Un romanzo perfetto: “Ritorno in Puglia” di Ferrante

L’invenzione della solitudine va bene, gli esperimenti vanno benissimo, Brooklyn è un posto simpatico, Marco Ferrante va molto meglio perché ha reinventato la narrativa con un romanzo tragico perfetto. No autofiction, no fiction, no interiorità, zero tinelli, semmai capannoni e castelli in aria e in terra, narrativa scritta dal narratore onnisciente. “Ritorno in Puglia” si chiama (Bompiani, da comprare subito), un ritorno nella scia di Brideshead, con i comizi agrari di Madame Bovary, Monsieur Homais compreso, amore, morte, politica, bêtise, sociologia della vita provinciale, aristocrazia di campagna, psicologie e caratteri straordinari, trama a incastro con prologo ed epilogo, incipit formidabile, lingua eccelsa italiana, e c’è perfino Londra oltre l’orizzonte di Tisa o di Tricase. Che colpo.  
      
Uno come Ferrante, che ad onta del cognome non ha nemmeno bisogno dell’anonimato femminile, arriva ai sessanta dopo venti passati a Martina Franca, luogo originario, si concede la gioventù liberale, l’ironia personale, un matrimonio e tre figli, lunghi racconti o romanzi d’ambiente e di battaglia, giornalismo, libri unici di ritrattistica moderna sugli Agnelli e su Marchionne, è pure un creativo che dirige le tv, e poi esplode nell’incontenibile gioia del racconto di una vera storia. Evita le “millanterie meridionali”: “…le strette provinciali che coprono il Salento… a ridosso delle coste diventano bizzose, dossi e curve le rendono meno sonnolente e di sera quasi avventurose, anche se non hanno più da tanto tempo il sapore di pirateria saracena e di altre millanterie meridionali”. Scarta ogni eccesso: “Voleva farle vedere la sua gioventù, normale, provinciale, romantica, con la quotidiana dose di problemi risolvibili, senza tragedie”.

Invece la tragedia dell’eroe arriva, e non vi dico quale ma come ogni tragedia è definitiva, perché l’inevitabile epico è in questa frase che dà la chiave: “Ignorare le sconfitte è una tecnica rassicurante, se le sconfitte ricambiano”. Roba forte, degna di De Roberto o di Verga, pura sapienza italiana dunque provinciale, classica.       
Fidarsi del multietnico, degli albanesi, provare empatia per la nave di emigranti colpita dalla motovedetta di centrosinistra, mandare avanti industria borghese-agraria e famiglia denaro moglie e figli e amici e osservatori di città e campagna, vivere nell’intreccio a fianco della guerra dei Balcani, esperire il mondo postdemocristiano, soggiacere alla “reputazione”, infine pagarla caro. Bernardo Bleve, l’eroe, ha un suo modo diretto e sensato di esistere, ama ignorare le sconfitte, ma loro non lo ricambiano, sono sleali in “tutto questo pakistan, questa incessante distesa di abbottabad, nonostante la bruttezza disordinata della modernità, nonostante la sciatta anomia della democrazia edilizia”. Era a suo modo un re. “Costruirono un piccolo modello dove c’era il mondo agrario come elemento di distinzione e di tradizione e l’imprenditoria come slancio verso il domani. Loro in mezzo, dinamici, pronti, vigili. Il tutto mescolato in un perfetto stile da stronzi che era in loro – totalmente in loro – già in partenza nel rispettivo bagaglio di singoli individui poi uniti dalle nozze”. Come si faccia a raccontare con ironia i presupposti di una tragedia non è facile sapere, Ferrante lo sa.

L’amico Peppino Inglese lo aveva avvertito. Sei uno snob, non ti importa di questa gente, “ti importa solo di te e della tua reputazione di aristocratico progressista… ma la reputazione ci distruggerà. Come fai a non capirlo?”. E “quell’osservazione – la reputazione ci distruggerà – aveva scalfito la sua luccicante carrozzeria, qualcosa che assomigliava a un forma di eleganza morale che lui coltivava e a cui teneva moltissimo”. Il fatto tragico è già nel formidabile incipit del romanzo: “Come estremi simbolici – avrebbe detto lui stesso – Bernardo Bleve detestava la commedia all’italiana e i lampioni a forma di palla”. Amava gli albanesi: “Gli sembravano meglio degli italiani, perché ci tenevano al suo punto di vista”. Una grande storia di narcisismo, di umanità, di etica privata, di odio insensato, in cui si fanno largo le lucertole ubriache di un bambino saccente, gli amori e il sesso di un cinico figlio e di un figlio sentimentale, le chiacchiere sublimi di una vecchia zia ricca che si chiama Osanna, le osservazioni sulfuree del colonnello Bentham, insomma un mondo tutto fatto e tutto nominato e immaginato con estremo risparmio di aggettivi inutili, fino alle confezioni delle bibite, alla catena di montaggio e packaging, alle fibbie, agli ovili antichi che fanno da riparo ai manigoldi. Questo libro di Marco Ferrante uno lo prende e non lo lascia più per nessuna ragione.

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