Enrico Stinchelli racconta il genio di Puccini, tra tradizione e finto modernismo
Mimì morì anche d’overdose: registi, direttori e malinconia di “Bohème”. Parla il celebre esperto di opera
Una chiacchierata con musicisti, interpreti e critici per ognuna delle dodici opere di Giacomo Puccini, nel centenario della morte del compositore. Abbiamo già scritto di “Manon Lescaut” (31 gennaio), “Gianni Schicchi” (16 febbraio), “La Fanciulla del West” (6 aprile), “Le villi” (23 aprile).
È tra i massimi esperti di opera, quella raccontata con cognizione, dovizia di particolari e simpatia nella Barcaccia, programma storico di Radio3, ora diventato Voci in Barcaccia, una striscia quotidiana che – senza perdere la sua originalità – si sta aprendo al mondo dei giovani. Abbiamo dialogato con Enrico Stinchelli provando a fare il punto sulla figura di Giacomo Puccini a metà dell’anno a lui dedicato. “Era un musicista preparato e interessato – esordisce Stinchelli – con una passione sfrenata per Verdi e Wagner. Un attento osservatore di quello che avveniva attorno a lui in quegli anni e un uomo capace di godere della vita”. Famoso in questo senso il Club la Bohème, circolo di amici, con cui Puccini trascorre del tempo dandosi “originali” regole di vita. Una compagnia “riproposta” nella Bohème. “Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline sono quattro ragazzi senza speranza, le cui velleità non troveranno piena realizzazione. Questo aspetto è il lato più commovente e malinconico dell’opera, forse più della stessa morte di Mimì. Vocalmente la parte più complessa è quella di Rodolfo: il tenore nei primi due atti deve affrontare una tessitura acuta (si spinge al do acuto) mentre negli altri due diventa più drammatico. Serve un timbro ‘lirico-spinto’. Non è un caso che Rodolfo sia stato interpretato da Corelli e da Del Monaco”.
Approfitto della loquacità del mio interlocutore per qualche domanda “cattiva” e non potevo non partire dalle regie. “Tra le produzioni significative di Bohème ne segnalerei due entrambe molto importanti. Una è tradizionale ed è quella di Franco Zeffirelli. La più rappresentata nella storia dell’opera lirica e quella rimasta in cartellone per più tempo alla Scala e al Metropolitan di New York. Una produzione perfetta che ha visto coinvolte le stelle della lirica. Per quanto riguarda regie più moderne direi quella di Ken Russell andata in scena all’inizio degli anni 80 allo Sferisterio di Macerata. Russell ambientava l’opera in quegli stessi anni, con le problematiche legate alla droga. Quattro ragazzi scapestrati e Mimì (all’epoca Cecilia Gasdia) che muore di overdose. Questa produzione è stata letteralmente copiata da tutti: ce ne sono almeno altre venti ambientate nel mondo della droga, con ragazzi disadattati. E’ divenuta anche un film con la Netrebko nel ruolo della protagonista. Ken Russell è stato geniale, alcune scelte possono essere discutibili, ma è sempre stato coerente a questa linea”. Oggi, riproporre questa regia che ha ormai cinquant’anni, spacciandola ancora per moderna, ha creato un finto modernismo che ha diviso il pubblico: da un lato gli spettatori legati alla tradizione, “al polverume che comunque serve” dice Stinchelli, e dall’altro i modernisti. “E’ un finto modernismo – dice il conduttore – non gradito anche a grandi cantanti come Jonas Kaufmann, tedesco, formato nell’alveo del regietheater, che mi ha espresso personalmente il suo rifiuto di questo tipo di regie”.
Quelle raccontate da Puccini sono storie di vita, drammi umani che necessitano di una vocalità importante e ben definita ma anche di direttori preparati. “Esiste un tipo di voce pucciniana – continua Stinchelli – dotata di un’arcata di fiato, cioè un dosaggio estremamente tecnico, solido del fiato lungo. Come quelle di Corelli, Del Monaco. I direttori invece che hanno interpretato bene Puccini sono pochissimi e non sono i nomi noti (facciamo un attimo di silenzio entrambi, ndr)… non ricordo direzioni memorabili di Abbado o di Muti. Metha ci ha donato grandi interpretazioni di Tosca e Turandot. Ma se consideriamo ancora Bohème, devo citarne di meno blasonati: Tullio Serafin, Anton Guadagno, Maurizio Arena. Servono maestri di tradizione capaci di unire il teatro con il canto”.
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