Ogni popolo ha il suo disgusto: sono pochi gli statunitensi e soprattutto gli asiatici che assaggerebbero volentieri il gorgonzola e del resto molti europei non riuscirebbero a bere nemmeno una goccia di una bevanda gradita in Polinesia: una sorta di brodo ottenuto lasciando marcire il pesce nell’acqua e che “profuma” di conseguenza. Insomma, come tutti sanno, i (dis)gusti sono (dis)gusti.
Che schifo! Ma perché ciò che piace ad alcuni può fare letteralmente accapponare la pelle ad altri? Le ragioni sono sia biologiche sia psicologiche, visto che il disgusto è contemporaneamente una delle sei emozioni fondamentali umane (insieme a rabbia, gioia, tristezza, sorpresa e paura) ma è anche qualcosa di molto fisico e concreto: la nausea che ci assale quando ci capita di assaggiare qualcosa di repellente. Quello che chiamiamo “schifo”.
Innanzitutto, il disgusto è individuale perché lo è il gusto. «Si tratta delle due facce di una stessa medaglia, visto che il disgusto ha la funzione biologica di tenerci lontani da ciò che è velenoso per l’organismo e il gusto al contrario ha la funzione di farci apprezzare e ricordare i sapori dei cibi nutrienti (non a caso ci piace ciò che è dolce e ciò che contiene grassi)», spiega Andrea Stracciari, coordinatore del Gruppo di studio di Neurologia cognitiva e comportamentale della Società italiana di neurologia. Il gusto è infatti il risultato di una serie di informazioni sensoriali provenienti da migliaia di “bottoni” anatomici, le papille gustative, disseminati sulla lingua e in parte sul palato. La distribuzione e la sensibilità delle papille varia però da persona a persona e tutti abbiamo una soglia sensoriale diversa: la quantità minima di sostanza che ci porta a percepire un sapore.
A ognuno il suo disgusto. Questa soglia è molto alta nei bambini, che infatti si disgustano facilmente, e si abbassa progressivamente con l’età. Ci sono poi differenze di sesso, dato che le donne hanno un numero più elevato di papille gustative, specialmente per il salato e l’amaro. E differenze genetiche: ci sono persone predisposte a sentire gli alimenti più salati. Chi sente molto il sale sente anche di più il piccante e il dolce. Anche l’amore per il gusto grasso sembrerebbe legato alla variante di un gene (il CD36), che lo rende più marcato. Il disgusto dunque non è uguale per tutti proprio perché non esistono due lingue uguali, un po’ come accade per le impronte digitali.
Il sapore che più facilmente provoca il disgusto è naturalmente l’amaro (che non a caso se è eccessivo innesca il riflesso del vomito). La spiegazione è semplice: in natura sono amare molte sostanze tossiche, come gli alcaloidi, componenti molto diffusi di alcuni vegetali: l’atropina, la papaverina, il curaro, la stricnina. Non sempre, naturalmente, una verdura un po’ amara è velenosa (cavoli e broccoli lo sono eppure fanno benissimo all’organismo, ma non a caso disgustano molte persone).
Il sistema immunitario comportamentale. «In inglese esistono due parole per denominare il disgusto: quello puramente fisico, la reazione di sputare, provocata dal mettere in bocca qualcosa di molto amaro è detta distaste. Ed è un istinto primordiale: è stato osservato che perfino gli anemoni di mare, presenti sulla Terra da 500 milioni di anni, espellono i cibi amari dalla cavità gastrointestinale», continua Stracciari. Da distaste, ovvero reazione di rifiuto per i cattivi sapori, nella storia della nostra evoluzione il disgusto si è poi allargato alla ripugnanza per tutto ciò che può costituire un pericolo per la salute: cose come gli escrementi o la scarsa igiene. Lo schifo è infatti uno dei meccanismi con cui agisce il cosiddetto “sistema immunitario comportamentale”, quello che non ci fa avvicinare troppo alle persone malate, presumendo che possano essere infettive.
Ciò che non piace a me… Ed è nel passaggio tra distaste (innato e universale) e disgusto (emozione soggettiva) che interviene l’elemento individuale, che dipende in gran parte, anche se non completamente, sia dai condizionamenti familiari sia da quelli culturali. Altrimenti non si spiegherebbe come in Sardegna si possa mangiare il casu marzu, che contiene le larve di mosca casearia che contribuiscono al sapore, o in alcune aree del Messico il grasper taco, un piatto a base di insetti, larve di varie specie e uova di formica, o in Cambogia le tarantole alla griglia. In realtà, alcuni odori (e quindi sapori) sembrerebbero graditi in tutto il mondo, come quello del pane appena sfornato, ma molti altri sono legati alle esperienze personali, ovvero alla memoria: se da bambini quel sapore è stato associato a esperienze più o meno gradevoli. In effetti, anche se a quasi tutti fanno ribrezzo le feci, il vomito, la carne in putrefazione, alcuni insetti e la sporcizia, nella propensione allo “schifo” ci sono notevoli variazioni: alcune persone affascinate dai roditori non provano alcuna repulsione per i ratti, per esempio.
«Si pensa che il disgusto sia più culturale che individuale, ma spesso non è così», fa notare Stracciari. Ci sono insomma nei gusti più differenze tra persona e persona di quante ce ne siano tra culture diverse.
Emozione complessa: il disgusto si può misurare. Proprio perché il disgusto è individuale, esistono scale per misurarlo. «Servono per esempio per valutare alcuni problemi psichiatrici, come i disturbi d’ansia, o quello ossessivo-compulsivo in cui la propensione a questa emozione di solito è più forte», spiega Riccardo Martoni, psicologo del dipartimento di neuroscienze cliniche dell’Istituto San Raffaele Turro di Milano, che si è occupato di adattare una di queste scale alla popolazione italiana. La tendenza al disgusto è infatti una caratteristica della personalità e alcuni studiosi pensano che non possa mutare nel tempo. In realtà, le esperienze possono portarci per un certo periodo ad arricciare il naso più del solito come hanno provato alcuni ricercatori della Ohio State University (Usa): hanno misurato la propensione al disgusto prima e dopo la pandemia da Covid-19 e hanno scoperto che la paura di ammalarsi ha reso molte persone (quelle più timorose) anche più “schifiltose”.
Genetica e ambiente. «Fino agli anni ’90 l’elaborazione cerebrale ed emotiva del disgusto è stata poco studiata. Ma ora le indagini dimostrano che non si nasce con una certa propensione verso una emozione specifica, ma la tendenza genetica si incrocia sempre con l’ambiente», sottolinea Martoni. Una cosa è certa: il disgusto (come del resto le altre emozioni) è scritto nelle parti più profonde del nostro cervello. Ricerche condotte con la risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che il disgusto viene elaborato soprattutto nelle regioni cerebrali dell’insula e dei gangli della base. In particolare, l’insula destra sarebbe all’origine delle sensazioni fisiche di nausea e vomito. Nella parete ventrale del solco temporale superiore del cervello vengono riconosciute invece le espressioni di disgusto. L’insula e i nuclei della base comunque si attivano di più nelle sensazioni di disgusto fisico, mentre la corteccia frontale è più coinvolta nel disgusto morale. E, si sa, anche i cervelli (proprio come la lingua) sono tutti diversi.
Rutti e puzzette. In generale, gli psicologi fanno notare che è disgustoso tutto ciò che supera il confine corporeo: Darwin diceva che vedere un po’ di minestra caduta sulla barba è disgustoso mentre non lo sono né la minestra né la barba viste da sole.
Comportamenti ritenuti maleducati, come ruttare o fare peti, suscitano disgusto proprio perché qualcosa di “interno” esce dal corpo, ma anche in questo caso lo schifo non vale per tutti: in molte culture un rutto è il segno di aver gradito il cibo, così come in molte situazioni non si bada troppo se scappa una… puzzetta. È vero che quasi ovunque le feci sono ritenute ripugnanti, ma è altrettanto vero che nelle terme romane si trovavano latrine comuni, dove era normale intrattenersi e conversare a lungo con i vicini di “seduta”.
VAI ALLA GALLERY
Fotogallery
Come funziona: la lingua e il senso del gusto