Moka d’autore da William Kentridge a Venenzia
Nei giorni dell’inaugurazione della 60esima Esposizione internazionale d’arte a cura di Antonio Pedrosa, il disegnatore si autoritrae come “coffee-pot”. A colloquio con l’artista sudafricano che ama il ruggito del silenzio
“Come ci siamo conosciuti?”, chiede William Kentridge a Lia Rumma. Siamo a Venezia, nei frenetici giorni d’inaugurazione della 60esima Esposizione internazionale d’arte a cura di Antonio Pedrosa. Kentridge è in Laguna con Self-Portrait as a Coffee-Pot, la sua nuova mostra all’Arsenale Institute for Politics of Representation aperta fino al prossimo 24 novembre. “Ti ho cercato io”, gli risponde lei. “Mi aveva attirato un tuo disegno che avevo visto in un catalogo più di venti anni fa. Ho memorizzato quel nome che ho poi ritrovato, tempo dopo, tra i partecipanti di una collettiva romana a Villa Medici. Presi il primo treno e arrivai di corsa, trovandoti lì, circondato dagli altri ospiti e artisti, tu non sapevi neanche chi fossi. Mi presentai e senza giri di parole ti proposi di fare una tua personale nella mia galleria a Napoli”.
Era il 1999 e William Kentridge – “che accettò all’istante”, precisa lei – non era ancora l’artista sudafricano noto in tutto il mondo per i suoi film animati, disegni, arazzi, sculture, produzioni teatrali e liriche come lo è oggi. Lia Rumma, invece, era già Lia Rumma, la gallerista più importante che abbiamo in Italia – visto che aveva già scoperto (o rappresentava già), tra i tanti, Marina Abramovic, Ugo Mulas, Anselm Kiefer, Michelangelo Pistoletto, Enrico Castellani, Vanessa Beecroft, Joseph Kosuth e Alberto Burri, giusto per citarne qualcuno – la donna che in quel momento esatto decise che gli avrebbe cambiato la vita portandolo, per prima con la sua galleria, in tutta Europa. “Il legame di Kentridge con la città di Napoli è stato sempre molto stretto, perché è un posto che ama particolarmente”, aggiunge la gallerista che nel 2012 gli fece realizzare la monumentale decorazione parietale a mosaico (Ferrovia Centrale per la città di Napoli, 1906-Naples Procession) per l’atrio della stazione Toledo della metropolitana partenopea e la statua in bronzo con un cavaliere che guarda su piazza Bovio, che da quelle parti tutti chiamano piazza Borsa. Di recente, proprio negli spazi della sua storica galleria in via Gaetani (che ha anche una sede milanese in zona La Simonetta/Cenisio), è ospitata la mostra Waiting to Forget Something, un poetico e variegato corpus di opere su carta e sculture recenti con le quali Kentridge conferma la sua capacità di tenere insieme la natura delle emozioni e della memoria, il rapporto tra desiderio, etica e responsabilità. Sempre a Lia Rumma deve poi la possibilità di aver rappresentato Il Flauto Magico al Teatro San Carlo e poi al Teatro alla Scala a Milano come la recente mostra You Whom I Could Not Save a Palermo, ospitata nel cuore delle architetture di evocazione piranesiana del Monte dei Pegni di Santa Rosalia di Palazzo Branciforte. Un incontro, il loro, “che si è trasformato in amicizia”, dicono quasi all’unisono, anticipando in parte quanto ha detto successivamente il presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, all’incontro con Papa Francesco durante la visita del Padiglione del Vaticano, sull’isola della Giudecca: “Noi incontriamo l’altro perché – poveri dentro di noi – vogliamo riempire noi stessi dell’altro con l’incontro e il dialogo”.
Mentre parliamo con Kentridge, pensiamo all’installazione Triumphs and Laments che realizzò nel 2016 a Roma sui muraglioni nel tratto del Tevere tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini, un lungo fregio composto da 80 figure alte fino a 10 metri, che è durato quello che aveva preannunciato (circa cinque anni), perché realizzato con un procedimento di pulitura della patina biologica, dello smog e della sporcizia accumulati sul marmo dei muraglioni. Lo sporco si è ricreato come previsto e quelle immagini sono scomparse nell’oblio, ferme solo nella memoria di chi ha potuto ammirarle. Quella parete è tornata di nuovo scura come una lavagna ed è pronta per essere riscritta e riutilizzata di nuovo, ma non è nelle intenzioni dell’artista, almeno per ora. Durante la pandemia non ha mai smesso di scrivere e di disegnare al chiuso nel suo studio di Johannesburg e il risultato è proprio questa nuova mostra veneziana che ricrea in parte quell’ambiente dove sono stati girati i nove video che costituiscono le opere dell’esposizione i cui diritti di streaming globali sono stati acquistati da MUBI, una produzione The Office Performing Arts + Film con Louverture Films e il William Kentridge Studio.
La curatrice della veneziana Self-Portrait as a Coffee-Pot – sostenuta da Goodman Gallery, Lia Rumma Gallery e Hauser & Wirth – è Carolyn Christov-Bakargiev, sua grande amica (fu lei stessa a curare la mostra a Villa Medici dove Kentridge e Lia Rumma si conobbero), autrice della fondamentale monografia sui suoi lavori pubblicata nel 1998, ex direttrice del Castello di Rivoli e prossima protagonista, in autunno, dell’attesa grande mostra sull’Arte Povera alla Bourse de Commerce-Pinault Collection, nostra indimenticabile guida alla grande personale che la Royal Academy of Arts dedicò all’artista sudafricano nel 2022. Insieme a lui, stavolta ci porta al piano terra di quello spazio diretto dal filosofo Wolfgang Scheppe, dedicato a ricerche e mostre che si occupano di critica dello spettacolo, indagando la politica della rappresentazione nello spirito del Situazionismo. Sulle pareti come sui tavoli e i ripiani ci sono fogli dappertutto con scritte blu (This, you say, is my life, Oh to believe in another world, A harvest of devotion, A Board shall carry the Voice) – colore leitmotiv della mostra – che sono poi i titoli di quei video. In Journey to the Moon, Kentridge cita intenzionalmente il celebre film di Méliès ispirato all’omonimo libro di Jules Verne e attingendo ai propri personali accessori di scena, concentra l’azione sulle trasformazioni di una tazzina e sull’inaspettata capacità di una caffettiera di volare come un’astronave con la musica di Philip Miller. I disegni della moka sono sparsi ovunque e la stessa diventa così il simbolo di quella mostra/studio, un luogo dell’anima e dei pensieri, a sua volta emblema del nostro vivere quotidiano. È un omaggio al cineasta francese anche 7 Fragments for Georges Méliès dove Kentridge dirige la telecamera su sé stesso, descrivendo momenti di ricerca, dubbio e fervore creativo. In Day for Night, invece, prende spunto da una vera invasione di formiche accaduta nel suo studio di cui ne segue le gesta mentre vagano sui suoi fogli di lavoro, fino a tracciare con lo zucchero alcune sagome per filmare la fila che segue il percorso. Invisible Mending, Balancing Act, Tabula rasa I, Tabula rasa II (Good Housekeeping), Moveable Assets, Auto-Didact e Feats of Prestidigitation sono invece le proiezioni che compongono l’installazione. In Oh to Believe in Another World fa riferimento alla caduta in disgrazia degli intellettuali utopisti attraverso la storia di Dmitri Shostakovic e con The Weight of words analizza, come suggerisce il titolo, il peso della parole, “che è fondamentale”, ci spiega lui a voce.
Nel frattempo ci siamo spostati nella cucina al primo piano, in un appartamento con una vista magnifica sull’isola di San Giorgio e il Lido, impreziosita da opere di Magritte, Jorn Asger, Marie Letz, Guy Debord e Kazimir Malevich. “Le persone oggi non danno il giusto valore alle parole ed è un grave errore, perché le stesse possono ferire e fare molto male. L’abuso o il cattivo uso che se ne fa, è sinonimo di un’ignoranza diffusa in ogni ambito. L’ignoranza dell’informazione è una di quelle. Nel mio piccolo – lo dico senza falsa modestia – mi accompagna un continuo senso di incertezza e di dubbio, una sensazione che è divenuta ovviamente più forte durante la pandemia. Nello studio di un artista – inteso come luogo e pensiero – tutto si basa sull’incertezza e sul dubbio, che sono poi le cose che ci portano a studiare di più, ad analizzare, a confrontarci e quindi a creare”. “La mia – aggiunge – non è mai stata una visione né solo ottimista né solo pessimista della vita, ma un mix di entrambe. Se uno è solo ottimista, non vede le cose brutte del mondo; se è solo pessimista, non si apre al futuro”.
Su un’altra parete notiamo che su un altro cartoncino c’è la scritta The silence roars, il silenzio ruggisce, cioè fa rumore, che è ciò che Kentridge ama particolarmente. “Ho una paura razionale di quello che accade nel mondo, ma ho soprattutto paura di me stesso”, ci confida. “La mia idea d’inferno?”, aggiunge. “Essere da solo in una spiaggia”. Osservando come si muove tra tutte quelle persone che visitano la mostra, ne abbiamo conferma. Camicia bianca con maniche rigirate e pantaloni blu, Kentridge ama stare tra la gente: accoglie gli ospiti come fosse casa sua, risponde a chi chiede informazioni scambiandolo per una guida o un selfie ed è così che in quello spazio espositivo fisico l’installazione diventa un luogo vissuto tra uno spazio privato e uno pubblico, tra lo studio di un artista solitario profondamente immerso nell’autoriflessione e lo spazio gioioso del gioco infantile e di collaborazione con altri.
Classe 1955, nato a Johannesburg, Kentridge ha un metodo che combina le tecniche più diverse, come già ricordato, per creare opere d’arte che hanno fondamenta nella politica, nella scienza, nella letteratura e nella storia, pur mantenendo uno spazio di contraddizione e incertezza. “La sua arte – ci spiega Carolyn Christov-Bakargiev – affonda le proprie radici nel suo paese d’origine e nasce dal tentativo di affrontare la natura delle emozioni e della memoria umana, nonché il rapporto tra conoscenza, desiderio, etica, pratica e responsabilità. Indaga su come le nostre identità vengono modellate attraverso le nostre mutevoli idee di storia e luogo, osservando come costruiamo le nostre storie come forme di collage e cosa ne facciamo, sia a livello individuale che nella collettività”. Tutto il suo lavoro in studio ci mostra cosa c’è al di fuori di esso ed è sorprendente. “La sua – aggiunge – è a tutti gli effetti un’arte elegiaca ma allo stesso tempo beffarda che esplora le possibilità della poesia nella società contemporanea, anche in assenza di visioni utopiche per il futuro, e fornisce un acerbo commento satirico sulla nostra società, proponendo al contempo un modo di vedere la vita come un continuo processo di cambiamento e incertezza piuttosto che come un mondo controllato dai fatti”. Le tensioni che hanno caratterizzato gli anni dell’apartheid in Sud Africa e le contraddizioni che successivamente hanno segnato il difficile percorso di riconciliazione (“Da privilegiato – dirà – mi sono sentito molto in colpa. In quanto sudafricano bianco, il mio lavoro deriva dal mio rapporto con quella stessa colpa, la responsabilità, la storia e la connessione personale”) sono il contesto all’interno del quale sono nate molte sue opere. In alcune ci sono personaggi inventati come Soho Eckstein e Felix Teitlebaum, un imprenditore bianco il primo e un sognatore il secondo, suo alter ego. Adesso come allora disegna e cancella e quel cancellare – “aderente all’amnesia nei confronti delle ingiustizie che affliggono l’essere contemporaneo” – lo fa disegnare ancora. Quei brevi episodi da trenta minuti pensati originariamente per essere fruiti come una serie online, ai cellulari o alla tv, sono un esperimento ben riuscito, una vera e propria incarnazione fisica e di esperienza fenomenologica del reale nell’era digitale, oltre che essere una riflessione “su ciò che oggi potrebbe accadere nel cervello e nello studio di un artista che diventa così anche una testa espansa, una camera di pensieri e riflessioni dove tutti i disegni, le foto e i residui sulle pareti diventano questi stessi pensieri”.
“Nel mio cervello c’è una grande confusione, come può averla chi fa tante cose insieme, ma è piacevole”, ci dice lui sorridendo. Le sue opere, soprattutto quelle che vediamo a Venezia, sono in realtà un inno alla libertà artistica, rilevando allo stesso tempo, in maniera quasi profetica, la mancanza di libertà tipica dei nostri spazi chiusi. “E’ scioccante quando un computer sa più di noi su noi stessi – aggiunge prima di salutarci – quando ciò che supponiamo sia una nostra libera scelta è stato effettivamente previsto da uno stupido algoritmo”. Nel frattempo, Roger Tatley, direttore della Goodman Gallery, ci fa vedere una t-shirt creata apposta per la mostra con le scritta Starve the algorithm (fronte) e I don’t always agree with myself (retro). “Sì, ci sono cose che possiamo fare meglio grazie al computing, ma è disastroso se la tua vita è controllata e manipolata da un algoritmo a cui non hai accesso, incomprensibile anche a chi lo ha creato. Tutti vogliono credere nel caso nella vita, quindi l’algoritmo diventa una specie di nemico. Il problema vero è che cediamo volentieri la nostra autonomia. Tra mille certezze, ce n’è una, almeno per me. L’Intelligenza Artificiale non mi fa paura, la vedo come un aiuto in più. La cosa di cui si deve avere paura è come la stessa possa cambiare il senso di realtà creando fake news e non solo. È l’uso che se ne fa che può essere pericoloso, non la stessa in quanto tale. Non mi fa paura, poi, perché non penso affatto che le macchine potranno mai distruggerci, perché la specie umana è insostituibile”.
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