo per esempio è una delle poche fonti alimentari di vitamina D ed è ricco di acidi grassi a lunga catena che sono molto sensibili alla temperatura elevata raggiunta in cottura. Tuttavia, non è facile assicurarsi che non ci sia alcun rischio microbiologico, e lo stesso vale per le uova: quelle del supermercato possono essere considerate un po’ più sicure perché più controllate rispetto a quelle di un pollaio casalingo, che è meglio mangiare cotte perché il guscio può ospitare batteri fecali in quantità. Il latte non pastorizzato poi è un vero “brodo di coltura” per batteri: non può essere sterile e occorre sperare che i germi presenti non siano patogeni o siano troppo pochi per dare problemi.
Chi ama il crudo a oltranza deve essere consapevole di esporsi a potenziali rischi, peraltro in cambio di vantaggi per la salute che non sono mai stati dimostrati: la probabilità di malattie metaboliche, cardiovascolari o di tumori non viene intaccata se si sceglie un’alimentazione crudista, senza contare che questi regimi spesso sono del tutto sbilanciati», conclude l’esperto.
VAI ALLA GALLERY
Fotogallery
11 cibi velenosi… che mangiamo abitualmente
Tratto dagli archivi di Focus. Perché non ti abboni?