L’arte del trucco e parrucco nell’antica Roma

Trucco, canoni estetici, moda: il tema della bellezza è sempre strettamente legato alla società che si vuole raccontare. Per questo entrare nel “beauty case” di una matrona romana è come aprire un libro di storia: vi si possono leggere pregiudizi e ideali, contaminazioni culturali e gusti sessuali. Ovviamente, proprio perché l’arco temporale – dall’antica Roma repubblicana a quella imperiale – è particolarmente ampio, altrettanto vasto ed eterogeneo è il nostro racconto. A complicare le cose, il fatto che le fonti a noi pervenute sono filtrate da un’ottica maschile non propriamente benevola nei confronti delle donne truccate, anzi spesso decisamente derisoria. 

Vanità e lusso. Secondo i padri della satira, attraverso i belletti le donne intendevano infatti “adombrare il vero” e a questo tipo di maquillage affibbiarono un nome: ars fucatrix (ovvero l’arte del trucco ingannatore). Marziale e Giovenale non lesinarono giudizi pungenti sulla moralità femminile puntando il dito contro le stravaganze, dai costi eccessivi, dei loro costumi. Nel 215 a.C. si decise di limitare le spese delle matronae romane con la Lex Oppia, una legge suntuaria che imponeva molte limitazioni all’esibizione del lusso ridimensionando l’uso di abiti preziosi, gioielli, carrozze. La legge venne abolita vent’anni dopo. Sappiamo, però, che la vanità non fu certo unico appannaggio femminile.

Terentius Neo e la moglie, Pompei

Unisex. Ritratto di Terentius Neo e sua moglie, da Pompei. Entrambi hanno le sopracciglia folte e unite tra loro.
© Wikipedia

Depilazione unisex. La depilazione corporea, per esempio, pare fosse un’usanza unisex. Prova ne sono le varie statue di eroi e divinità completamente glabre. Radersi il viso era obbligatorio per quasi tutte le classi sociali e i giovani romani celebravano l’entrata nel mondo adulto con il taglio della barba, che veniva poi conservata in appositi contenitori come ricordo di giovinezza. Nella sua Vita dei Cesari, Svetonio narra che Cesare teneva particolarmente alla rasatura meticolosa di volto e corpo, per cui veniva sbeffeggiato dai contemporanei. Leggiamo anche che Domiziano, “libidinoso fino all’eccesso”, usava depilare personalmente le sue concubine, e che Augusto si preoccupava di rendere lisce le proprie gambe con l’utilizzo di gusci di noce roventi.

Le sopracciglia folte e unite tra loro in un unico arco erano una moda condivisa tanto dalle nobildonne quanto dalle donne del popolo. Come la moglie del panettiere Terentius Neo (I secolo d.C.), in un ritratto rinvenuto a Pompei. L’uso di peluria posticcia è documentato nel Satyricon di Gaio Petronio Arbitro, in cui si racconta la vicenda di Encolpio e Gitone che, per rendersi irriconoscibili durante una fuga, si rasarono per intero e, una volta smascherati, ripristinarono la loro immagine grazie all’intervento di un’ancella che “tirò fuori da uno scatolino delle sopracciglia finte”.

Sempre nel Satyricon, leggiamo che un semplice contatto con il veleno della salamandra poteva provocare la caduta di tutti i peli del corpo.

La cura della pelle. I canoni estetici prevedevano un incarnato morbido, chiaro ma vivace, radioso. Per ottenere questo aspetto, le cosmetae (makeup artist ante-litteram) preparavano fondotinta chiari e unguenti a base di lanolina, sostanza grassa ricavata dalla lana grezza delle pecore, con effetti idratanti ed emollienti. Era diffusa l’abitudine di arrossare ginocchia, gomiti e piante dei piedi con l’henné, nonché dorare le punte dei seni, probabilmente con lo zafferano. Labbra e gote erano truccate con cinabro, pigmento di mollusco o ocra rossa. L’ambiziosa Poppea, donna di straordinaria bellezza, dedicava particolari cure alla sua pelle e usava bagnarsi nel latte d’asina: secondo Plinio il Vecchio (autore delle Naturalis Historia, preziosa antologia di scienza, ma anche di cosmetologia) era un ottimo rimedio contro le rughe. Si narra che per questo la seconda moglie dell’imperatore Nerone viaggiasse sempre portando con sé una mandria di asine. Leggiamo da Plinio anche della crocodilea, o “sterco di coccodrillo”: sostanza intestinale di una specie di gechi, chiamati “coccodrilli terrestri”, dal potere schiarente e astringente.

meglio le bionde. Come mostrano svariati ritratti delle imperatrici romane, donne influenti che dettavano tendenza, molte indossavano parrucche; il contatto con il mondo germanico favorì la moda dei capelli biondi. Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, e l’imperatrice Faustina ne possedevano a centinaia, molte delle quali di colore flavus (biondo), spesso ricce e con trecce. Per schiarire i capelli, invece, ci si affidava al succo di limone e all’acqua distillata di fiori di ligustro. Ovidio, nell’Ars amandi, consigliava di tingere i capelli o di “portare i capelli di un’altra”. Lo stereotipo per cui gli uomini preferiscono le bionde, e che viene solitamente fatto risalire agli Anni ’50 del Novecento, pare proprio avere origini ben più antiche.

Cosa mi metto? Le matrone romane indossavano una tunica di lino lunga fino alle ginocchia e fuori casa si avvolgevano in un mantello detto palla, ampio circa 1,5 m e lungo 3 (così poteva essere tirato sopra la testa). In età repubblicana, infatti, era costume che le donne uscissero velate: nel II secolo a.C. il console Sulpicio Galba divorziò perché la moglie aveva osato girare in città a capo scoperto. Fu soltanto in età imperiale che le donne iniziarono ad avere una crescente indipendenza, potendo sfoggiare liberamente le loro migliori acconciature e, in alcuni particolari casi, divorziare dal marito mantenendo la dote.

Le patrizie più abbienti amavano ricoprirsi di perle e pietre preziose importate dall’India e dal Baltico. Nota è la forma a serpente di alcuni bracciali, animale simbolo di rinnovamento per via della muta della pelle.

Fascino bizantino. Con l’espansione della sua egemonia in tutto il Mediterraneo, la cultura romana subì una conseguente contaminazione anche nello stile. Dapprima, la moda “alla greca” e dal IV secolo d.C., con lo spostamento del potere in Oriente, l’interesse per i beni superflui e il lusso bizantino si fecero sempre più presenti, sostituendo nel tempo quei valori di sobrietà tipici della romanitas, ormai considerata anacronistica. Teodora (500-548) era la moglie di Giustiniano e come possiamo ammirare nei mosaici di San Vitale, a Ravenna, faceva grande uso di cosmetici. Amava i profumi rari, spesso “indossati” alla cintola impregnando i fazzoletti. Gli occhi, in precedenza semplicemente contornati con lo stibium (dal latino “bastoncino”, da cui deriva il simbolo Sb che rappresenta l’elemento chimico dell’antimonio, usato per il trucco ottenuto con l’apposito utensile), ora erano dipinti anche con vari pigmenti; il dotto lacrimale veniva addirittura colorato di rosso.

Concorsi di bellezza. Per comprendere a fondo quanto l’aspetto contasse, basti pensare che proprio in quest’epoca sono documentate procedure molto simili ai moderni concorsi di bellezza per scegliere la sposa dell’imperatore. Pare che gli addetti a questo delicato compito (spesso inviati dalla futura suocera) misurassero l’altezza e le gambe delle fanciulle per accertare ogni compatibilità con quelle dello sposo, portandosi dietro una sagoma dell’imperatore per accostarlo alla candidata. 

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