Everest: cosa svelano le lettere di George Mallory

Che fine hanno fatto George Mallory e il suo compagno di scalata Andrew Irvine, che l’8 giugno 1924 scomparvero sulle pendici dell’Everest inghiottiti da una bufera di neve? I due riuscirono o no ad arrivare sul tetto del mondo?

Avvolti nel mistero. Nessuno sa se la coppia di alpinisti abbia raggiunto la vetta (e sia poi morta scendendo). Nemmeno il ritrovamento del corpo di Mallory, a 8.250 metri, avvenuto nel 1999, grazie all’alpinista statunitense Conrad Anker, ha fornito indizi utili. L’ultima tragica spedizione di Mallory e Irvine, resta dunque un mistero, ma per la prima volta sono state rese disponibili al pubblico alcune lettere, digitalizzate, tre delle quali trovate nella giacca del cadavere di Mallory, che fanno luce sulla vita privata e le avventure del celebre alpinista, vissuto a cavallo della Prima guerra mondiale.

George Mallory - Ultima lettera

L’ultima lettera scritta da George Mallory alla moglie Ruth, prima di partire dal campo base sull’Everest, è datata 27 maggio 1924.

Il primo tentativo. Tutto iniziò il 18 maggio maggio 1921, quando quattro alpinisti (Harold Raeburn, Alexander Kellas, George Mallory e Guy Bullock) e quattro scienziati (il naturalista e medico Sandy Wollaston, il geologo Alexander Heron e i cartografi Henry Morshead ed Edward Wheeler), guidati dal capo-spedizione, il colonnello Charles Howard-Bury, lasciarono Darjeeling, per quella che sarebbe passata alla Storia come la prima spedizione per tentare la conquista dell’Everest, la montagna più alta del mondo, con i suoi 8.848 metri sul livello del mare.

Problemi tecnici e burocratici. La spedizione, organizzata dalla Royal Geographical Society e dall’Alpine Club britannico aveva richiesto mesi di preparazione tecnica, ma non solo: fondamentale, infatti, fu l’opera diplomatica britannica culminata nel dicembre del 1920 con il permesso di attraversare il territorio del Tibet, concesso dal Dalai Lama.

DIETROFRONT. Una volta superati i 5.000 metri Alexander Kellas si accasciò e morì, probabilmente per un attacco cardiaco. Era il 6 giugno 1921, venne sepolto con una semplice cerimonia e la spedizione proseguì. George Mallory e il compagno Guy Bullock riuscirono, dopo diversi tentativi, a raggiungere i 7.000 metri del Colle Nord, ma furono costretti a tornare sui loro passi per il vento e le temperature proibitive. Ci furono altri due tentativi: nel 1922 e nel 1924.

L’ultima chance. George Mallory (l’unico a essere sempre presente durante le spedizioni: nel ’21, nel ’22 e nel ’24) e Andrew Irvine: furono avvistati per l’ultima volta l’8 giugno 1924 alle 12:50, dopo aver lasciato il campo base a quota 8.170 metri, prima di far perdere per sempre le proprie tracce, avvolti da una bufera di neve e dal mistero.

Corrispondenza preziosa. Oggi, per sapere qualcosa in più del celebre alpinista, si possono leggere le sue le lettere online grazie all’archivio digitale reso disponibile dal Magdalene College dell’Università di Cambridge, dove Mallory si laureò in Storia.

Il carteggio più significativo è quello scambiato con la moglie Ruth, in cui documenta le sue principali imprese di ricognizione, quando ancora non si sapeva nemmeno se fosse possibile instaurare un campo base sull’Everest, tra queste, figura la sua ultima lettera, in cui confessa alla moglie che le possibilità di successo per la scalata sono una su cinquanta. La lettera più drammatica, invece, è quella in cui racconta la seconda spedizione (1922), in cui persero la vita otto sherpa dell’Himalaya, letteralmente il “popolo dell’Est” (shar significa “est” e pa “popolo”), travolti da una valanga, disastro per cui Mallory si sentì in colpa fino alla fine dei suoi giorni.

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Un doppio ritratto prismatico: la “tabula scalata”

Tra l’invasione di immagini generate con l’IA, dipinti caserecci in vendita online e capolavori del passato onnipresenti fino alla nausea, ogni tanto succede ancora di imbattermi in rete in piccole chicche che non conoscevo e che penso meritino un po’ di diffusione.
Stavolta è capitato a un dipinto con un doppio ritratto di Maria e di Gesù realizzato su una superficie percorsa da prismi verticali in legno, attribuito alla cerchia di Guido Reni .

Guardando il dipinto dai due lati compaiono i volti separati mentre nella vista frontale appaiono fusi in un’alternanza di fascette.

Quando l’ho visto mi sono venute in mente certe figurine animate di quando ero piccola che sfruttavano lo stesso principio a livello microscopico per creare un effetto di movimento.

Un giochino da precinema su cui si era cimentato anche il mitico Jacovitti…

Ma torniamo alla pittura. Documentandomi sul doppio ritratto di Maria e Gesù ho scoperto che appartiene a una tipologia chiamata con il termine latino di tabula scalata, un genere che ha avuto un breve momento di gloria a partire dal Cinquecento – il secolo delle Wunderkammer e delle curiosità visive – per espandersi poi nel Seicento, l’epoca del Barocco e dell’illusionismo prospettico, come conseguenza degli studi sulle anamorfosi ottiche e catottriche. Il termine sarebbe stato introdotto nel 1646 dallo studioso Athanasius Kircher per indicare immagini “a forma di scala”.
Questo, per esempio, è uno dei tanti studi teorici sulla tabula scalata ad opera del matematico Jean-François Niceron riportato nel suo La perspective curieuse del 1638.

Niceron tratta questo argomento subito dopo la teoria dell’anamorfosi perché, anche in questo caso, esistono dei punti di vista precisi – previsti dall’artista – per poter vedere bene le immagini, sebbene queste non subiscano deformazioni.
L’immagine tipica è un doppio volto a tema sacro, come in questo pezzo di Matteo Rosselli (1578-1650) del 1640, conservato al Museo d’arte sacra di San Gimignano, che raffigura Cristo e Maddalena.

Un’altra opera dello stesso autore raffigura invece San Francesco e Santa Chiara.

La tabula scalata, però, non è solo un semplice esperimento ottico, ma nella sua duplice unicità allude alla complementarità delle due figure. Il significato si fa più evidente nell’esemplare del 1580 di autore ignoto conservato alle National Galleries of Scotland. Le due immagini infatti raffigurano una giovane donna (ritenuta per lungo tempo Maria Stuarda) e un teschio, le cui viste intersecate (ma che passano dal volto della ragazza al volto della morte muovendosi da sinistra verso destra) costituiscono un evidente memento mori. 

C’erano tuttavia anche dipinti meno moraleggianti, soprattutto ad opera del francese Gaspar Antoine de Bois-Clair (1654-1704) che ha usato questo genere per ritratti di coppia.Questo è quello che raffigura il re Federico IV e la regina Luisa di Meclemburgo-Güstrow, reali di Danimarca nei primi del Settecento. Lui è ritratto in armatura, con la veste di incoronazione foderata di ermellino, lei è drappeggiata in abiti cremisi in seta e pizzo. Il dipinto, creato su piccoli prismi di legno, era un prova di virtuosismo oltre che una manifestazione di devozione verso i regnanti.

Lo stesso artista è autore di diversi ritratti doppi “lenticolari” di tipo non religioso, come quello sottostante.

Oltre a questi esempi, tutti con prismature verticali, ne esiste anche qualche rara versione con prismi orizzontali, come nel disegno di Niceron. Uno dei pochi esemplari conosciuti, ad opera di Ludovico Buti  e conservato all’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, era posto sopra una porta, in modo da permettere la vista dal basso dell’effigie di Carlo II e, attraverso uno specchio posto sulla sommità, il volto della figlia Cristina di Lorena. Per consentire una visione più ravvicinata, oggi il dipinto è esposto in orizzontale dentro un apposito telaio.

Nell’Ottocento la tabula scalata divenne un prodotto più a buon mercato perché creata con stampe piegate a zig zag invece della pittura a olio su una superficie in legno. Questo, per esempio, è un doppio ritratto di Napoleone e di suo figlio basata su due incisioni intersecate.

Nello stesso periodo si diffuse anche una versione a “trittico”, detta trisceneorama, nella quale le due immagini laterali sono dipinte sui due lati di listelli verticali perpendicolari al fondo, sul quale viene dipinta una terza immagine. Ma qui cominciamo ad avvicinarci pericolosamente al kitsch…

Oggi il processo della tabula scalata è stato soppiantato dalla stampa lenticolare con particolari prismature che consentono effetti tridimensionali dinamici come nell’immagine qui sottto.
Tuttavia ci sono artisti che continuano a utilizzare ampie superfici a zig zag per creare dipinti a doppia immagine, come la pittrice canadese Carol Cooper.

Allo stesso tempo ho scoperto che lo street artist ROA ha usato questo sistema per un’opera creata sopra una chiusura a soffietto: una prismatura perfetta per una doppia immagine!

Quella della tabula scalata potrebbe essere un simpatico esercizio per unire fantasia e manualità. Sopra un foglio di cartoncino piegato a zig zag si possono applicare due ritratti tagliati in strisce oppure si può pensare di intersecare due fotografie o qualsiasi altra immagine.
Io ho fatto un piccolo esperimento con il doppio ritratto per eccellenza, quello dei duchi di Montefeltro di Piero della Francesca.

Usando un programma di grafica ho diviso ciascuna immagine in dieci strisce della stessa larghezza.

Poi le ho affiancate alternandole per creare una sola immagine.

Ho stampato questa “fusione” dei due dipinti e l’ho pazientemente piegata a fisarmonica.

A questo punto basta guardare da un lato e dall’altro per rivedere i due ritratti separatamente.

Certo, si tratta giusto di un giochino. Ma come tutti i giochi che sovvertono le nostre abitudini visive, è un buon punto di partenza per imparare a guardare consapevolmente e per scoprire che gran parte delle nostre “visioni” (nel senso di convinzioni) dipendono più che altro dal punto di vista che abbiamo scelto. Ma di sicuro ce n’è sempre almeno un altro!

Raffinato ma capiente: il vaso da zenzero nei dipinti

Di questo curioso vaso panciuto  mi sono accorta osservando una natura morta di Paul Cézanne del 1895 intitolata Pot de gingembre (ginger jar in inglese), cioè “vaso da zenzero“.

In effetti non era la prima volta che lo vedevo: Cézanne lo ha inserito in decine di dipinti, probabilmente per la sua forma molto semplice assimilabile a un solido geometrico (era lui quello che intendeva «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono»). Eccolo in una Natura morta con mele del 1893-1894, avvolto da una reticella dotata di manici.

Non conoscendo bene quest’oggetto, ma essendo un’appassionata di design dei contenitori (in passato ho scritto dell’aryballos, del rhyton, del calice römer e del cassone nuziale) ho iniziato a documentarmi, scoprendo una storia affascinante e un repertorio vastissimo.
Ma andiamo con ordine: cos’è esattamente il vaso da zenzero? E quando compare per la prima volta in pittura?
William Henry Hunt, Natura morta con vaso da zenzero, 1825, acquerello su carta, cm 19×25, Yale Center for British Art, Londra
Secondo gli storici nacque in Cina durante la dinastia Tang (618-907) come contenitore per le spezie. La sua forma tipica è globulare, con un collo brevissimo e una larga bocca spesso dotata di coperchio. Il vaso è generalmente in porcellana, materiale perfezionato nella stessa epoca simile alla terracotta ma basato su un impasto di caolino e quarzo. Il risultato è un prodotto particolarmente duro ma sottile, dalla superficie liscia e brillante.
Con la dinastia Ming (1368-1644) i vasi da zenzero assunsero una colorazione prevalentemente bianca e blu cobalto e decori a forma di piante, animali o paesaggi. Non mancano anche vasi di colore verde – generalmente esagonali – o decori policromatici.

Questi vasi, che intanto in Cina erano diventati oggetti preziosi di grande valore simbolico (ma ve n’erano anche versioni povere per il trasporto), sbarcarono in Europa nella seconda metà del XVII secolo con l’intensificarsi degli scambi commerciali di tè con l’Estremo Oriente. Nella stessa epoca la conoscenza della cultura cinese venne diffusa in Europa dal gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) attraverso il suo trattato La Chine illustrée de plusieurs monuments tant sacrés que profanes.Naturalmente si tratta di descrizioni piuttosto fantasiose perché il monaco non si recò mai in Cina ma utilizzò i materiali inviati dai missionari. Non solo: tutto il suo lavoro era teso a dimostrare che la civiltà cinese discendesse da quella egizia (per fare questo paragonò i geroglifici ai segni della scrittura cinese) e che in origine fossero cristiani (questo giustificava le missioni gesuitiche che avrebbero dovuto far “riscoprire” ai cinesi le loro radici).

Al di là di questi aspetti, la moda delle cineserie impazzò presto in tutta Europa. Avere una stanza “alla cinese” divenne quasi un obbligo in ogni palazzo reale e ben presto si tentò di imitare sia la porcellana sia le sue decorazioni (la famosa ceramica di Delft blu e bianca nasce come tentativo di copiare i vasi provenienti dalla Cina).
Stanza della porcellana, 1763-1764, Palazzo di Schönbrunn, Vienna
È in questo periodo, tra Seicento e Settecento, che il vaso da zenzero compare nei dipinti olandesi (non è un caso: gli olandesi erano grandi navigatori e commercianti) assieme ad altri prodotti costosi come calici veneziani, bicchieri römer, tazze ricavate da conchiglie nautilus, vassoi in argento, tappeti orientali nonché agrumi del Mediterraneo.Tuttavia non si tratta solo di prove di virtuosismo o di celebrazioni della ricchezza dei committenti: queste tele sono sempre vanitas, ammonimenti visivi che ci ricordano la brevità della vita e dei suoi piaceri, come suggerito nella tela seguente da un piccolo orologio aperto sul tavolo.
Willem Kalf, Natura morta con vaso in porcellana cinese, 1669, olio su tela, cm 78×66, Indianapolis Museum of Art
Juriaen van Streeck, Natura morta con tazza di nautilus e vaso di zenzero, 1660-1687, olio su tela, cm 49×41, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Appartengono a questa epoca e alla stessa area geografica alcune curiose riproduzioni in argento del vaso da zenzero cinese, con decorazioni riprese dal repertorio classico e dimensioni decisamente maggiorate. Il vaso in foto è alto 42 cm mentre gli originali cinesi vanno dai 18 ai 26 cm di altezza.

Dopo questo primo momento di gloria il vaso da zenzero ricompare nei dipinti nell’Ottocento, in un momento in cui inizia a diventare un oggetto più a buon mercato ampiamente diffuso nelle case europee.Eccolo in un quadro del 1869 dell’olandese Maria Vos (1824-1906), in cui è raffigurato un angolo di un negozio di antiquariato coi suoi ricchi decori blu che risaltano sui toni caldi dell’insieme.

Qui invece è stato dipinto nel 1876 dallo statunitense William Michael Harnett (1848-1892) con la stessa rete impagliata usata per il trasporto che abbiamo visto all’inizio nelle opere di Cézanne.

La cordicella è presente anche nella tela del 1890 del pittore americano di trompe l’oeil John Frederick Peto (1854-1907).

Il britannico Henry Stacy Marks (1829-1898) ha scelto invece di rappresentare il vaso da zenzero nelle mani dell’antiquario Frederick Litchfield, un fine intenditore di ceramiche cinesi bianche e blu, così di moda tra il 1870 e il 1890. Qui sta esaminando un vaso dell’epoca Kangxi (1662-1722).

Accanto al collezionismo di pezzi originali esisteva un’ampia produzione inglese, tedesca e statunitense che riprendeva la forma tondeggiante del vaso da zenzero applicando sulla superficie colori e decori di tradizione europea. Ne sono stati realizzati anche esemplari con motivi vegetali in rilievo, in stile Art Nouveau, e con finiture iridescenti a lustro. Ma i pittori preferivano sempre gli originali!

Il vaso da zenzero era un oggetto talmente famoso che alcuni artisti erano anche grandi collezionisti. Tra questi lo statunitense James Abbott McNeill Whistler (1834-1903), proprietario di una collezione di oltre duecento pezzi (non solo barattoli da zenzero…), di cui alcuni visibili in questo Autoritratto nello studio del 1865.

Whistler è anche autore di un disegno in stile giapponese del 1878 che raffigura il tanto amato vaso cinese…

… nonché dell’allestimento tra il 1876 e il 1877 della Peacock Room (stanza del pavone) per le porcellane cinesi del magnate britannico della navigazione Frederick Leyland, nella sua casa di Londra (oggi la stanza è esposta allo Smithsonian di Washington).

Qualche anno dopo, esattamente nel 1885, un bel vaso da zenzero esagonale, di colore turchese, compare in un’insolita natura morta di Vincent van Gogh, circondato da alcune mele e usato come vaso da fiori.

Quella di riempirlo di fiori è una scelta abbastanza frequente, come dimostrano tanti dipinti di fine Ottocento/inizio Novecento.
Floris Arntzenius, Nasturzi in vaso da zenzero, 1890-1925
George Hendrik Breitner, Vaso di fiori, 1900-1923
Frans Oerder, Anemoni in vaso da zenzero, 1910-1944
Un vaso da zenzero con fiori si trova anche in un suggestivo dipinto del 1916 dell’olandese Jan Mankes (1889-1920)…

… e in tanti quadri di Henry Matisse, come questa Natura morta con Pensieri di Pascal del 1924…

… e questa Natura morta con limoni del 1943.

Insomma, questo vasetto così esotico non smise di esercitare il suo fascino per oltre trecento anni! Ne restò incantato persino l’ideatore del Neoplasticismo Piet Mondian (guarda caso un olandese).Nel 1901, quando non aveva ancora intrapreso il suo percorso verso l’astrazione, ne dipinse uno esagonale, di colore turchese, assieme a cinque mele e un piatto sopra un piano ricoperto da un drappo. È chiaro che, come in Cézanne, l’intento non è la creazione di una vanitas bensì quello della ricerca geometrica e compositiva.

Il vaso da zenzero ritorna dieci anni dopo, quando Mondrian conobbe le opere cubiste di Pablo Picasso e Georges Braque, come oggetto su cui sperimentare nuovi linguaggi. Nel 1911 dipinge Natura morta con vaso da zenzero I, una vista del tavolo da lavoro che ricorda ancora le nature morte della tradizione se non fosse per il trattamento sintetico degli oggetti.

Dell’anno seguente è Natura morta con vaso da zenzero II, una composizione di gusto cubista nella quale l’unico tocco di colore è il celeste del contenitore cinese.

Sappiamo come proseguirà il suo percorso: al posto di vasi e tavoli solo linee verticali e linee orizzontali; al posto delle nuance ocra e turchesi solo toni di grigio e piani rossi, gialli e blu.
Il vaso di zenzero stava per completare il suo ciclo vitale nella pittura, ma rimane nelle opere conservate nei musei, a testimoniare il contatto creativo tra cultura materiale e riflessione concettuale e le epoche passate di fertili scambi estetici tra oriente e occidente.

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