L’illustre censurato Brodskij, convinto che la biografia non facesse bibliografia
Adelphi ripubblica “Marmi” (109 pp., 10 euro), unica drammturgia dell’autore, a quarant’anni esatti dalla composizione.
“Esilio? Non è che il termine non mi piaccia, ma quando si vive in un posto per vent’anni non si è più in esilio. Si entra in una condizione di normalità. In secondo luogo – o forse in primo luogo – il termine ha un’ovvia implicazione melodrammatica. Ma non si può parlare degli aspetti drammatici della propria condizione di esiliato. E per una ragione molto semplice: negli ultimi trenta o quarant’anni spostarsi da est a ovest ha sempre comportato, per uno scrittore, un miglioramento di condizione. Uno scrittore che era in carcere a scontare una condanna, si ritrovava, in occidente, a insegnare all’università. Ogni giorno ci sono masse di persone che si spostano in cerca di lavoro e denaro. Penso ai messicani lungo il confine con gli Stati Uniti. Indiani che si trasferiscono in Arabia Saudita. Vietnamiti che fuggono dal Vietnam verso l’Australia. O gente dell’Europa orientale che si riversa in occidente in cerca di occupazione. Ebbene, di fronte a questa massa di persone, uno scrittore non può affermare in tono accorato che la propria situazione è difficile”.
Monologo impeccabile, di uno che era stato censurato solo quando gli era andata bene. Iosif Brodskij: a sedici anni tornitore, sezionatore di cadaveri, fuochista e operaio in Siberia. Poi cominciò a scrivere e venne denunciato all’unanimità dal Segretariato dell’Unione scrittori (ah, gli intellettuali, loro sì che si battono per le giuste cause!). Da lì, la nota trafila: arresti, confisca manoscritti, processi per parassitismo, ricoveri in ospedali psichiatrici tra overdose di tranquillanti e sveglie nel cuore della notte con immersione in vasche di acqua gelida, infine cinque anni a spalare letame a Norenskaja, Circolo polare artico. E revocata ogni possibilità di pubblicazione. Nel 1972 fu ulteriormente minacciato di internamento e il 4 giugno venne espulso dall’Urss.
Il virgolettato riportato qui sopra fa parte di un’intervista che si può ascoltare nello speciale che Radio Tre gli dedicò anni fa. Il consiglio è riascoltarselo tutto, per conoscere o ricordare una delle personalità poetiche e intellettuali più maestose che Russia abbia generato e perseguitato e che America abbia accolto e ricompensato.
Iosif Brodskij – “pesce sulla sabbia”, airone elettrico tra “l’Asia e l’Europa del cervello”, gatto veneziano (se avesse potuto reincarnarsi) – è sempre stato sé stesso per estremo presupposto ed estrema conseguenza. Estraneo a ogni retorica collettiva, respingeva il culto della sofferenza che “conduce alla poesia” e non credeva che la biografia facesse bibliografia. “Una sola notte con una ragazza” – diceva – “può far nascere una lirica immortale ben più di venticinque anni in un campo di lavoro”. Cominciò una conferenza all’Università del Michigan così: “Evitate di raccontare la storia si come siete stati trattati ingiustamente. Evitate la volgarità del cuore umano”.
Va quindi colta al volo l’occasione del suo ritorno in libreria con Marmi, l’unica drammaturgia a sua firma, riproposta oggi a quarant’anni esatti dalla composizione. Adelphi ci fa felici nel ripubblicarla (109 pp., 10 euro) ma rileggendola cresce il rammarico: quello di non essere stati a Vicenza a fine settembre 2016, quando al Teatro Olimpico andò in scena una versione non adattata ma del tutto reinventata, firmata dal regista Aleksandr Sokurov. A leggere in rete, l’allestimento non è che abbia mietuto grandi favori, ma poco male, Sokurov non è per tutti, ed è uno dei pochissimi che è così senza farlo apposta – le foto di scena raccontano il solito genio visivo con pochi rivali.
Anche il testo di Marmi è sorprendente. Insinuante, si dirama come una variazione lungo più temi musicali. Un’opera di pura gioia inventiva, imprevedibile a ogni riga, dissonante, comica, atroce, ribalda.
Qualcuno la definirà distopica solo per facilitarci il compito di togliergli il saluto, perché qui c’è, semmai, un pensiero che va oltre l’arsura cognitiva del formulettame: protagonista di Marmi è il tempo. La pièce – in cui si sfidano la realtà e la sua astrazione geometrica – è ambientata “nel secondo secolo dopo la nostra èra” in una torre vertiginosa in cui Publio, romano, e Tullio, barbaro, circondati dai busti dei grandi poeti classici, sono stati reclusi perché così vuole la riforma di Tiberio: un tot per cento di cittadini va blindato e la reclusione è una tassa inevitabile da pagare alla stabilità dello stato e della vita pubblica. I reclusi possono sperare nei figli, i quali potranno un giorno meritare cariche pubbliche, vantando il precedente familiare alla Torre. Publio e Tullio, un po’ accettando il proprio destino e un po’ no, discutono e immaginano, si ribellano ma sono inermi, condannati a “fondersi col tempo”. Nel frattempo disarmano ogni pensiero, si rinfacciano visioni del mondo, irridono “questa maledetta tautologia orizzontale” che è il mondo. Maestosa eccezione, la poesia. “Roma ha avuto tanti poeti. Anche tanti Cesari. Però la storia non sono loro. La storia è quello che hanno detto i poeti”.
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