Un libro ottimista, ma Rushdie non dimentica chi non lo ha difeso

Le parole sono parole. Un tribunale è un tribunale. Un coltello è un coltello. Quando Salman Rushdie arriva al Salone del libro di Torino, con il suo corpo sopravvissuto a un attentato islamista per un pelo, la realtà dello scrittore messo nel mirino della violenza politica e ideologica appare nella sua fisica crudeltà: l’occhio destro fuori uso e nascosto da una lente scura sulla montatura degli occhiali, la mano trapassata da parte a parte da una lama, la cicatrice visibile sulla guancia e quelle nascoste sotto la sua giacca scura.

Gli chiedono se ha sentito parlare della contesa tra il suo amico Roberto Saviano e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, definita “bastarda” da Saviano, che per questo è stato condannato al pagamento di mille euro. Lui risponde: “Sì, ne ho sentito parlare”. Forse non aveva sentito parlare di Luciano Canfora, antichista a cui è capitato di dire che Giorgia Meloni è una “nazista nell’animo” e per questo è stato querelato dal capo del governo. E forse non aveva nemmeno sentito parlare di Antonio Scurati e del suo monologo cancellato dalla Rai. Lo rendono perciò edotto della contesa degli intellettuali italiani con il potere politico, nell’intento di associare le mele e le pere, lui che vive dal 1989 sotto la condanna a morte dell’ayatollah Khomeini e due scrittori italiani portati davanti a un giudice che risponde alla legge di uno stato di diritto, più uno censurato dalla tv pubblica, ma non bandito dalla discussione nazionale, ci mancherebbe, e lui dice che “i politici dovrebbero farsi la pelle un po’ più dura, perché oltre ad avere grande potere hanno anche molta autorità. Quindi è normale che qualcuno tra la popolazione ne parli direttamente, magari male, anche usando una brutta parola come quella che ha usato Roberto”. E poi ecco il suggerimento per Meloni: “Le consiglierei di essere meno infantile e di crescere”.

E’ qui a Torino, Rushdie, per parlare del suo libro, “Coltello. Meditazioni dopo un tentato assassinio” (Mondadori), 234 pagine senza  una riga in cui si metta nel ruolo della vittima. Anzi, dice: “Quando ti trascinano in una rissa, sei costretto a reagire. E questo libro è la mia vendetta, la mia coltellata all’uomo che mi ha assalito”. Non lo cita mai per nome e cognome. Lo chiama soltanto: “A.” “Perché ha già avuto i suoi trenta secondi di celebrità e ora se ne può tornare nel proprio anonimato”. Parla dell’attentato, della riabilitazione, dell’amore, della felicità, in questo libro spudoratamente ottimista, in cui si augura che arriverà il momento in cui si leggerà il suo romanzo maledetto dalla fatwa islamista – I versi satanici – semplicemente come un’opera di fantasia, non più come un libro scandalo, un caso letterario. Rushdie è uno scrittore che vorrebbe scrivere e basta. E’ stato costretto dalle circostanze a incarnare la libertà d’espressione, a difenderla e a lottare per essa. Fa impressione il livello di sicurezza che lo circonda. Ti controllano dalla testa ai piedi prima di entrare nello stesso posto in cui c’è lui. Anche Roberto Saviano ha la scorta, certo. Ma c’è una differenza tra uno scrittore minacciato da un’organizzazione mafiosa e uno scrittore condannato a morte da un capo di stato politico e religioso, in nome di un religione monoteista, con licenza di uccidere consegnata a qualsiasi membro della comunità islamica, la cosiddetta umma, per di più dopo l’esecuzione. Farebbe bene a crescere Giorgia Meloni, d’accordo. Ma diventeranno mai adulti gli scrittori contro?

Quando nel 1989 la condanna a morte contro Rushdie fu spiccata, ci fu chi prese subito le sue difese. Christopher Hitchens, Susan Sontag, Umberto Eco. Ma ci fu anche chi si schierò dall’altra parte, chi gli disse che aveva mancato di sensibilità nei confronti della cultura islamica. Il Foglio lo ricorda a Rushdie, domandandogli se quegli intellettuali che non lo difesero hanno legittimato il bersaglio che gli hanno disegnato intorno alla  faccia (copyright Antonio Scurati). Risponde: “Per me è stato particolarmente doloroso subire degli attacchi non islamici. E’ stato uno choc perché erano tutte persone che io conoscevo e che reputavo mie amiche. Per fortuna sono una persona che si lascia le cose dietro alle spalle. Non sto lì a rimuginare. Ma i loro nomi me li ricordo dal primo all’ultimo”. In molti però li hanno dimenticati. John Le Carré disse: “E’ mia opinione che Rushdie non abbia nulla da dimostrare se non la sua insensibilità”. Lo storico Hugh Trevor-Roper dichiarò: “Non verserei una lacrima se qualche musulmano lo aspettasse in un angolo buio per insegnargli le buone maniere”. Cat Stevens, diventato musulmano con il nome di Yusuf, andò ancora più in là: “Sarei disposto a chiamare gli squadroni della morte, se sapessi dove si trova quel blasfemo”. Le parole sono parole. Un coltello è un coltello. In certe speciali circostanze la distanza tra le due cose si assottiglia pericolosamente. Ma bisogna essere molto bravi a capire quando.

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