Claudio Pacifico: “Uno stuntman non può mai essere triste”

“Non ci deve essere, perché la paura è ignoranza. C’è paura di ciò che non conosciamo, e questo condiziona mente e corpo”. Intervista all’attore acrobata, controfigura anche in “Il padrino – Parte III”, “Gangs of New York”, un paio di “Mission: Impossible”

È caduto da cavalli, palazzi e montagne, s’è rovesciato con la barca, è finito in acqua con l’automobile, ha preso fuoco tante volte, qualcuna è esploso. Claudio Pacifico, romano, 61 anni il 9 maggio scorso, è uno stuntman di lunga data che ha lavorato con produzioni nazionali e internazionali e in film come “Il padrino – Parte III”, “Gangs of New York”, un paio di “Mission: Impossible”. Stunt coordinator, maestro d’armi, pilota quasi di tutto, ha controfigurato celebri attori e fondato The Stunt Pro dove insegna il mestiere che ereditò dal padre Benito, volto noto degli spaghetti western e dei poliziotteschi. Oggi molti suoi allievi lavorano sui set in giro per il mondo.

Ci vuole un pizzico di follia?

Proprio il contrario: nemmeno un briciolo. Quando ti propongono una certa scena d’azione cominci subito a fare tutti i calcoli, a prendere le misure, a pensare alle attrezzature necessarie, a studiare ogni minimo dettaglio.

Paura ce n’è?

Non ci deve essere, perché la paura è ignoranza. C’è paura di ciò che non conosciamo, e questo condiziona mente e corpo. Nel vocabolario di uno stuntman la paura è sostituita da un’altra parola: il rispetto. C’è rispetto della situazione, della scena che dovrai allestire o girare tenendo conto dei rischi che comporta e delle possibilità di controllarli e gestirli.

Ma i pericoli sono oggettivi.

C’è pericolo quando non si sa bene cosa si sta facendo. Preferisco parlare di rischi.

La scena più rischiosa che ha girato?

Fu per una serie di documentari sugli incidenti più assurdi realmente accaduti ma con lieto fine. In quel caso, impersonavo un tizio risucchiato fuori da un piccolo aereo a causa di una portiera aperta. Restavo aggrappato con le mani a circa mille metri di altezza, senza paracadute.

È una vita quantomeno dura.

È dura perché bisogna prepararsi a essere pronti per qualsiasi offerta di lavoro, tanto che alla fin fine ho rischiato più negli allenamenti che sui set. Facendo base jumping credo di essermi lanciato da qualsiasi cosa e mi sono arrampicato in situazioni estreme. C’è però un fattore essenziale oltre al senso di responsabilità: ci si deve divertire, anche quando si monta una scena complicata. Lo stuntman resta un po’ bambino. O, se vuole, un goliarda razionale. Non può prendere la faccenda con tristezza, altrimenti è una tortura.

Cioè, deve piacere anche cascare da cavallo.

Certo che sì, ma senza farsi male e senza farlo a lui, che è il tuo “collega” di lavoro. L’obiettivo è sempre portare a casa due cose: la scena e la pelle.

Ha qualche “ferita di guerra”?

Niente di che. Gli incidenti più seri sono stati una lussazione a un piede e una alla spalla destra.

Quali sono le sue specialità?

Ci sono stuntman che ne hanno una sola, per esempio le automobili, e c’è chi ne sviluppa tre o quattro. Io sono tra quelli che hanno esercitato il mestiere in tutte le specialità, dal cadutismo al combattimento alla scherma di ogni tipo. La versatilità offre più possibilità professionali e regala la soddisfazione personale di esplorare e di perfezionarsi. È una filosofia che mi ha insegnato il kung fu: anche quando monto a cavallo non pratico equitazione, ma kung fu.

Qual è l’età migliore per uno stuntman?

Generalmente si dà il massimo dai 30 ai 40 anni, ma per chi è preparato bene anche a 50 e oltre. L’altr’anno ho sostenuto un combattimento sulla neve, in mezzo a una tormenta, per un episodio di ‘Mr. & Mrs. Smith’. Per durare occorre, è inutile sottolinearlo, anche una certa disposizione mentale.

Quanto assomiglia il lavoro dello stunt a quello circense?

La tecnica di un volteggio magari è la stessa, ma c’è una distinzione fondamentale. Il circense ripete tutti i giorni una medesima gamma di esercizi, lo stuntman invece si prepara un mese per una certa performance in funzione di un film e il mese dopo deve allenare tutt’altro. La differenza è nel continuo adattamento.

Quale massima impartisce ai suoi allievi?

Mai dire “non ci riesco”, bensì “quando ci riesco”. Se c’è impegno diventa solo questione di tempo. È chiaro però che se una persona è terrorizzata dall’altezza potrà anche imparare a cadere da dieci metri, ma non sarà mai una prestazione consona alla sua natura.

Dunque stuntman a tutto campo si nasce?

Senza dubbio è innata quella scintilla in più. Altrimenti, ci si limita ad alcune specialità.

Quando esordì nel cinema?

A 17 anni. Il primo giorno di lavoro feci un combattimento con Franco Nero ne ‘Il giorno del Cobra’. Mio padre venne a vedermi e rimase stupito perché la scena era impeccabile.

Quali attori ricorda con più piacere?

Kabir Bedi, che controfigurai ne ‘Il ritorno di Sandokan’, mi telefonò per ringraziarmi all’uscita del film girandomi i complimenti che aveva ricevuto lui. Poi Daniel Day-Lewis: partecipai a ‘Gangs of New York’, coordinai anche le scene d’azione e fui colpito dal suo perfezionismo quasi ossessivo. E Al Pacino, che nel ‘Padrino – Parte III’ mi suscitò una impressione mai provata prima né dopo: quando entrò in scena la sua recitazione mi trasferì in un’altra dimensione. Non mi sembrava cinema, ma la realtà.

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