“Invenzione e innovazione” di Vaclav Smil

In “Invenzione e innovazione – breve storia di entusiasmi e fallimenti”, Vaclav Smil (Hoepli editore), autore apprezzato da Bill Gates, ci guida in un viaggio affascinante e realistico nella storia delle invenzioni umane. Lontano dai clamori che spesso accompagnano le nuove scoperte, in questo libro Smil offre un’analisi lucida e documentata delle promesse eccessive che a volte le circondano, dalla medicina all’intelligenza artificiale.

L’autore sottolinea come non tutte le invenzioni si traducano in innovazioni concrete e come alcune, pur avendo successo, possano rivelarsi deludenti o addirittura dannose. Con esempi che spaziano dai dirigibili alla fissione nucleare, Smil ci invita a riflettere sulla complessa relazione tra ingegno umano e realtà, e sull’importanza di calibrare le nostre aspettative. Un libro ricco di spunti per comprendere le sfide del ventunesimo secolo e il ruolo cruciale dell’innovazione nel nostro futuro.

Abbiamo scelto un breve estratto del libro che vi proponiamo qui sotto.

INVENZIONI CHE DOVEVANO IMPORSI E NON L’HANNO FATTO

Molte scoperte tecniche e scientifiche fondamentali non furono subito riconosciute come tali al loro esordio. Gli articoli pubblicati sulle riviste specializzate vengono letti da un numero molto limitato di esperti, i brevetti vengono ignorati e dimenticati oppure trascurati perché non sembrano aggiungere niente di nuovo, certi percorsi di scoperta magari vengono smarriti e poi ripresi a distanza di decenni – e solo allora potrebbero trasformarsi in strade maestre che conducono non soltanto a nuovi settori e nuovi prodotti, ma anche a nuove modalità di organizzazione e interazione sociale. Forse l’esempio migliore di tutti i tempi è quello della formulazione e dello sviluppo della teoria delle onde elettromagnetiche di James Maxwell, una svolta fondamentale cui lo scienziato pervenne, stando ai suoi scritti, tra il 1865 e il 1873. Le idee di Maxwell gettarono le basi dell’elettronica moderna: radio, televisioni, cellulari, internet, GPS sono tutte elaborazioni tecniche più sofisticate della sua idea primigenia.

Tra i grandi progressi novecenteschi non riesco a pensare a un esempio più calzante del primo brevetto per un dispositivo elettronico a stato solido concesso al fisico tedesco Julius Edgar Lilienfeld, prima in Canada nel 1925, poi negli Stati Uniti nel 1926. Per decenni l’idea di un amplificatore a stato solido, un’invenzione indispensabile per sostituire grandi masse di vetro caldo nei tubi a vuoto, fu attribuita a tre fisici dei Bell Telephone Laboratories (BTL): all’inizio del 1948 John Bardeen e Walter Brattain depositarono un brevetto per un transistor al germanio a punta di contatto, a cui seguì la richiesta di William Shockley per un transistor a giunzione; i tre scienziati ottennero il Nobel per la Fisica nel 1956. Ma in seguito i laboratori Bell ammisero (sul loro sito web commemorativo, ormai estinto) di aver solo reinventato il transistor, e nel 1988, quarant’anni dopo aver ottenuto i brevetti, Bardeen rese chiaro che “Lilienfeld ebbe l’idea di base che per produrre un dispositivo di amplificazione bisognava controllare il flusso di corrente in un semiconduttore”, ma occorsero molti anni di studi teorici e progressi nella scienza dei materiali per trasformare quest’idea in una realtà commerciale.

Eppure, dieci o vent’anni dopo la grande illuminazione di Lilienfeld, a essersi imbattuto in quest’idea sarà stato forse solo qualche esperto di brevetti dedito alla ricerca archivistica. Per contro, certe idee scientifiche e certi progressi tecnici sono stati ritenuti quasi subito molto promettenti e visti dai più come aperture significative in nuove direzioni, come i primi passi di sviluppi allettanti che avrebbero risolto problemi difficili e persistenti e creato nuovi mercati. La storia della penicillina e la conseguente rapida ascesa degli antibiotici – anzi, il loro abuso – è un ottimo esempio di aspettative che sono state soddisfatte. Ma altre innovazioni si sono rivelate deludenti: non hanno seguito le traiettorie previste, il loro sviluppo si è inceppato in maniera imprevista o graduale, oppure sono diventate insignificanti, destinate a un totale fallimento commerciale o a una sconfortante stagnazione.

Come nel primo capitolo tematico, anche qui ho selezionato tre esempi emblematici di speranze iniziali deluse – o comunque realizzate molto meno del previsto – che presenterò in ordine cronologico. I dirigibili sono manufatti più leggeri dell’aria che originariamente, come si addice a dei velivoli modellati sulle mongolfiere, avevano un involucro flessibile. Ma i progetti successivi, di dimensioni ben superiori, presentavano strutture rigide all’interno delle quali erano alloggiate le celle del gas. Il loro sviluppo precedette le prime serie sperimentazioni di volo con aerei più pesanti dell’aria, ed entrambe le tecniche furono poi perfezionate all’inizio del Novecento. Il primo lancio di un dirigibile Zeppelin da parte di una compagnia aerea avvenne nel 1909, a meno di dieci anni dal primo volo di un grande dirigibile rigido con motori a combustione interna; giornali e riviste ne documentarono le strabilianti prestazioni di volo, ipotizzando la loro imminente conquista del settore dei viaggi aerei intercontinentali.

Questi sviluppi vennero bruscamente interrotti dalla prima guerra mondiale, ma già nel 1930 lo Zeppelin tedesco viaggiava regolarmente da Francoforte al New Jersey, planando verso il fiume Hudson, sopra i grattacieli di Manhattan. Era un’attestazione della nuova frontiera del volo, che prometteva grandi sviluppi futuri. Appena sette anni dopo, il trasporto passeggeri su dirigibili più leggeri dell’aria non era più che un breve episodio abortito sul nascere nella storia del volo a lunga distanza. Al confronto, il mancato successo della fissione nucleare, una tecnica per la produzione di elettricità vista come la soluzione definitiva per fornire a tutto il mondo elettricità pulita e conveniente, sembra appartenere a un’altra categoria.

Dopotutto, la produzione di energia elettrica nucleare fu un successo, dal punto di vista commerciale: oggi vi sono reattori attivi in più di trenta paesi in quattro continenti e, se si escludono l’ex Unione Sovietica e il Giappone, sono innegabilmente centrali sicure e affidabili. Ciò che ci interessa in questo capitolo, tuttavia, è la discrepanza tra i successi promessi e quelli conseguiti. Negli Stati Uniti, dove è stato costruito il maggior numero di reattori nucleari in assoluto, la tecnologia inizialmente presentata come talmente superiore ed economica che non era il caso di farla pagare (non è un riferimento apocrifo; Lewis Strauss, allora presidente della Commissione per l’Energia Atomica degli Stati Uniti, pronunciò queste parole nel 1954, presso la National Association of Science Writers di New York), divenne nota per i suoi enormi costi di costruzione, che portarono a uno sforamento del budget, e non fu ulteriormente sviluppata perché non redditizia.

Nel mondo, gli Stati che non hanno mai preso in considerazione un possibile sviluppo commerciale dell’energia nucleare sono la maggioranza – tra le grandi economie non interessate all’energia nucleare si annoverano l’Australia, l’Indonesia, l’Italia, la Polonia, la Tailandia e il Vietnam – e nel 2020 la fissione contribuiva solo al 10 per cento circa dell’elettricità globale (le quote nazionali variano dal 5 per cento della Cina al 70 per cento della Francia), una minima parte di quanto ci si aspettava mezzo secolo fa. Peraltro, i due disastri, quello della centrale nucleare di Chernobyl nel 1985 e quello dei tre reattori della centrale di Fukushima Daiichi nel 2011, hanno rafforzato – o, per meglio dire, esagerato e travisato – i timori verso la fissione nucleare: il guasto della centrale giapponese ha indotto la Germania, la maggiore economia europea, a porre fine al proprio programma nucleare, e neanche la promessa di una produzione di energia elettrica a zero emissioni di anidride carbonica è bastata a rendere la fissione un attore chiave nella recente corsa globale alla decarbonizzazione dell’economia.

L’ultimo esempio di promessa non mantenuta riguarda la ricerca del volo supersonico, cioè un trasporto a velocità che superano (se misurate al livello del mare e a 20 °C) i 1235 chilometri all’ora (km/h). Se all’epoca dei primi dirigibili si trattava di pure ipotesi fantascientifiche, subito dopo, alle soglie della prima guerra mondiale, si inaugurarono i primi voli di aeroplani per il trasporto civile. Raggiungere anche solo la metà di quella velocità sarebbe stato impossibile finché i motori a benzina alternativi (a pistoni) fossero rimasti gli unici motori primari a disposizione, mentre si poté arrivare a velocità molto più elevate con i motori a reazione (con turbine a gas), una nuova modalità di combustione interna che faceva a meno di cilindri, pistoni e valvole, affidandosi esclusivamente alla combustione continua per generare una forte propulsione. Come era prevedibile, queste velocità vennero raggiunte in un primo momento dagli aerei militari alla fine degli anni quaranta.

Una volta che gli aerei di linea a reazione entrarono a pieno servizio in ambito commerciale negli anni cinquanta, molti ingegneri e alcuni governi ritennero che il passo successivo sarebbe stato aumentarne la velocità di crociera (all’epoca volavano circa all’85 per cento della velocità del suono) a livelli supersonici. In questo modo i noiosi viaggi intercontinentali sarebbero durati la metà o anche meno, una prestazione con una chiara attrattiva commerciale, che si scontrava però con molte barriere tecniche e ambientali. Gli amanti del volo sanno che questa ricerca pluridecennale si è conclusa con un fallimento. Nell’ultima parte del capitolo racconterò questa saga tecnologica, riflettendo sui recenti tentativi di resuscitare l’aviazione supersonica, questa volta a partire da piccoli aerei di linea per viaggi d’affari.

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