Una nuova ricerca ha dato finalmente risposta alla domanda che da molti anni tormenta i ricercatori: perché gli organismi viventi hanno sempre usato un numero limitatissimo di “componenti di base”?
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Tutto ciò che riconosciamo come vivente, almeno per il momento, condivide la stessa natura chimica, essendo formato da poche classi di molecole – Dna, Rna, zuccheri, grassi, proteine e qualche altra specie chimica a seconda del caso, come i sali minerali che formano il nostro scheletro o le vitamine che servono in diversi processi biologici. Fra questi composti, le proteine sono le piccolissime macchine che compiono la gran parte delle funzioni che ci mantengono in vita: catalizzano ogni sorte di reazione chimica, riconoscono altre molecole, traducono i segnali ambientali esterni ed interni in stimoli della natura opportuna, ed in una parola muovono l’intera fabbrica del corpo degli organismi viventi, da quelli unicellulari fino alle balene.
Come tutte le macchine, anche le proteine sono composte da parti più piccole, gli equivalenti di ingranaggi, viti, bulloni, molle, circuiteria e quanto altro: in particolare, tutte le proteine, di qualunque organismo vivente, sono composte da una ventina di tipi diversi di aminoacidi, legati fra loro a costruire la nanomacchina proteica con la giusta forma per esercitare una o più funzioni specifiche. Per quello che riguarda il solo essere umano, si stima che esistano circa 70.000 proteine diverse, tutte composte sempre dalle solite due decine di tipi di aminoacidi, presi in quantità diverse e legati in sequenze diverse: è come se ogni singolo attrezzo o macchina di cui ci serviamo, da una forchetta fino allo shuttle, fosse costruito utilizzando in modo combinatorio solo venti diversi tipi di ingranaggi e componenti. Per tutti gli esseri viventi, e non solo per l’uomo, si osserva sempre lo stesso: la vita è mossa e mantenuta dal lavoro di orde di macchine proteiche di tipi diversissimi, delle dimensioni inferiori al milionesimo di metro, tutte costruite sempre utilizzando quei pochi tipi di aminoacidi diversi.
Ora, bisogna sapere che gli aminoacidi conosciuti sono molti, molti di più di quella ventina che si ritrovano nelle nostre proteine; per di più, è noto che aminoacidi molto diversi da quelli biogenici si formano in ogni angolo del cosmo, ed erano presenti con certezza anche nella Terra primordiale. Perché quindi, a partire da 3,8 miliardi di anni fa, gli organismi viventi hanno utilizzato un numero così limitato di “componenti di base”? Oppure, detto in altre parole: quale specifica proprietà avevano certi aminoacidi, tali da favorire il loro utilizzo selettivo per formare le proteine che divennero tipiche di ogni organismo vivente?
Con un nuovo lavoro di ricerca, appena pubblicato, si è a quanto pare trovata la risposta, colmando una lacuna importante nella spiegazione del perché la vita sul nostro pianeta, da un punto di vista biochimico, sia quella che ci appare oggi. Innanzitutto, bisogna sapere che numerose prove indicano come le prime proteine dovessero essere formate solo da una parte dei tipi di amminoacidi che si osservano oggi, ovvero da circa una decina di tipi diversi; gli ulteriori altri 10 tipi di aminoacidi sono prodotti di percorsi biosintetici emersi dopo la nascita dei primi organismi viventi, per la buona ragione che tali aminoacidi o non possono formarsi spontaneamente nelle condizioni prebiotiche oppure perché possono essere accomodati all’interno di proteine come componenti, solo a patto che le proteine siano in ambienti diversi da quello acquoso, ambienti che si ritrovano solo negli esseri viventi. Dunque, la domanda diventa: perché, a partire da centinaia di alternative disponibili nella Terra primitiva, le prime proteine, per quel che oggi sappiamo, furono formate basandosi solo su dieci tipi di “ingranaggi”, ovvero aminoacidi, diversi? E perché, fra questi 10, non sono presenti quelli che certamente erano i più abbondanti nel nostro pianeta miliardi di anni fa?
La risposta è arrivata studiando in laboratorio le proprietà di piccole proteine (peptidi) che possono essere formate utilizzando i diversi tipi di aminoacidi antichi. Innanzitutto, è emerso che i tipi più abbondanti di aminoacido, legati a qualunque altro in quantità sufficiente, impediscono il ripiegamento della macromolecola ottenuta in forme complesse. In sostanza, con quegli aminoacidi è impossibile ottenere la grande varietà di forme delle macchine proteiche, necessarie ad esercitare le loro funzioni: si ottengono lunghi filamenti che rimangono flessibili ed estesi in soluzione, senza ripiegarsi a costituire una specifica forma tridimensionale, precondizione necessaria ad esercitare qualunque funzione specifica alla scala nanometrica a cui opera il macchinario proteico. Altri aminoacidi primitivi, come quelli in grado di conferire una carica elettrica positiva – ovvero basica – alle proteine, se legati con quelli disponibili prima dell’inizio della vita, provocavano una diminuzione della solubilità, e la precipitazione delle macromolecole ottenute; per questa ragione, se non emergeranno fatti nuovi rispetto a quelli discussi dagli autori del lavoro citato, tutte le prime proteine esistenti devono essere state acide (cioè con carica elettrica negativa) o prive di carica elettrica, e solo successivamente all’evoluzione della vita nuovi aminoacidi, non disponibili nelle condizioni primitive e formati direttamente dagli organismi biologici, sono stati incorporati nelle proteine per ottenere “macchine” con carica elettrica positiva.
Proprio quella decina di tipi di aminoacidi moderni che si ipotizza fosse alla base delle proteine primitive hanno invece una fondamentale proprietà: quella di favorire il ripiegamento delle catene di aminoacidi in strutture complesse e stabili in soluzione acquosa, in grado se del caso di esercitare funzioni di tipo diverso. Tra le funzioni assumibili da queste primitive proteine con una forma ben specifica, è stato da tempo provato che vi era la capacità di formare complessi con molecole di tipo diverso, ovvero Rna in grado di replicarsi, stabilizzandone e proteggendone la struttura dagli insulti ambientali e, in qualche caso, favorendone la funzione replicativa; e così, i primi replicatori darwiniani a Rna hanno reclutato le proteine, facendo un passo importante verso la complessità degli organismi viventi successivi, ancor prima che emergesse un codice genetico funzionante e che quindi la sintesi delle proteine più utili fosse guidata dagli stessi Rna.
Il nuovo lavoro, oltre che colmare un vuoto importante nella nostra conoscenza del mondo chimico che ha preceduto la vita e dal quale la vita ha potuto emergere, ci mostra anche un importante aspetto: la selezione naturale, in questo caso di proteine composte da certi tipi di aminoacidi specifici, può agire ben prima e separatamente dall’esistenza di replicatori darwiniani, se esiste una varietà sufficiente che si produca spontaneamente, come nella zuppa chimica degli oceani primordiali. Quando emersero i primi replicatori, anche essi, come il resto delle entità che li circondavano, furono sottoposti alla selezione naturale; ma se è la selezione di replicatori che ha innescato il processo darwiniano che ha portato alla vita come la conosciamo, è la semplice selezione ambientale che ha portato all’utilizzo da parte di quei replicatori di un certo macchinario biochimico, invece di tutto quanto poteva in teoria essere prodotto a partire dalla chimica presente in ogni angolo del nostro universo.