Le indomite e tragiche voci letterarie di Palestina

Ma a non essere cambiato è il senso tragico da cui sembra muovere nel profondo quella letteratura, anche quando assume toni più intimi. È l’ineludibilità del legame fra storie personali e storia collettiva: ineludibile sempre, nella vita di chiunque, ma a maggior ragione quando la vita sia connotata appunto da eventi drammatici. E del resto lo confermano, per primi, i tre curatori dell’opera: “Questa nuova edizione intende confermare i caratteri tematici e le problematiche inevitabilmente legate alla tragedia palestinese delle guerre e dei decenni e decenni di esilio, ma soprattutto è mossa da una condizione di necessità e di urgenza”.

Il contenuto delle poesie e dei racconti

Naturalmente i piani del discorso vanno tenuti ben distinti: la bellezza di un’opera non dipende dal suo valore politico, o dal suo retroterra. Il punto non è dunque quello di valutare le opere raccolte in questa antologia alla luce di un’opzione ideologica, o di una necessaria presa di posizione; il punto è che non esiste uno scritto fra quelli raccolti, poesia o breve racconto che sia, che non sembri provenire da una ferita, da una perdita, da un’assenza. Sono scritture la cui qualità letteraria, sempre altissima, trascende qualunque altra considerazione e basterebbe da sola a sé stessa; ma nelle quali in ogni caso affiora quasi sempre, come osservava già Luce d’Eramo nella prefazione delle edizioni precedenti, conservata anche in questa, “un nuovo bisogno di capire”, seppure insieme a desideri e moti di “rivolta”: “Serpeggia la collera”, scriveva Luce d’Eramo, e tuttavia, “anche quando l’accento è posto sulla tristezza, irrompe in uno slancio in avanti”.In generale, sembra di leggere in queste scritture quasi l’inveramento di un’etimologia: quella del termine “parola”, che in arabo deriva da “ferita”. Perché qui davvero le parole sembrano sempre incarnare in sé stesse delle ferite, sembrano sempre in sé stesse lacerate. Alcune sono ricorrenti, nei testi di tutti: ad esempio “morte”, “sangue”, “buio”, “polvere”, “patria”, “ritorno”. Ma è come se scrivere rappresentasse una forma, oltre che di lacerazione, anche di purificazione: come se nominare certe parole fosse un modo per evocare sì l’immanenza di ciò che esprimono (la morte, l’esilio, la sofferenza), ma anche per esorcizzarla, per cercare di liberarsene; come se il presente nel quale i testi di tutti sono sprofondati fosse sì sempre uguale a sé stesso, nel dolore che lo segna, ma contenesse comunque anche delle aperture quantomeno di luce.

Mahmud Darwish

Ed è forse proprio a questo che vogliono fare riferimento i versi di Mahmud Darwish posti in esergo, quando dicono: “Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, ch’io possa/fondar la mia strada su pietra di pietra (…) e tu parla, così da conoscere dove/abbia termine il viaggio”.È questo in definitiva – questa commistione di lacerazione e purificazione – l’elemento più ricorrente nei testi che compongono l’antologia. In quelli degli autori classici, quali lo stesso Mahmud Darwish o Ghassan Kanafani su tutti, come in quelli dei più giovani, quali Naiwan Darwish o Hiba Abu Nada. Proprio Hiba Abu Nadu era stata capace di scrivere versi di speranza anche nei giorni e nelle notti di questi ultimi mesi: “Ti regalo un rifugio nel sapere/che la polvere si diraderà,/e coloro che si sono innamorati/e sono morti insieme/un giorno rideranno”. Sono versi datati 20 ottobre 2023: la loro autrice sarebbe morta il giorno stesso, nel corso di un attacco aereo israeliano.

La terra più amata. Voci della letteratura palestinese, a cura di Wasim Dahmash, Tommaso Di Francesco, Pino Blasone, manifestolibri, 2024, 264 pagine, euro 20

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