31 luglio 1954: Achille Compagnoni e Lino Lacedelli conquistano il K2, 8.611 metri, la seconda vetta più alta del mondo. Seconda rispetto all’Everest (8.848 metri), ma prima assoluta in quanto a difficoltà per le sue caratteristiche, cui si aggiungono il gelo e l’eccezionale variabilità e violenza del clima, oltre alla progressiva carenza di ossigeno dovuta all’altitudine. La spedizione era coordinata dal campo base da Ardito Desio, uno dei più grandi esploratori e geologi italiani, morto nel 2001 all’età di 104 anni.
UNO SU CINQUE MUORE. Il K2 è considerata la montagna più difficile da conquistare, peggio del suo unico fratello maggiore, l’Everest.
Dopo l’impresa di Compagnoni e Lacedelli sono state meno di trecento le persone che hanno avuto successo (contro le oltre tremila dell’Everest) e chi tenta l’impresa ha il 20% di possibilità di non fare ritorno.
Il K2 è caratterizzato da pareti ripide, passaggi alpinistici estremamente difficili, clima imprevedibile e tempeste che durano giorni. L’Everest, qualche grado più a sud, è meno scosceso ed è ritenuto abbordabile anche per alpinisti relativamente meno esperti. Ma chiunque provi a scalare i giganti della Terra deve affrontare due nemici mortali quanto i crepacci: il freddo e l’altitudine.
Su Focus in edicola fino al 13 agosto: K2, ieri e oggi, un confronto tra l’attrezzatura usata 70 anni fa e quella di oggi.
Su Focus Storia in edicola fino al 13 agosto: Italiani in vetta, il racconto della spedizione di Ardito Desio.
Su Focus Tv, il 31 luglio alle 21:05: K2 – La Gloria e il Segreto, una produzione originale in occasione dei 70 anni della conquista del K2
Il nome K2 sta per Karakorum 2, cioè la seconda cima del Karakorum. Il “2” però nasce da un errore di misurazione e come K1 del Karakorum venne indicato il Masherbrum, che invece è una cima di “soli” 7.821 metri. |
© Kuno Lechner, 1986
MAL DI MONTAGNA. Gli effetti dell’altitudine possono essere devastanti per il corpo e la mente di un uomo. Molti resoconti di chi ha raggiunto le vette del mondo parlano di uno stato di apatia al momento del trionfo, ai limiti dell’esperienza extra-corporea.
Quando si sono verificate tragedie o difficoltà in alta quota le ricostruzioni poi sono spesso risultate discordanti, viziate da allucinazioni, falsi ricordi, stati di annebbiamento prolungato. Nei casi più gravi l’altitudine può uccidere e, ancora oggi, non è perfettamente chiaro come questo accada.
Il mal di montagna – in inglese acute mountain sickness (AMS) o altitude illness – è causato dal mancato adattamento dell’organismo alla ridotta presenza di ossigeno (causata dalla minore pressione atmosferica) che genera uno stato di generale ipossia. Può colpire a partire dai 2.500 metri, a seconda delle persone.
Primi sintomi sono mal di testa, perdita di appetito, nausea, spossatezza, vertigini e insonnia. Appena si avvertono è necessario interrompere l’ascesa e, se stando fermi i sintomi non passano, bisogna immediatamente ridiscendere a quote più basse. Per evitare il mal di montagna la regola aurea degli alpinisti è “scala in alto, dormi in basso”: si può cioè salire anche di oltre mille metri di quota in un giorno, a patto che la notte si dorma molto più in basso, preferibilmente mai a più di 300 metri di dislivello dalla tappa precedente.
La spedizione italiana del 1954. Dal 1902 al 1954 si fecero cinque tentativi di scalare la vetta del K2. Il primo, guidato dallo scrittore esoterista britannico Aleister Crowley, si fermò a 6.600 metri a causa del maltempo. Negli anni Trenta una spedizione americana fallì per… mancanza di fiammiferi per accendere le stufe!
Guardando l’itinerario della spedizione italiana del 1954 si vede come i campi, in particolare dal secondo in poi, siano distanziati di circa 300 metri di altezza l’uno dall’altro. Gli alpinisti passarono circa due mesi – da fine maggio a fine luglio – abituando il corpo alla sempre crescente altitudine, ma questo non bastò a evitare che il mal di montagna facesse danni e anche vittime. Mario Puchoz, guida alpina trentaseienne di Courmayeur e reduce della campagna di Russia, morì al campo II poco oltre i 6 mila metri di quota. All’epoca si diagnosticò una polmonite fulminante, mentre la medicina moderna ritiene invece che si trattò di edema polmonare da alta quota.
IL FISICO NON RISPONDE. L’edema polmonare è l’accumulo di fluidi nei polmoni, che impedisce agli spazi aerei dei polmoni di aprirsi e riempirsi di aria fresca a ogni respiro. Quando ciò accade, chi ne soffre si trova sempre più in carenza di ossigeno, il che peggiora l’accumulo di liquidi. Può risultare fatale nell’arco di ore. Ai primi sintomi (tachicardia, affanno, tosse con espettorazione di schiuma sporca di sangue) è necessario scendere immediatamente a quote più basse. Malgrado anni di ricerca, le cause precise dell’edema polmonare da alta quota rimangono incomprese.
Edema polmonare: quando si è in carenza di ossigeno, nel sangue si formano sostanze che possono danneggiare direttamente la membrana che divide il sangue dall’aria (nei polmoni come nel cervello) e causare un’ulteriore perdita di fluidi che peggiora l’edema.
Un discorso analogo vale per l’edema cerebrale da alta quota, che consiste nell’accumulo di fluidi nel cervello, forse – ma anche qui le cause non sono ancora chiare – dovuto a un aumento del flusso sanguigno come risposta alla diminuzione di ossigeno. I sintomi sono mal di testa, confusione, letargia e, in casi gravi, coma. Il rimedio è, ancora, scendere immediatamente di quota, ma si può usare anche un sacco iperbarico (o sacca Gamow) come misura temporanea per aumentare la pressione. Non tutti corrono il rischio di edema cerebrale: statisticamente, colpisce l’1% di chi supera i 3 mila metri, ma ancora oggi non è possibile prevederlo.
Oltre una certa altitudine il mal di montagna diventa un rischio sempre più frequente e con sintomi sempre più violenti: confusione, psicosi, allucinazioni e – nel caso non si intervenga – raptus, coma e infine morte. Diversi membri della spedizione italiana sul K2 e molti hunza pakistani (i portatori) furono costretti, una volta giunti agli ultimi campi, a fermarsi e tornare indietro per consentire al fisico di recuperare energie e adattarsi.
LA ZONA DELLA MORTE. Ma oltre un certo limite non è possibile andare. La chiamano la zona della morte, quella sopra i 7.800-8.000 metri, oltre la quale un essere umano, per quanto coperto, allenato ed equipaggiato, non può stare più di qualche giorno al massimo senza andare incontro a morte certa. Qui il fisico non si abitua mai alla carenza di ossigeno, le cellule cominciano progressivamente a morire e le funzioni vitali dell’organismo si riducono fino al decesso. Anche chi utilizza bombole d’ossigeno deve combattere gli effetti della bassa pressioni sul cuore, sui reni, sulla respirazione. Ogni minimo movimento causa tachicardia e affanno, per quanto si beva si è sempre disidratati e per quanto si dorma non si recuperano mai le energie.
Fu proprio nella zona della morte che la spedizione italiana del 1954 incontrò le maggior difficoltà. Questa è ancora la cronaca di quegli eventi
Il bivacco di Bonatti e Mahdi. Gli eventi a cavallo tra il 30 e il 31 luglio 1954 daranno vita alle polemiche note come caso Bonatti, il cui ruolo fu a lungo sottovalutato nelle relazioni ufficiali e pienamente riconosciuto solo a distanza di decenni.
Il campo VIII – il penultimo – viene montato a 7.627 metri il 28 luglio 1954. I primi tentativi di montare l’ultimo campo, a 8.100 metri, falliscono. Il 29 luglio Compagnoni e Lacedelli tentano invano di scalare un muro verticale di ghiaccio e rientrano distrutti di fatica all’ottavo campo. Altri quattro membri del gruppo, tra i quali il ventitreenne Walter Bonatti, partono dal campo VII per portare le bombole di ossigeno ai due compagni, ma uno è costretto a discendere fino al campo base a causa del mal di montagna e un altro è troppo affaticato per proseguire. Le bombole restano dunque al settimo campo, mentre Compagnoni, Lacedelli, Bonatti e Gallotti dormono all’ottavo campo.
Il giorno successivo Compagnoni e Lacedelli montano l’ultimo campo a 8.100 metri, più in alto di quanto concordato con Bonatti. Questi, risalito con le bombole dal settimo campo insieme all’hunza Amir Mahdi, non riesce a raggiungerli in tempo ed è costretto a passare la notte tra il 30 e il 31 luglio all’aperto, su di un terrazzino di pochi metri scavato nella neve con le piccozze, affrontando un bivacco notturno senza tenda e senza sacchi a pelo mentre nella notte si scatena una bufera. Mahdi è in stato confusionale, mezzo assiderato, e Bonatti deve trattenerlo più volte per evitare che cada nel canalone. Nessuno dei due farà ricorso all’ossigeno destinato ai compagni.
31 luglio 1954, la piccozza con la bandiera italiana sul K2 (vedi gallery qui sotto).
© Achille Compagnoni
Il 31 luglio Mahdi, ancora confuso e con un grave congelamento degli arti (a causa del quale in seguito subirà diverse amputazioni) ridiscende prima dell’alba, seguito poco dopo da Bonatti. Compagnoni e Lacedelli recuperano le bombole dal bivacco improvvisato e danno l’ultimo assalto alla vetta, che raggiungono alle 18.
Sulla vetta, dove nessun essere umano era mai stato prima di loro, piantano una piccozza con le bandiere italiana e pakistana. Per i 23 anni successivi la vetta del K2 rimarrà inviolata.
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Karakorum, il K2