Se alla Maturità uscisse Guglielmo Marconi

Se domani dovessi fare il tema di Maturità, e stessi cercando di intuire la traccia che daranno, partirei da Guglielmo Marconi, che è nato 150 anni fa a Bologna, ed è forse l’italiano che più ha cambiato il mondo in questi due secoli. Sbrigativamente lo si ricorda come l’inventore della radio, ma è stato molto di più: è stato l’inventore delle comunicazioni senza fili, del wireless. Per certi versi è stato lo Steve Jobs della sua epoca: pur senza essere laureato, ebbe un’intuizione (la possibilità di trasmettere segnali usando le onde dell’etere), realizzò la tecnologia, andò a Londra, che era la Silicon Valley dell’epoca, per creare la sua startup e da lì ha letteralmente conquistato il mondo. Lo ha reso anche migliore?

Come sempre accade, la tecnologia può essere usata in modi molto diversi. All’inizio del ‘900, Marconi divenne un eroe popolare perché

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2 luglio 1897: Marconi brevetta il wireless

Il 2 luglio 1897 Guglielmo Marconi ricevette dal Patent Office di Londra il brevetto numero 12.039 per la sua invenzione che consentiva trasmissioni a distanza senza fili. Scopriamo le tante invenzioni di Marconi attraverso l’articolo “Senza limiti” di Matteo Liberti, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Iniziamo dalla fine. Giovedì 12 dicembre 1901, isola di Terranova (Canada), tarda mattinata: all’interno di una stazione ricevente su una collina della città di St. John’s, di fronte all’Oceano Atlantico, Guglielmo Marconi attende un segnale radio in arrivo da 3.400 km di distanza. Per la precisione da Poldhu, località marittima in Cornovaglia (Gran Bretagna), dove egli stesso ha già installato un’antenna alta circa 130 metri, costituita da decine di fili tesi tra due piloni. Il segnale, previsto per le 12:30, deve giungere sotto forma di codice Morse.

Missione compiuta. L’attesa è febbrile, ma all’orario stabilito Marconi può sorridere: dal suo ricevitore telegrafico sente tre battiti di martelletto (“punto, punto, punto”, sequenza che nel Morse sta per “S”). La prima comunicazione radio transoceanica è andata a buon fine, aprendo la strada – come ricorda una targa collocata sulla suddetta collina, ribattezzata Signal Hill – a “una nuova era nelle comunicazioni mondiali”. Peraltro, Marconi aveva già testato (e brevettato) la telegrafia senza fili su distanze più brevi, in capo a una serie di sperimentazioni iniziate nel 1894, quando aveva appena vent’anni.

La torre sulla collina ribattezzata Signal Hill, sull’isola di Terranova (Canada), dove Gugliemo Marconi nel 1901 ricevette il segnale proveniente dalla Cornovaglia.
© Shutterstock

AUTODIDATTA. A stimolare le ricerche di Marconi sulla possibilità di sviluppare un sistema di comunicazione senza fili furono gli studi sulle onde elettromagnetiche svolti da rinomati fisici come lo scozzese James Clerk Maxwell, il tedesco Heinrich Rudolf Hertz, l’italiano Augusto Righi e il serboamericano Nikola Tesla.
Pur privo di formazione scientifica (la sua carriera di studente fu affidata a insegnanti privati), egli iniziò a ragionare sulle possibili applicazioni delle scoperte di questi scienziati, cercando, da autodidatta, di tradurne le teorie in pratica.

Grandi precursori. A incuriosire la sua mente furono in primis le ricerche sulla natura dei campi elettrici e magnetici svolte da Maxwell, a cui si deve la moderna conoscenza delle onde radio (radiazioni elettromagnetiche riproducibili con dispositivi elettrici).
Il giovane Guglielmo fu inoltre eccitato dagli studi di Hertz, ideatore di un’antenna (costituita da due bracci metallici e detta “a dipolo”) capace di ricevere radioonde emesse da breve distanza, producendo al momento della ricezione una scintilla di avvertimento.
Di Righi apprezzò invece lo studio delle proprietà delle radiazioni elettromagnetiche in comparazione con quelle luminose, mentre di Tesla ammirò gli esperimenti sulla trasmissione di energia, mettendosi in testa di realizzare quanto prima dei dispositivi per la comunicazione a distanza.

Senza fili. Quest’ultima, dalla metà del XIX secolo, era affidata ai telegrafi elettrici, connessi da lunghissimi cavi – anche sottomarini – e utili a trasmettere segnali in codice Morse (sequenze di punti e linee) emessi da specifici apparecchi.
Il sogno di Marconi, semplicemente, era di fare a meno dei cavi, superando ogni limite geografico. «In tal senso, egli fu il primo a pensare in modo globale, apportando un vero cambiamento di paradigma nella comunicazione», spiega Marc Raboy, docente alla McGill University (Canada), esperto di media e autore del saggio Marconi. L’uomo che ha connesso il mondo (Hoepli).

TEST CASALINGHI. Con questi propositi in testa, Marconi costruì nel 1894, tra le mura di casa, un trasmettitore di onde radio, alimentato da una pila, capace di far suonare un campanello elettrico senza l’ausilio di fili. Per realizzarlo, sfruttò un preesistente dispositivo detto “coesore” (coherer nel mondo anglosassone), progettato dal fisico italiano Temistocle Calzecchi Onesti e consistente in un tubicino di vetro, simile a un fusibile, contenente della limatura metallica tra due elettrodi, così da creare una resistenza elettrica che reagiva alle onde elettromagnetiche.

Bambino prodigio. Marconi collaudò l’apparecchio “suona-campanello” di fronte ai genitori, sbalorditi da tanto ingegno (il ragazzo fece poi del dispositivo un segnalatore di temporali, pronto a suonare quando cadeva un fulmine). Finanziato dalla sua famiglia, sperimentò quindi nuovi congegni per aumentare la distanza dei segnali, testandoli nella tenuta di campagna del padre, in località Pontecchio (Bologna).
E proprio qui, nel 1895, dopo aver messo a punto un nuovo tipo di antenna (parola introdotta proprio da Marconi, derivante dal nome di un palo fissato all’albero maestro delle navi), detta “a monopolo” e costituita da un conduttore a forma di asta, fece trillare un campanello da una distanza di due chilometri.

Incompreso in patria. Tesla e altri scienziati, tra cui il fisico indiano Jagadish Chandra Bose, avevano già compiuto test simili con esiti più lusinghieri in termini di distanze percorse, ma il caparbio Guglielmo era pronto a surclassare tutti. Per far ciò dovette però andare in Inghilterra con la madre irlandese, visto che in patria non trovò sponsor adeguati.

BREVETTO RIVOLUZIONARIO. Giunto nel Regno Unito nel 1896, Marconi depositò a Londra la richiesta per il primo brevetto al mondo del telegrafo senza fili, utile a trasmettere messaggi Morse tramite onde radio (a onor del vero, in quello stesso anno un apparecchio analogo fu testato anche dal fisico russo Aleksandr Stepanovich Popov).

Tale rivoluzionario brevetto gli fu riconosciuto dopo alcune dimostrazioni pubbliche, in una delle quali stabilì un contatto radio tra le sponde del Canale di Bristol (Inghilterra Sud-Occidentale), su una distanza di circa 14 km (grazie all’uso di palloni aerostatici e aquiloni con cui alzò in aria le antenne). Non pago, nel 1898, dopo aver fondato la società di telecomunicazioni “Wireless Telegraph & Signal Company”, l’enfant prodige bolognese effettuò la prima trasmissione telegrafica senza fili su mare aperto, con un segnale radio che da Ballycastle, nell’Irlanda del Nord, giunse all’antistante isola di Rathlin (per un totale di circa 12 km).

L’inventore del wireless. Qualche settimana dopo si registrò inoltre il primo lancio di un Sos da una nave con attrezzature fornite da Marconi, il quale nel 1899 realizzò una nuova storica impresa, dal respiro internazionale.
Di fronte alla stampa, stabilì un collegamento telegrafico tra la sponda inglese e quella francese del canale della Manica, su una distanza di oltre 51 km. «In proposito, il New York Times dichiarò che egli aveva “sbalordito il mondo”, e lo consacrò come colui che la Storia aveva scelto come inventore del wireless», racconta Raboy.

Altri brevetti. Nessuno dei suoi “competitor” aveva d’altronde mai fatto meglio, ma nel giro di un paio d’anni Guglielmo fece ancor di più, stabilendo la prima comunicazione transoceanica. Prima però, nel 1900, depositò un altro ingegnoso brevetto, relativo a un circuito, detto sintonico (costituito da un condensatore e da una bobina in rame), che consentiva di ricevere trasmissioni radio su una frequenza determinata, sintonizzandosi con essa, mentre in precedenza i ricevitori tendevano a captare ogni segnale, creando sovrapposizioni di suoni e impedendo di capirne l’esatta provenienza.

INTERCONTINENTALE. Così, alla fine del 1901 Marconi stupì il mondo ricevendo in Canada il citato messaggio in codice Morse proveniente da Poldhu. Ignorava che questo era accaduto perché le onde radio avevano “rimbalzato” sulla ionosfera (strato di molecole e atomi carichi elettricamente, detti ioni), a quel tempo pressoché ignota. Marconi pensava invece che tali onde seguissero la curvatura terrestre. Continuò quindi a sfornare nuove invenzioni, tra cui un rivelatore di onde radio destinato a gran successo, migliorando nel contempo il funzionamento delle antenne.

Un successo. Le sue apparecchiature conobbero così un boom di vendite, finendo su numerose navi destinate alle tratte oceaniche. Come il transatlantico britannico Republic, il cui operatore radiotelegrafico (il “marconista”) lanciò una richiesta di soccorso quando, nel gennaio 1909, nelle acque del Massachusetts, la sua nave fu speronata dal piroscafo italiano Florida.

Il Nobel. Sul finire dell’anno, per il suo “contributo allo sviluppo della telegrafia senza fili”, Marconi ricevette il Nobel per la fisica, condiviso col tedesco Karl Ferdinand Braun, inventore del tubo catodico (dispositivo in cui si concentravano fasci di elettroni, poi sfruttato per lo sviluppo del televisore). «Con Marconi, gli accademici svedesi premiarono per la prima volta il concetto d’innovazione tecnologica, nonché un imprenditore, ruolo che avevano fino ad allora trascurato», sottolinea Raboy.

PIONIERE. Durante la Prima guerra mondiale, l’inventore-imprenditore si schierò tra le file dell’esercito italiano (come ufficiale dell’esercito, ma servendo anche in marina) senza smettere di studiare e progettare. Ad affascinarlo erano soprattutto la radiogoniometria (i radiogoniometri erano strumenti di localizzazione utili a stabilire la giusta rotta di navi e aerei) e le potenzialità della radiodiffusione, ossia la trasmissione di parole e suoni tramite onde elettromagnetiche. Non dimentichiamo che il telefono (con filo) era nato da poco, nel 1876.

Battaglie legali. Allo sviluppo della radio contribuirono in realtà in tanti, da Tesla a Popov passando per l’americano Thomas Alva Edison e il canadese Reginald Fessenden (che nel 1906 realizzò la prima trasmissione di voce e musica), tanto che la paternità di tale tecnologia sarà oggetto di battaglie legali. Di certo c’è che la prima emittente radiofonica di tutti i tempi, la Bbc, vide la luce nel 1922. Nel 1931 inaugurò Radio Vaticana, che lui stesso aveva contributo a creare su richiesta di papa Pio XI, mentre nel 1934, dagli studi Eiar, l’ente antesignano della Rai diede il via alle radiotrasmissioni con gli Usa: Marconi aveva globalizzato le comunicazioni. Niente male per un pioniere autodidatta la cui eredità, la tecnologia wireless, fa sentire oggi più che mai la sua “onda lunga”.

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Quando l’inquinamento diventò un colore: il fumo di Londra

È un grigio scuro con una punta di blu. Periodicamente torna di moda perché è una tinta sobria ed elegante (sempre che si possa attribuire questa caratteristica a un colore). Sto parlando del cosiddetto ‘fumo di Londra‘, colore noto anche come ‘grigio Londra’.

Se volessimo ottenerlo al computer, ad esempio con Photoshop, dovremmo usare una di queste miscele.

Il risultato è un tono di grigio leggermente ‘freddo’, un colore un po’ metallico.

Ma da dove arriva questa denominazione? Molti fanno risalire la codifica di questo colore al ‘Grande smog‘, un gravissimo episodio di inquinamento avvenuto a Londra tra il 5 e il 9 dicembre del 1952.
A creare quella mortale cappa di smog (che provocò oltre 12.000 vittime) fu una concomitanza di cause diverse: lo spostamento dell’anticiclone delle Azzorre sull’Atlantico che provocò la formazione di uno strato di aria fredda e immobile su Londra; il conseguente addensamento di una fitta nebbia dovuta alla condensa dell’aria umida e l’abbassamento delle temperature che spinse gli abitanti ad aumentare il consumo di carbone per il riscaldamento domestico, provocando un’enorme dispersione di particelle di fuliggine che si sommarono a quelle delle fabbriche e delle centrali elettriche.

Gli effetti furono pesantissimi: la circolazione automobilistica divenne pressoché impossibile, i pedoni si smarrivano tra le strade e vennero persino chiusi teatri e cinema poiché il fumo penetrato al loro interno non rendeva visibile il palco. Ma l’aspetto più drammatico fu l’impennata di malattie respiratorie dovute ai livelli altissimi di acido solforico nell’aria che portarono nell’immediato a circa 4.000 decessi.
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Qualche anno più tardi, quando la classe politica si rese conto della correlazione tra quell’evento e i danni provocati alla salute dei cittadini, il governo inglese emanò il Clean Air Act, uno dei primi provvedimenti legislativi moderni volto a ridurre le emissioni inquinanti. Una legge che sostanzialmente decretò la fine dell’era del carbone e lo spostamento fuori dalle città di tutte le attività produttive.
Quanto al color fumo di Londra, come dicevo sopra, la sua  nascita viene spesso associata a questo episodio per via della tinta grigio scuro assunta dall’aria della città. Eppure, spulciando tra la letteratura legata ai colori, ho trovato una citazione del fumo di Londra (descritto in francese come fumée de Londres) già nel testo di Eugéne Chevreul del 1864 in cui pubblicò il suo famoso cerchio cromatico (quello che ispirò a Seurat la tecnica puntinista), il Des couleurs et de leurs applications aux arts industriels à l’aide des cercles chromatiques.

Secondo il chimico francese il fumo di Londra è una sfumatura del nero di Ginevra, tinta che qualche pagina dopo viene descritta come una tonalità di blu.Ma più che capire quale fosse il tono esatto del fumo di Londra, quello che è interessante osservare è che già negli anni Sessanta dell’Ottocento, quasi un secolo prima del Grande smog, l’inquinamento londinese aveva già dato il suo nome a un colore!
D’altronde lo smog delle città inglesi era comparso già nel primo Ottocento con gli effetti della Rivoluzione industriale: la combustione del carbone riempiva l’aria di fumo che, mescolandosi con la nebbia, dava luogo a coltri spesse e irrespirabili. Lo stesso termine smog deriva proprio dalla fusione tra smoke (fumo) e fog (nebbia).

Di questo fenomeno ha scritto un testimone d’eccezione, lo scrittore inglese Charles Dickens (1812-1870). Nel suo Tempi difficili del 1854, un romanzo ispirato all’immaginaria città industriale di Coketown, racconta:
«Era una città con mattoni rossi o, per meglio dire, di mattoni che sarebbero stati rossi se fumo e cenere lo avessero permesso: così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo.»

Questa immagine delle città inglesi, costellate da ciminiere e avvolte dal fumo, diventa in poco tempo anche un soggetto artistico come in questa veduta di Manchester del 1852 realizzata da William Wyld per la regina Vittoria.

L’inquinamento è visto curiosamente come un aspetto romantico del paesaggio, tant’è vero che è inserito all’interno di una bucolica visione con contadini e caprette.
Quarant’anni dopo, le atmosfere fumose delle città industriali diventano il soggetto principale del dipinto, come in questa tela di Lionel Walden dedicata al molo di Cardiff, la capitale del Galles che nel giro di un secolo vide un’enorme espansione grazie alle esportazioni di carbone.

L’inquinamento dell’aria non appariva come un problema ma come la manifestazione visibile del progresso. Quasi un’anticipazione dell’estetica del Futurismo, ma dipinta secondo le regole accademiche.
Tuttavia, secondo uno studio dell’Università di Cambridge, lo smog non avrebbe solo preso il posto dei soggetti della tradizione ma sarebbe stato determinante nella nascita dell’Impressionismo. I ricercatori, infatti, hanno osservato come i dipinti di Turner (considerato per la sua pennellata larga e sfaldata un precursore dell’Impressionismo) e, successivamente, quelli di Monet, diventino anno dopo anno sempre più sfocati, in parallelo con l’aumento di anidride solforosa nel cielo.
Il celebre Pioggia, vapore, velocità del 1844 dipinto da William Turner non sarebbe quindi solo un esperimento di vaghezza, ma un preciso e realistico ritratto del livello di inquinamento presente nell’atmosfera inglese in quel periodo.

Allo stesso modo le vedute di Londra di Claude Monet dipinte alla fine del secolo, specialmente quelle del Parlamento inglese e del ponte di Charing Cross, sono il risultato di una densa coltre di smog, prima che di una tecnica basata sulle pennellate veloci.

Di questo aspetto, del fatto cioè che stesse dipingendo l’aria inquinata, Monet era perfettamente consapevole e in parte anche compiaciuto come rivela una lettera scritta alla moglie nel 1900:
«Sto lavorando molto duramente, anche se stamattina pensavo davvero che il tempo fosse completamente cambiato; quando mi sono alzato ho visto con terrore che non c’era nebbia, nemmeno un filo di nebbia: ero prostrato, e vedevo tutti i miei quadri finiti, ma a poco a poco i fuochi si sono accesi e il fumo e la foschia sono tornati.»

È la stessa foschia che aveva già immortalato Giuseppe De Nittis nel suo periodo londinese del 1878.

Questi pittori, dunque, hanno dipinto (e respirato) il famoso fumo di Londra e in effetti è proprio di quel grigio-azzurro di cui parlava Chevreul. Certo, fa un po’ specie che un fenomeno che oggi, giustamente, combattiamo, sia stato in qualche modo un motore della pittura. Ma tant’è: l’arte è sempre espressione di un’epoca e di una società. E noi dobbiamo osservarla in modo oggettivo, grati di tutte le storie che ci sa raccontare.

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