Kafka superstar e il suo fascino intramontabile

L’angoscia, certo, ma anche un lato solare, un figlio mai conosciuto e molti struggenti amori. E tuttavia una sola fedeltà: alla letteratura

Da lui emanava una potenza insolita che non ho più incontrata. Non pronunciava mai una parola insignificante… Nonostante la timidezza, era considerato da persone eminenti un essere eccezionale”. Così tramanda Max Brod, autore di una prima biografia di Kafka e suo grande amico. Kafka invece la vedeva diversamente. Questo l’autoritratto che delineò in una lettera (mai spedita fortunatamente) al futuro suocero, padre della fidanzata Felice Bauer, la destinataria di lettere straordinarie, considerate parte dell’opera e fondamentali per capirne la personalità: “Sono un uomo chiuso, taciturno, poco socievole, malcontento, senza che ciò costituisca per me un’infelicità, perché è soltanto il riflesso della meta. Tutto ciò che non è letteratura mi annoia e provoca il mio odio, perché mi disturba o mi è d’inciampo”. Per cui giustamente conclude che Felice “con me dovrà essere infelice”. Non che non aver spedito la lettera avrebbe salvato quel fidanzamento. Franz non era fatto per il matrimonio e di fedeltà ne conosceva una sola, alla letteratura appunto.

Le donne però s’innamoravano di lui, della sua fragilità e della sua bellezza scarna, dei suoi occhi chiari, della sua imprendibilità anche, probabilmente. E non solo le donne. Ne erano affascinati i colleghi intellettuali perché, come scrive Milan Kundera in Praga, poesia che scompare, pubblicato ora da Adelphi, quella città già negli anni Venti “fu uno dei centri più dinamici del pensiero e della sensibilità moderni”. Vi si muovevano personalità come Franz Werfel, Egon Erwin Kisch, Jaroslav Hasek, Vladimir Holan, cui sarebbe seguito negli anni Trenta il Circolo linguistico che inventò lo strutturalismo. E poi c’era il musicista Leós Janácek, fervente militante antiaustriaco, “insieme a Kafka, la più grande personalità dell’arte moderna del suo paese”, scrive Kundera che ricorda come lo stesso Brod condusse “a favore di questo compositore screditato e geniale, una battaglia così appassionata e importante che Kafka non ha esitato a paragonarla a quella degli intellettuali francesi per Dreyfus”.
Ma non è per questo che Kafka esercita nel tempo un fascino intramontabile e potente, e neppure probabilmente – sempre citando Kundera – perché fu “il primo a realizzare la fusione alchemica di sogno e realtà (non ancora postulata dai surrealisti), a creare un universo autonomo dove il reale sembra fantastico e dove il fantastico smaschera il reale”. Non è per questo che il suo nome è diventato un formidabile aggettivo e parlano di “situazione kafkiana” anche quelli che non l’hanno mai letto, ma che sanno per sentito dire delle sue perenni indecisioni sentimentali e delle tribolazioni come impiegato di un Istituto di assicurazioni. Nessuno, nemmeno Proust si direbbe, è entrato così fortemente nella fantasia e nel linguaggio delle persone. Con la parola kafkiano s’intende un sentimento di minaccia indecifrabile, un senso enigmatico di disagio nello stare al mondo, e di pericolo. Il 3 giugno si celebra il centenario della morte e non si contano gli omaggi, le trasmissioni radiotelevisive a lui dedicate, gli articoli commemorativi, convegni e nuovi libri che escono sulla sua figura.

L’editore Clichy si è affidato per raccontare il grande praghese ai geniali fumetti dell’illustratore viennese Nicolas Mahler con A tutto Kafka: dai difficili rapporti con il padre, a quelli annoiati con l’ebraismo (“Che cosa ho in comune con gli ebrei? Neppure con me stesso ho quasi nulla in comune”); da quelli ottimi con il canottaggio (possedeva un sandolino con cui andava su e giù per la Moldava) a quelli complicati con le donne: “Siamo entrambi sposati” scrive a uno dei suoi grandi amori, la giornalista Milena Jesenská, per dimostrarle l’impraticabilità della relazione, “tu a Vienna, io a Praga con l’angoscia, e non solo tu, ma anch’io, trasciniamo invano il nostro matrimonio”. Fino all’ultima opera, Il digiunatore, della quale per la prima volta non è insoddisfatto (la definisce “sopportabile”).
Il Saggiatore ha portato invece in libreria (oltre alla riproposta delle opere in nuove traduzioni) Gli anni della consapevolezza, dal 1915 al 1924, terzo volume della biografia monumentale – e splendida nella scrittura – di Reiner Stach nella traduzione del filologo (e kafkologo) Mauro Nervi. Gli altri volumi sono I primi anni e Gli anni delle decisioni. Sembra incredibile che una vita breve come quella che toccò a Kafka, nato a Praga il 3 luglio 1883, morto quarantunenne in una casa di cura a Kierling (Vienna) il 3 giugno del 1924, una vita scarna di avvenimenti e dove la tisi venne a bloccare non solo i propositi matrimoniali, del resto coltivati controvoglia, ma anche i viaggi che avrebbe intrapreso con gioia, sembra incredibile che Stach abbia trovato tanto materiale per i suoi tre corposissimi volumi. Ma è una biografia che non si limita a raccontare i fatti e a compulsare documenti. E’ appassionante perché riesce a interpretare e approfondire anche la più piccola traccia, ipotizza e trae conseguenze insieme al lettore, scopre in una cartolina, cui altri magari non hanno dato la minima importanza, la chiave per decrittare comportamenti. Sorprende, semmai, che Stach non faccia parola del fantomatico figlio di Franz, di cui lui probabilmente non seppe mai nulla, vissuto solo sette anni, dal 1914 al 1921, che lo scrittore avrebbe avuto da uno dei suoi grandi amori naufragati, Grete Bloch, finita poi in un lager nazista come altre donne ebree della sua vita, da Milena alle sorelle.

Eppure Roberto Calasso, grande cultore del praghese, in una pagina di Memè Scianca (Adelphi) ne ha rivelato, per conoscenza diretta, la reale esistenza. Frau Bloch, infatti, era stata amica dei genitori di Calasso e della sua madrina e a loro aveva confidato la segreta, dolorosa maternità, oltre ad avergli affidato una valigetta piena di lettere di Kafka, prima di andare a morire in una camera a gas.
E’ stato Felix Guattari nelle brevi riflessioni di Sessantacinque sogni di Franz Kafka e altri scritti (Orthotes) a parlare di “effetto Kafka”, per spiegare “questo fenomeno probabilmente unico, quanto a intensità e persistenza, nella storia della letteratura moderna”. Dice il filosofo francese: “L’effetto enigmatico, l’ambiguità permanente generata dai testi di Kafka dipende, secondo me, dal fatto che essi scatenano nel lettore, parallelamente al loro livello di discorso letterario manifesto, un lavoro di processo primario attraverso il quale riescono a esprimersi le potenzialità inconsce di tutta un’epoca. Di qui la necessità, per rendere conto di questa dinamica, di non isolare i dati letterari da quelli biografici e storici”. E in effetti, quando si parla dello scrittore, non si può evitare di parlare dell’uomo. Per esempio le Lettere (a Felice e a Milena e ad altre), non sono solo “il suo primo grande capolavoro”, secondo Guattari, ma la reale “presa di possesso epistolare di una donna che inizialmente è quasi sconosciuta e che si finisce per sedurre e imprigionare a distanza, fino a turbarla gravemente”. E che la vita sia in lui inseparabile dalla letteratura lo confermano Marco Rispoli e Luca Zenobi nell’introduzione a Un altro scrivere, epistolario di Kafka e Max Brod, riproposto ora da Neri Pozza: “La tendenza a fare di ogni lettera l’occasione per creare un brano letterario, attraverso un processo in cui ogni cosa, ogni esperienza – e da questo non sono esclusi il proprio corpo e la propria persona – diventa segno e metafora”. Kafka ne era perfettamente consapevole. In quella famosa lettera a Felice scrisse (perché non ci fossero dubbi?): “Io sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro”. Ancora un ritratto viene da Isaac B. Singer nel racconto Un amico di Kafka (Adelphi) quando fa dire al protagonista: “Desiderava ardentemente l’amore e lo fuggiva. Scriveva una frase e subito la cancellava …voleva essere ebreo, ma non sapeva come si faceva. Voleva vivere, ma non sapeva come fare nemmeno quello”.
A indagare  l’enigma che l’autore del Processo continua a rappresentare, ci sono adesso anche i nuovi libri di due narratori italiani, Mauro Covacich, triestino del 1965, e Giorgio Fontana, lombardo del 1981. Covacich nel suo Kafka (La Nave di Teseo) stabilisce un vero corpo a corpo, appassionato e impetuoso, con chi già a vent’anni sosteneva: “Abbiamo bisogno di libri che ci travolgano come una disgrazia… un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi”. Come non condividere? Illustra Covacich: “La vera sincerità non è raccontare una cosa aderente ai fatti, la vera sincerità, quando scrivi, è mettersi in gioco, sempre, fino all’ultimo giorno, totalmente”.

E anche: “L’opera d’arte non è un fatto, meno che meno un oggetto (un libro), l’opera d’arte è un processo. E’ il risultato di una ricerca personale e solitaria, che tuttavia prende senso solo dall’ascolto di un popolo, sia esso di topi o di umani, poco importa”, e il riferimento è allo straordinario racconto finale Josefine, la cantante, o il popolo dei topi, incarnazione della figura di un’artista, della sua voce sgraziata che pure riesce ad ammaliare. E perché ammalia quel suo “fischiettare”, in fondo identico al fischiettare di tanti altri topi? Qual è la magia dell’arte? Resta un mistero “quella grande impressione che ella lascia in chi la ode cantare”, scrive Franz. Ed è un mistero che Josefine, come qualsiasi artista, tenga tanto a essere apprezzata e poi sia “lei stessa a sottrarsi al canto e a distruggere il potere che si era conquistata sugli animi”. Ma il suo dovere l’ha fatto: ha dato voce a un popolo, all’inconscio agitarsi di pensieri e paure che non arrivavano a essere dette. Ora può tornare nell’ombra, e persino essere dimenticata. E’ un destino che Kafka sente suo, anche se lui non sarà dimenticato.
E non lo sarà finché avremo voglia di leggerlo, non perché si deve, ma per “posare la testa sul suo petto”. Splendida immagine che lo stesso Franz usò a proposito di Strindberg e che Giorgio Fontana evoca nelle prime pagine del suo Kafka. Un mondo di verità (Sellerio). Ancora una volta torna l’idea forte della verità interiore che è l’unica cosa che valga la pena di comunicare. In una lettera a Brod leggiamo: “Forse c’è anche un altro modo di scrivere, io conosco solo questo, nella notte, ogni volta che la paura non mi fa dormire, conosco solo questo”. Eppure Fontana ci mette in guardia: non crediamo solo a questa cupezza. C’è un Kafka leggero e spiritoso, comico (quasi) sempre, anche se in modo amaro. C’è addirittura un Kafka solare, dice Fontana (e ha ragione), quello sapeva scherzare e si divertiva a fare il gioco delle ombre cinesi con le mani e che una volta regalò a una governante per il compleanno un ombrello avendo prima appeso alla punta di ogni stanga una caramella, quello che una volta incontrò in un parco una bambina in lacrime perché aveva perso la bambola e s’inventò che quella bambola era solo andata a vedere un po’ di mondo: gli aveva appena scritto una lettera! E da quel giorno per tre settimane Franz scrisse le lettere della bambola che consolarono la bambina. E c’è il Kafka innamorato che, prima di darsela a gambe, si rotola nell’erba con Jesenská e le scrive la celebre frase (rielaborata poi da David Grossman come titolo di un suo romanzo): “Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso”. 

Ma Fontana più che gli amori di Franz (anche quelli) ne ripercorre l’opera, dall’uomo che si ritrova scarafaggio, chiamiamolo così, nella Metamorfosi, ai tre romanzi incompiuti, Il disperso, Il processo, Il castello, ad alcuni racconti memorabili, Nella colonia penale, Il messaggio dell’imperatore, Un medico di campagna, La condanna… Lo rilegge anche attraverso le parole di altri, da Kundera a Günther Anders a Walter Benjamin, per arrivare poi soprattutto lui pure a un personale corpo a corpo, perché non è possibile essere uno scrittore contemporaneo senza aver fatto questo affondo, ilare e doloroso, nella vertiginosa scrittura kafkiana. K. è infatti uno di quei narratori che divide il tempo in due: “il tempo prima e il tempo dopo di lui” ed è impensabile raccogliere oggi il testimone della scrittura senza misurarsi con l’“assalto al limite” che era per lui la letteratura (lo disse nei Diari). 
Può sorprendere che quei diari, nel 1921, come si legge in un’altra biografia critica, Kafka. Una battaglia per l’esistenza di Klaus Wagenbach (Il Saggiatore), Franz decise di consegnarli a Milena, pur avendo già rotto il rapporto d’amore. Ma la stimava moltissimo, tanto che le aveva già dato i manoscritti del Disperso e della Lettera al padre. E questo è un dettaglio che modifica l’idea dei suoi rapporti soltanto disastrosi con le donne. Nei mesi finali della sua esistenza riuscì a stabilire una relazione di convivenza con l’ultimo amore, Dora Diamant. Con la sorella Ottla, più giovane di lui di nove anni, ebbe un rapporto di reciproca complicità. Nel marzo del 1924, le sue condizioni erano peggiorate, e la rigida scelta di una dieta vegetariana non aiutava. Stava scrivendo il racconto di Josefine, colei che vuole essere cancellata. Franz vuole essere cancellato. Si sente uno scrittore fallito, uno che ha lasciato tutto in sospeso. In aprile viene trasportato in sanatorio. Gli sono vicini Dora e l’amico medico e scrittore Robert Klopstock. Max Brod va spesso a trovarlo e a lui chiede di distruggere ogni riga non ancora pubblicata. Glielo ripete anche per lettera: “Carissimo Max, la mia ultima preghiera: tutto quello che si trova nel mio lascito, diari, manoscritti, lettere, di altri e mie, disegni ecc., bruciarlo interamente e senza leggerlo, come anche tutti gli scritti e i disegni che tu, o altri a cui tu dovessi chiederlo a nome mio, possedete”. Nessuno lo ha fatto. Per fortuna.

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Il padre, l’autorità, lo straniero, la prigione… Eppure non era solo “lo scrittore della colpa e del vuoto”. Un’altra chiave di lettura 

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“Una mia grande frustrazione quando cerco di leggere Kafka con gli studenti è che è impossibile far loro capire che Kafka è comico. Né tantomeno apprezzare il modo in cui questa comicità è intimamente legata alla potenza dei suoi racconti”. Questo diceva David Foster Wallace nello scritto dall’autoironico titolo: Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente (1999). Wallace sosteneva che gran parte dell’umorismo di Kafka non è affatto sottile, o meglio è antisottile: “La comicità di Kafka dipende da una sorta di letterarizzazione radicale di verità solitamente trattate come metafore. (…) E’ sempre anche tragica, e questa tragicità è sempre anche una gioia immensa e riverente. (…) Il suo in definitiva è un umorismo religioso eroicamente sano”. La conclusione di Wallace è che le storie di Kafka sono una specie di porta che si apre verso l’esterno: e questo è il comico. Del resto Philip Roth progettava di portare Il castello di Kafka sullo schermo, interpretato da Groucho Marx. Aveva ragione: sarebbe stata la trasposizione giusta.

Questa della comicità è la chiave con la quale leggo anch’io Kafka, perché, d’istinto, così lo lessi la prima volta, rimanendone io stesso sorpreso, all’età di quattordici anni. Ricordo che mia madre, che mi aveva passato un po’ scettica la sua copia dei racconti con la copertina nera e la muraglia cinese in rosso stampata sopra, rimase assai perplessa, e forse anche un po’ preoccupata, quando mi sentì sghignazzare durante la lettura della Metamorfosi. Le mie successive, e più sistematiche, letture di Kafka mi confermarono in questa impressione. Anche perché, negli anni Ottanta, i miei frequenti soggiorni nell’Europa centrale mi fecero sentire che il mondo rappresentato da Kafka si era fatto, in quelle realtà, con gli anni, sempre più tragicomico. L’incubo grottesco del cosiddetto “socialismo reale”, grazie a lui, appariva chiaramente comico. Per molti dei miei amici a Varsavia e Praga, Kafka costituiva una lucida chiave di lettura della realtà e la proposta di un salutare e resistenziale sghignazzamento. E infatti i suoi libri erano introvabili e, in Unione Sovietica addirittura proibiti. 

Il 27 e 28 maggio del 1963, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Kafka, si tenne a Liblice, vicino a Praga, un poco ortodosso convegno di studi sulla sua opera che vide come protagonisti alcuni di quelli che sarebbero stati animatori della Primavera di Praga, e poi costretti all’esilio dopo l’invasione dei carri armati russi (Cfr. AA VV, Franz Kafka. La vita e l’opera negli studi marxisti degli anni ‘60, a c. di Saverio Vertone, De Donato, Bari 1966). 

Come ha giustamente scritto in seguito Milan Kundera:  “Credo che il modo, non soltanto mio, ma dei cechi in generale, di capire Kafka è sicuramente diverso da quello vostro. Per noi Kafka è uno scrittore realistico perché la sua è una visione lucida della realtà. Nessuno di noi legge i suoi libri come se fossero delle allegorie. Inoltre siamo molto più sensibili al suo humour. La specificità dello humour di Kafka è che una certa comicità accompagna l’uomo in tutte le sue azioni”. 

Kafka “umorista realistico”? Ricordo che il dolce professore di Letteratura ungherese all’Università di Firenze e scrittore di teatro, Miklos Hubaj, raccontò una volta che, dopo il fallimento della rivolta di Budapest del 1956, molti intellettuali furono prelevati da casa dalla polizia, bendati e portati in camion in un viaggio di diverse ore, durante le quali tutti erano convinti che, alla fine, li avrebbe attesi la fucilazione. Quando i camion si fermarono, li fecero scendere e tolsero loro le bende, si trovarono di fronte un paesaggio montano (erano in Romania) sovrastato da un enorme castello-prigione. Fu allora che il filosofo Georgy Lukàcs disse a voce alta, provocando una liberatoria risata di tutti: “Ho sempre sostenuto che Kafka era uno scrittore astratto e piccolo borghese. Ora ho capito che era un grande scrittore realista!”.

E ricordo anche che quando, nel febbraio del 1988, vidi al Thèatre du Gymnase di Parigi, lo splendido adattamento e messa in scena del regista inglese Steven Berkoff, de La metamorfosi di Kafka, con Roman Polanski nel ruolo principale di Gregorio Samsa, Polanski, sostenne di scorgere da sempre nell’opera dello scrittore praghese una vena neanche tanto nascosta di comicità. E aggiunse: “Questa comicità sfugge completamente a uno spettatore non est europeo, abituato, o forse condannato, dalla scuola e da svariati libri, a considerare Kafka esclusivamente come lo scrittore della colpa e del vuoto”. 

Ma c’è un breve racconto di Kafka, intitolato Un vecchio foglio (Ein altes Blatt), originariamente scritto e pubblicato nel 1917, che, soprattutto di questi tempi, ha qualcosa di inquietante e niente affatto comico. Kafka lo compose nel pieno della guerra che stava portando al definitivo dissolversi dell’impero austro-ungarico, in una Praga paralizzata dalla fame e dalla mancanza di carbone. Però, in una lettera al suo editore Kurt Wolff (datata 7 luglio 1917), Kafka scrisse: “In questo inverno tutto mi è stato un poco più facile. Le invio qualcosa fra gli scritti utilizzabili nati in questo periodo, 13 prose. L’insieme è assai lontano da ciò che in realtà voglio”. Queste prose confluiranno nella raccolta Un medico di campagna (Ein Landartz), pubblicata probabilmente nel 1920.

L’inizio del racconto è un’amara denuncia della situazione politica da parte dell’io narrante, un calzolaio con bottega nella piazza dove si affaccia il Palazzo dell’imperatore: “Sembra che molto sia stato trascurato nella difesa della nostra patria. Finora non ce ne siamo curati e ci siamo dedicati al nostro lavoro; ma gli eventi degli ultimi tempi ci preoccupano” (uso la traduzione di Andreina Lavagetto nel volume Franz Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, Feltrinelli 1991, pp. 158-160). 

La piazza, improvvisamente e incomprensibilmente, è stata occupata da una folla di nomadi provenienti dal nord. Si sono accampati lì, fanno rumore e sporcano. Con loro non si può parlare perché non conoscono la “nostra lingua”. E la loro non si può dire che sia una lingua: “Fra loro si intendono come fanno i corvi. In continuazione si sente questo gridare di corvi. Il nostro modo di vivere e le nostre consuetudini sono loro altrettanto incomprensibili quanto indifferenti (…). Spesso fanno smorfie: allora gli si rovesciano gli occhi e gli esce la schiuma dalla bocca, ma con questo non vogliono dire nulla né incutere spavento; lo fanno perché è il loro modo di fare. Quello che gli serve, se lo prendono”. 

Un po’ alla volta gli stranieri prendono, incontrastati, il controllo della città. ll senso di impotenza dinanzi alla loro occupazione, e alla necessità di nutrirli per tenerli buoni, cresce col procedere del racconto, fino all’episodio dell’assalto al bue vivo del macellaio che viene sbranato e divorato crudo, mentre l’Imperatore, forse, guarda mestamente dalla finestra del suo palazzo. Il finale del racconto rimane aperto, ma contiene una sorta di amara presa di coscienza della classe media: “‘Cosa accadrà?’ ci chiediamo tutti. (…) A noi artigiani e commercianti è affidata la salvezza della patria; ma noi non siamo all’altezza di un simile compito; né mai ce ne siamo vantati. Si tratta di un malinteso; e questo malinteso è la nostra rovina”.  

Così, cento anni fa, Kafka descrisse perfettamente la paura dello straniero, la sua trasfigurazione in un mostro (al quale non si riconosce nemmeno il diritto ad avere una lingua umana) e il disagio e la frustrazione dei bottegai dinanzi alla latitanza dello Stato. L’uomo medio (rappresentato qui dal calzolaio e dal macellaio) soffre l’impotenza muta dell’Imperatore e desidera l’“uomo forte” che lo difenda dagli estranei e riporti la “normalità”. Il silenzio dell’Imperatore e del potere che lascia a sé stessi i cittadini, è la manifestazione e la conseguenza di ciò che, alcuni decenni prima, con l’avvento della società di massa, è accaduto quando è andata in frantumi l’autorità dei padri. 

La raccolta di racconti, che contiene Un vecchio foglio, doveva, nei desideri di Kafka, essere dedicata a suo padre. Ma, proprio nell’autunno del 1919, Kafka scrisse una Lettera al padre (Brief an den Vater,  trad. it. F. Kafka, Lettera al padre, Feltrinelli, 1991, pp.75-95.) che, com’è immaginabile, non venne mai consegnata al destinatario. Si tratta di un testo bellissimo e prezioso per capire come fossero i “padri patriarcali” e la crisi di un certo tipo di autorità che garantiva una certa coesione sociale. Kafka, inizialmente, descrive il padre come una specie di dio, che lo sovrasta anche dal punto di vista fisico, e gliene dà ripetutamente atto: “Tu eri per me la misura di tutte le cose”; “era già sufficiente a schiacciarmi la tua sola immagine fisica”; “come padre sei troppo forte per me”; “mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze”. La diversità tra di loro è la fonte del dolore (“eravamo così pericolosi l’uno per l’altro”) e di una situazione insostenibile (“la sensazione di nullità che spesso mi domina ha origine in gran parte dalla tua influenza”). 

Però quell’autorità, fortunatamente!, non regge più al confronto con il mondo moderno, dove un figlio, avendo la possibilità economica di studiare, si emancipa e non riesce più (nonostante gli voglia bene) a sottostare a un’autorità eccessiva e indiscutibile (“ai miei occhi hai l’aspetto enigmatico dei tiranni”). La vergogna e le umiliazioni diventano insopportabili per un figlio ormai adulto e persino la paura della violenza fisica irrilevante: “Le continue minacce produssero una sorta di indifferenza; e la certezza di non essere picchiati era diventata, col tempo, più sicura”. Caduta la maschera di un’autorità arcaica e insostenibile, agli occhi del figlio appare una figura meschina (come lo sono sempre i dittatori quando vengono detronizzati): “Cominciai ben presto a osservare e a rilevare in te alcuni lati ridicoli, li elencavo e li esasperavo”. 

Il vecchio potere e la tradizionale autorità paterna appaiono ancronistici e grotteschi, ma provocano, nel vuoto che lasciano, un profondo disagio: “Avevo perso la fiducia in me stesso sostituendola con un immenso senso di colpa”. Franz Kafka vive l’inizio di un tragicomico periodo d’incertezza e immaturità che non è ancora finito. Il suo calzolaio ha paura di tutto ciò che è diverso, lo sente come una minaccia, prova fastidio per la confusione, che accresce la sua insicurezza e il suo impotente senso di colpa: sogna il ristabilimento dell’ordine e la cacciata degli stranieri, senza saperne il prezzo. C’è ancora un malinteso sul male del mondo. 

Tre volte il volto: i ritratti triplici nella storia dell’arte

Di fronte, di profilo e di tre quarti. No, non è una foto segnaletica (o forse dovremmo chiamarlo “quadro segnaletico”), ma il celebre triplo ritratto del regnante inglese Carlo I, realizzato da Antoon van Dyck nel 1635.
Antoon van Dyck, Carlo I in tre posizioni, 1635, olio su tela, cm 84×99, Royal Collection, Londra
Ma che significato aveva questo curioso dipinto? Perché l’artista ha raffigurato il sovrano da tre punti di vista differenti? Voleva sottolinearne l’espressività? Era una prova di virtuosismo? C’era qualche allegoria sottesa?Nulla di tutto ciò: il ritratto serviva perché Gian Lorenzo Bernini potesse realizzare un busto di re Carlo I senza muoversi da Roma (lo scultore non uscì mai dall’Italia se non una sola volta per andare a Parigi e Varsailles a realizzare il ritratto di Luigi XIV). Era quindi necessario che avesse a disposizione più viste possibili del soggetto, in modo da cogliere perfettamente la forma del volto, l’espressione del viso e l’andamento del profilo (ma si dice che Bernini non facesse mai posare immobili i soggetti da ritrarre preferendo osservarli in movimento e in pose naturali).
Purtroppo il busto marmoreo, realizzato nel 1636, è andato distrutto nel terrificante incendio del 1698 che distrusse il palazzo di Whitehall. Alcune copie vagamente simili sono ciò che rimane. Una è quella creata nel 1759 dallo scultore Louis François Roubiliac…

… e l’altra è quella attribuita a Jan Blommendael.

Quando il busto originale arrivò a Londra, nel 1637, fu universalmente lodato “non solo per la squisitezza dell’opera, ma per la somiglianza che aveva con il re” e Bernini fu ricompensato con un anello di diamanti. La regina Enrichetta Maria ne fu talmente entusiasta che nel 1638 incaricò van Dyck di fare anche a lei un triplo ritratto da inviare a Bernini. Quella volta però il pittore fiammingo non mise i tre punti di vista nella stessa tela ma produsse tre dipinti separati, due di profilo e uno frontale. Tuttavia, non si sa perché, il busto di marmo non verrà mai eseguito.
Antoon van Dyck, Tre ritratti di Enrichetta Maria di Borbone-Francia, 1638
Bernini realizzerà invece il busto del cardinale Richelieu utilizzando anche questa volta un triplo ritratto, quello dipinto dal francese Philippe de Champaigne nel 1641, simile al ritratto di Carlo I di van Dyck (ma in questo caso non c’è la vista strettamente frontale).
Philippe de Champaigne, Triplo ritratto del cardinale Richelieu, 1642, olio su tela, cm 58×72, National Gallery, Londra
Quel busto esiste ancora e si trova attualmente al Louvre.

Ma torniamo ai triplici ritratti per sottolineare un aspetto: a livello compositivo non fu un’invenzione di van Dyck ma la ripresa di un’iconografia che esisteva fin dal Medioevo in forma di “vultus trifrons” (volto trifronte), cioè il modo con cui talvolta veniva rappresentata la trinità.
Gregorio Vasquez de Arce y Ceballos, Trinità, XVII secolo, Museo Coloniale, Bogotà
Certo, nella maggior parte dei casi non si tratta di tre volti separati ma di facce sovrapposte che condividono gli occhi del volto centrale, come in questo esempio trecentesco…
Autore sconosciuto, Vultus trifrons (Trinità), XIV secolo, Chiesa di Sant’Agostino, Norcia
… o questo del XVI secolo.
Scuola di Leonardo da Brescia, Cristo trifrons, ca. 1542, chiesa di santa Giuliana, Vigo di Fassa (Trento)
Ma non mancano casi in cui i tre volti sono separati o addirittura lo sono le tre persone della Trinità.

Tuttavia il volto con tre facce era anche quello di Lucifero…
Autore sconosciuto, Illustrazione per la Divina Commedia con Lucifero, XIV secolo
Secondo Dante, che lo descrive nel XXXIV canto dell’Inferno, Lucifero è un mostro peloso, con tre paia d’ali di pipistrello e tre facce sulla stessa testa. Con le tre bocche divora i tre più grandi traditori: Bruto e Cassio ai lati e Giuda al centro. Le tre facce avrebbero anche tre colori diversi: rossa quella centrale, bianca quella destra e nera la sinistra.

Ha tre teste anche Cerbero, il cane infernale della mitologia greca che Dante colloca nel 3° cerchio dell’Inferno a vigilare e torturare i golosi.
William Blake, Cerbero, 1824-1827
Per questa insistente associazione tra le tre facce e gli esseri infernali, lo schema del vultus trifrons per rappresentare la Trinità fu abbandonato nel ‘500. Nel 1745, infine, papa Benedetto XIV, con la bolla Sollicitudini nostrae definì come “non appropriata” l’immagine di Cristo ripetuta tre volte poiché dava forme umane anche allo Spirito Santo. Dal Cinquecento, dunque, il volto triplo diventa un tema squisitamente profano.
Il primo dipinto in cui appare è probabilmente il Ritratto di un orefice di Lorenzo Lotto, una tela del 1525-1535 (dunque di un secolo precedente al ritratto di Carlo I). Qui lo stesso uomo è visto di profilo, di fronte e leggermente da dietro.  Le diverse pose delle mani e la tenda verde che taglia lo sfondo animano il ritratto e lo arricchiscono di espressività.
Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice, 1525-1535, olio su tela, cm 52×79, unsthistorisches Museum, Vienna
Questo quadro però non serviva come base per una statua, tuttavia un legame con la scultura c’era: il dipinto infatti si inserisce nel dibattito noto come “Paragone delle arti“, una disputa dell’età rinascimentale su quale arte, tra pittura e scultura, fosse la “migliore”.Secondo Leonardo, naturalmente, il primato spettava alla pittura, unica arte capace di imitare la natura nei suoi colori e nei suoi spazi. Per Michelangelo, invece, l’arte superiore era la scultura perché capace di riprodurre le forme in modo realmente tridimensionale.
Per superare il limite della pittura evidenziato da Michelangelo gli artisti tentarono di inserire più visioni del soggetto nello stesso dipinto, attraverso diverse modalità. Quella di Lorenzo Lotto consisteva, come abbiamo visto, nel creare un ritratto multiplo del soggetto in modo da raffigurarlo contemporaneamente da più punti di vista (una visione simultanea protocubista…), avvicinandosi così alla scultura.Tiziano, invece, ha inserito nella scena un grande specchio convesso per mostrare anche il retro della persona raffigurata.
Tiziano, Donna allo specchio, 1515, olio su tela, cm 96×76, Museo del Louvre, Parigi
Bronzino sceglie, invece, una terza via, quella del dipinto bifacciale che mostra la stessa scena dai due lati opposti. Suo è il Nano Morgante del 1553, un ritratto del buffone di corte di Cosimo I de’ Medici. Le due vedute, tuttavia, non corrispondono rigidamente: la vista del recto raffigura il personaggio prima della caccia mentre sul verso ha la selvaggina in mano e si volta all’indietro per vantarsene con l’osservatore.
Bronzino, Doppio ritratto del Nano Morgante, 1553, olio su tela, cm 149×98, Palazzo Pitti, Firenze
Due anni più tardi la stessa scelta sarà operata anche da Daniele da Volterra, con la sua lotta tra Davide e Golia in versione bifacciale, un quadro posto lungo la galleria del Louvre sopra un piedistallo, come fosse una scultura.
Daniele da Volterra, Combattimento di Davide e Golia, 1555, olio su ardesia, cm 130×170, Museo del Louvre, Parigi
La disputa sarà superata solo nel Seicento, quando il linguaggio barocco fonderà tra loro tutte le arti. Il dipinto bifacciale scomparirà presto ma non il triplo ritratto, che tornerà in auge nell’Ottocento.
È del 1804 un triplo ritratto di Elizabeth Patterson, prima moglie di Girolamo Bonaparte, fratello minore di Napoleone.
Gilbert Stuart, Triplo ritratto di Elizabeth Patterson (Betsy Bonaparte), 1804, olio su tela
Stavolta non c’è nessun confronto con la scultura né alcuno scopo utilitaristico: è un ritratto fresco, rapido, quasi uno studio, che evidenzia i bei lineamenti della donna.Ha invece un valore propagandistico il triplo ritratto di Napoleone in tre momenti cruciali della sua vita: il comando della Campagna d’Italia nel 1794, l’incoronazione a re d’Italia nel 1805, e il suo ritorno dall’esilio nel 1815.
Autore sconosciuto, Triplo ritratto di Napoleone Bonaparte in tre momenti della sua vita nel 1805, 1794 e 1815.
Della stessa epoca è un curioso autoritratto, di una sconosciuta artista che si è firmata come D. E. Brante, in cui la donna si è dipinta come pittrice, come scultrice e come arpista. Una tripla immagine che ha uno scopo preciso: quello di esibire il proprio poliedrico talento.
D. E. Brante, Triplo autoritratti come pittrice, scultrice e musicista, 1815-1820, olio su tela, cm 85×70
Questa modalità di rappresentazione non poteva sfuggire ai pittori amanti del simbolismo, per l’opportunità che offriva di mostrare le diverse anime racchiuse nel soggetto. È così che 1874 nasce Rosa Triplex, un triplice ritratto di May Morris (figlia di William Morris e della moglie Jane Burden), del preraffaellita Dante Gabriel Rossetti. Il dipinto richiama quelle atmosfere estetizzanti tanto care alla confraternita inglese ma anche la tela di van Dyck, che faceva parte della Royal Collection inglese.
Dante Gabriel Rossetti, Rosa triplex, 1874, acquerello su carta, cm 77×88, Collezione privata
L’immagine è molto simile a una precedente versione a pastello di sette anni prima nel quale la modella era stata Alexa Wilding.
Dante Gabriel Rossetti, Rosa Triplex, 1867, pastello su carta, cm 50×73, Tate, Londra
Nel 1877 Rossetti riprende ancora una volta lo schema della tripla raffigurazione con Astarte syriaca, una sensuale divinità mediorientale dell’amore e della bellezza, per la quale avrebbero posato Jane Burden e May Morris. La composizione, con la dea frontale e le sue “gemelle” di lato, ricorda in verità un’altra iconografia tripla, quella delle Tre Grazie.
Dante Gabriel Rossetti, Astarte Syriaca, 1877, olio su tela, cm 185×109, Manchester Art Gallery
Poco tempo dopo, il genere del triplo ritratto viene ripreso dal simbolista francese Maurice Denis con una suggestiva rappresentazione della fidanzata Marthe Meurier. Non sfugge all’osservazione la progressiva apertura degli occhi andando verso destra, come se i tre volti raccontassero un risveglio, una maturazione, una consapevolezza verso la vita.
Maurice Denis, Triplo ritratto della fidanzata Marta, 1892
Da questo punto di vista il dipinto si inserisce nell’antico filone dell’allegoria delle tre età dell’uomo, realizzata, appunto, con tre personaggi in diverse fasi dell’esistenza.
Giorgione, Le tre età dell’uomo, 1500-1501, olio su tavola, cm 62×77, Galleria Palatina, Firenze
Tiziano, Allegoria della Prudenza, 1550, olio su tela, cm 75×68, National Gallery, Londra
Denis riprende il triplo ritratto anche con la fidanzata successiva, Yvonne Lerolle, nel 1897. Qui il diverso abbigliamento e la varietà dei gesti e delle espressioni portano a immaginare che l’opera simboleggi proprio tre fasi della vita della giovane donna, come a voler dire che non è possibile conoscere l’anima mutevole di una persona perché il suo essere è la somma di un tempo che scorre.
Maurice Denis, Ritratto di Yvonne Lerolle in tre aspetti, 1897, olio su tela, cm 170×110, Musée d’Orsay, Parigi
Tutto cambia con Egon Schiele. Tormentato osservatore del proprio essere, realizzò nel 1913 un triplo autoritratto in cui sembra voler mostrare il suo multiplo io. La figura al centro, più definita delle altre, ha un’espressione rabbiosa e una posa contorta; il volto a destra sembra più calmo mentre quello a sinistra, tratteggiato con furia, contiene qualcosa di maligno. Si direbbe che abbia voluto raffigurare così le due opposte tensioni, passionale e contemplativa, dolorosa e pacificata, che hanno percorso i suoi giorni.Nonostante appaia come un bozzetto, si tratta di una composizione su cui l’artista ha lavorato anche a livello formale, come dimostra il piccolo schizzo con le stesse tre teste in basso a destra.
Egon Schiele, Triplo autoritratto, 1913, gouache, acquerello e grafite, cm 48×32, Collezione privata
Con l’avanzare del Novecento il tema del triplo ritratto passerà presto alla fotografia. Man Ray lo affronta nel 1926 con un fotomontaggio della ricca americana Rose Wheeler vista di fronte, di tre quarti e di profilo. È forse l’opera che più somiglia al genere inaugurato da van Dyck: un’esplorazione della fisionomia umana ma anche una sottile indagine psicologica che evidenzia le differenze espressive che esistono tra un ritratto di profilo (tipico del Rinascimento), un volto di tre quarti (di origine fiamminga e poi adottato a fine Quattrocento anche in Italia) e il volto frontale di ascendenza medievale (era il modo in cui veniva raffigurato Cristo).
Man Ray, Triplo ritratto di Rose Wheeler, 1926, stampa a gelatina ai sali d’argento, cm 14×10, Centre Pompidou, Parigi
Dopo venne il turno del fotografo francese Philippe Halsman e del suo triplice volto di Marilyn Monroe del 1955. In questo caso non c’è un interesse compositivo e vagamente surrealista come per Man Ray ma un preciso interesse per ciò che racconta il viso di una persona. «Ogni volto che vedo sembra nascondere – e a volte rivelare fugacemente – il mistero di un altro essere umano», diceva il fotografo. 
Philippe Halsman, Tripla Marilyn, 1955, stampa in gelatina ai sali d’argento, cm 25×33
Il triplo Elvis di Andy Warhol si inserisce invece nel suo metodo moltiplicatorio che parte da una fotografia o dal fotogramma di un film (in questo caso una scena di “Stella di fuoco” del 1960) per creare un’opera che ricorda le serie infinite e martellanti di manifesti pubblicitari e che, tramite la ripetizione, finisce con l’annullare l’anima del soggetto rendendolo pura immagine.
Andy Warhol, Triplo Elvis, 1963
Con Norman Rockwell torna per un attimo l’antico olio su tela con un ironico autoritratto allo specchio del 1960. L’uso dello specchio, in verità, era da secoli la modalità standard per realizzare l’autoritratto, ma l’originalità sta nel fatto che l’artista ha fatto un passo indietro rispetto al suo dipinto, mostrando così se stesso nell’atto di riflettersi sullo specchio e nel disegno che ne sta uscendo fuori. Non mancano dei divertenti riferimenti alla storia dell’autoritratto nelle cartoline fissate all’angolo superiore della tela che raffigurano i volti di Dürer, Rembrandt, Picasso e van Gogh, mentre dal lato opposto c’è un foglietto con altri 4 autoritratti dell’artista.
Norman Rockwell, Triplo autoritratto, 1960, olio su tela, cm 113×88, Norman Rockwell Museum, Stockbridge
Non dovremmo tuttavia parlare di novità per questo triplo autoritratto, perché questa modalità era già apparsa altre volte prima dell’opera di Rockwell (sebbene non con la stessa autoironia). La più antica è probabilmente una miniatura del 1403 con la pittrice di età greco-romana Marzia che realizza il suo autoritratto.
Marzia dipinge il suo autoritratto, miniatura dalla versione francese del De Claris mulieribus di Boccaccio, 1403, Biblioteca Nazionale di Francia
Poi c’è la tela del pittore austriaco Johannes Gumpp del 1646 che è effettivamente un autoritratto triplo.
Johannes Gumpp, Autoritratto, 1646
Quello del pittore Jean Alphonse Rohen è invece il ritratto di una pittrice intenta ad autoritrarsi.
Jean-Alphonse Roehn (1799-1864), Ritratto di artista che dipinge il suo autoritratto
Ed è proprio lo specchio l’oggetto che chiude questo percorso sui tripli volti. Perché consente ai fotografi di giocare con la moltiplicazione della figura in modo naturale, senza ricorrere a fotomontaggi o ad altri artifici. Ha usato due specchi messi ad angolo Cecil Beaton, l’originale e irriverente fotografo britannico, per  immortalare Mariana van Rensselaer con un cappello disegnato dallo stilista Charles James. I due riflessi laterali restituiscono delle immagini curiose che sembrano evocare a sinistra una Madonna velata e a destra un mercurio col cappello alato.
Cecil Beaton, Mariana van Rensselaer con il cappello di Charles James, 1930
Gli specchi sono invece contrapposti in uno straordinario autoritratto della statunitense Vivian Maier del 1955. Autrice di un’enorme quantità di autoritratti colti sulle più disparate  superfici riflettenti, la fotografa ha scelto qui il mise en abyme, il più sorprendente effetto che due specchi possano dare: quello di moltiplicare all’infinito il riflesso specchiandosi l’uno nell’altro. Tuttavia Maier ha evitato di mostrarci quella scia sempre più piccola di sagome ponendo al centro la sua macchina fotografica e mostrandoci solo un triplo autoritratto.
Vivian Maier, Autoritratto, 1955
Non deve meravigliare che questa antica iconografia sia sopravvissuta fino ai nostri giorni e goda ancora di ottima salute: la tentazione di voler essere uni e trini, il desiderio di indagare le nostre multiple personalità attraverso la nostra faccia-interfaccia, è quasi un istinto naturale e non smette di regalarci accattivanti capolavori.

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