7 giugno 1940: chiude “l’isola dei femminielli”
La vera storia del confino degli omosessuali in Italia durante il fascismo attraverso l’articolo “L’isola dei femminielli” di Arianna Pescini, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Al confino. Li chiamavano così: femminielli, arrusi, pederasti… Con questi nomignoli ironici e sprezzanti, la società fascista mostrava la sua ostilità nei confronti dei gay. Arrivando a relegarli in fazzoletti di terra il più lontano possibile dalla civiltà. Lo conferma la storia delle decine di omosessuali mandati da Mussolini in mezzo all’Adriatico, ma anche a Lampedusa e a Ustica.
Il codice Rocco. Una delle tante pagine oscure del regime, che eliminò il reato di omosessualità dal progetto del codice penale Rocco poiché nella nuova Italia fascista non era ammesso nemmeno immaginare un simile reato. E conservò la misura del confino a scopo preventivo, perché non “sporcassero” l’immagine del Paese: erano sufficienti due pettegolezzi e una denuncia per subire un’ammonizione. O, nell’ipotesi peggiore, finire al bando per cinque anni su isole sperdute. Ma chi erano e come vivevano gli esiliati questa realtà parallela? Qui vi raccontiamo la storia dei confinati alle isole Tremiti.
Privati di tutto. Tra il 1936 e il 1940 circa, 300 gay furono infatti condannati come “pericolosi per la sicurezza pubblica“. Ci fu chi rimase in esilio tre anni, chi cinque, chi invece tornò a casa prima perché aveva parenti importanti. Nel 1939 una sessantina di confinati finì a San Domino, la più grande delle isole Tremiti, sulla quale i fascisti costruirono alcuni casermoni in cemento per ospitare i confinati, senza elettricità né acqua corrente. C’erano studenti, operai, sarti, contadini. Del Nord e del Sud. E molti giovanissimi. Scrisse uno di loro: “È da otto mesi che sospiro la libertà tutti i giorni, in tutte le ore, in tutti i momenti. La vita senza di essa è morta, specialmente per un giovane a vent’anni. Ed io quale delitto, quale male ho commesso per essere privato così di questo grande tesoro? Di quale scandalo mi si può incolpare?“.
Il clan dei siciliani. Dei circa sessanta gay arrivati a San Domino, ben quarantacinque provenivano da Catania, tutti arrestati e condannati agli inizi del 1939, durante una “caccia alle streghe” scatenata dall’allora questore della città siciliana, Alfonso Molina. Ma perché questo accanimento? «Non esiste una direttiva specifica dell’epoca che spieghi questa affannosa indagine» dice lo storico Gianfranco Goretti, autore con Tommaso Giartosio del libro La città e l’isola. Omosessuali
al confino nell’Italia fascista (Donzelli editore).
«A parte la solerzia del questore, sicuramente hanno giocato un ruolo importante sia le leggi razziali da poco promulgate da Mussolini (1938), sia il caso irrisolto di un omicidio compiuto nel 1936, che vedeva indirettamente coinvolti alcuni degli arrestati. Molina si trovò così sulla scrivania fascicoli con storie compromettenti, a volte scabrose, che lo convinsero ad agire risolutamente».
La “sanità della razza”. Sul documento ufficiale del provvedimento le parole del questore furono chiare e taglienti: “Il dilagare di degenerazione in questa città ha richiamato la nostra attenzione” scrisse. “Ritengo indispensabile, nell’interesse del buon costume e della sanità della razza, intervenire energicamente perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai. A ciò soccorre, nel silenzio della legge, il confino di polizia“. Così gli “arrusi” di Catania si ritrovarono a San Domino.
Vite al confino. I confinati vennero portati sull’isola in catene, ma poi furono lasciati liberi di muoversi, seppure sorvegliati dalle guardie che arrivavano a turno dalla vicina San Nicola. Sveglia all’alba, gli “ospiti” per vivere si arrangiavano con le 5 lire al giorno che lo Stato passava loro (non un granché, se si pensa che all’epoca un chilo di pane costava 2 lire e quaranta); oppure riuscendo a fare lo stesso lavoro che svolgevano in patria. “Le famiglie ci mandavano dei pacchi, mangiare, vestiti” racconterà in un’intervista del 1987 Giuseppe B., un confinato di Salerno. “Ma ognuno cercava di fare la sua attività, calzolaio, sarto, contadino, e così via“. La giornata finiva alle otto di sera (in estate alle nove), quando una campana avvisava i confinati che era il momento di rientrare nelle camerate, sotto lo stretto controllo delle sentinelle fasciste.
Un mondo piccolo piccolo. L’unico contatto con il mondo esterno era l’isola di San Nicola, a un quarto d’ora di barca, dove si trovavano esiliati politici e popolazione locale: «I confinati di San Domino andavano lì a fare qualche spesa», racconta lo scrittore Paolo Pedote, autore dell’Isola dei papaveri (Area 51 Publishing) «sempre seguiti da guardie del Fascio o in divisa. La gente del posto non li trattava come criminali, ma li osservava con curioso divertimento. Tutti sapevano che su quell’isola c’erano i “pederasti”».
Vergogna. Molti ragazzi vivevano la propria condizione di esiliati come un’onta, una vergogna per le loro famiglie. “Qui, in questa inerzia che mi avvilisce, cosa posso fare di bene?” scrisse un ventenne al ministero dell’Interno.
“Più tempo passa e più divento cupo, triste ed apatico. […] Desidero il proscioglimento perché voglio servire la patria e cancellare la macchia del disonore dalla fronte della mia famiglia. E poi ritornare in seminario per condurre una vita ritirata; è l’unico mezzo per riparare lo scandalo“.
Insperata libertà. Altre testimonianze reperibili all’Archivio di Stato sono invece più leggere, perché sull’isola c’era anche chi cercava di prendere con spirito il lungo periodo di “soggiorno obbligato”: “Cercavamo di vivere bene, come si poteva. Serviva a passare le giornate. Ridevamo, facevamo teatro, celebravamo feste e preparavamo tavolate di benvenuto per i nuovi arrivati. Potevamo vestirci da donna senza che nessuno dicesse niente“. Nacque anche qualche storia d’amore, e di interesse: “Là ci sono state perfino coltellate fra siciliani, per passione” racconterà ancora Giuseppe B. “Poi non avevamo abbastanza soldi, e qualcuno era costretto a fare marchette con chi era più ricco“. La sera spesso arrivavano pescatori che si incontravano con i “femminielli”, e persino non pochi fascisti e carabinieri “si vollero togliere lo sfizio” di un’avventura sessuale clandestina.
La prima comunità. Per alcuni, San Domino rappresentò un’occasione per essere se stessi: «Quest’isola divenne paradossalmente il primo luogo dove gli omosessuali vissero senza nascondersi» spiega Pedote. «E senza la paura di dover scappare per la propria natura». Quando nel giugno del 1940 la struttura venne riconvertita, a causa dell’entrata in guerra da parte dell’Italia, in campo di internamento per stranieri, gli omosessuali rientrarono nelle loro città, con il solo obbligo di firma in questura ogni sera.
E l’ex confinato Giuseppe B. ricordò con tenerezza il momento della partenza: “In fondo si stava meglio là che qua, ai tempi miei se eri ‘femmenella’ non potevi neanche uscire di casa, non potevi farti notare, sennò ti arrestavano. Quando venimmo via dalle Tremiti c’era chi piangeva, chi non voleva lasciare l’isola“. Tornare significava ricominciare a lottare per i propri diritti.
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