Fisica e arte: l’arcobaleno nei dipinti

Apparizione impalpabile e suggestiva, l’arcobaleno è uno spettacolo che emoziona. È una curva di colori sospesa in cielo, una promessa di serenità. Non è facile fotografarlo, ma in questi anni ne ho collezionati parecchi.

Ma esattamente che cos’è un arcobaleno? Lasciando da parte la poesia, si tratta di un fenomeno ottico relativamente semplice: quando piove, ma c’è anche il sole, i raggi luminosi che intercettano le gocce d’acqua subiscono una rifrazione (cioè una deviazione della direzione di propagazione), una riflessione all’interno della goccia e di nuovo una rifrazione uscendo verso l’esterno. Poiché la goccia d’acqua si comporta come un prisma, il raggio che …

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La rifrazione nei dipinti di Matisse: fisica electronic arte

Quella di Matisse per i pesci rossi era una vera ossessione, una mania nata durante un viaggio a Tangeri, in Marocco, che l’artista e la moglie Amélie fecero nel gennaio del 1912.

In quella città, per lui così esotica, il pittore vide molti abitanti del luogo passare intere ore sdraiati a fantasticare, osservando incantati il pigro moto dei pesci rossi nelle loro bocce di vetro. Da quel momento i pesci rossi iniziarono a incarnare per lui la serenità, la contemplazione e il senso di un paradiso ormai perduto. Non stupisce, dunque, che compaiano in almeno quindici opere, tra dipinti e stampe.

Si tratta tuttavia di un soggetto inconsueto: i pesci rossi, introdotti in Europa dall’estremo Oriente nel XVII secolo, come ho raccontato in questo articolo, raramente venivano raffigurati in pittura. Matisse, invece, li rende spesso protagonisti assoluti dell’opera, come nella grande tela dipinta nella primavera del 1912 intitolata proprio Pesci rossi.

Qui, al centro della composizione, campeggia una vasca cilindrica con quattro pesci posata su un tavolino rotondo. Tutto intorno ci sono le piante e i mobili del giardino d’inverno della casa a Issy-les-Moulinaux, nella periferia di Parigi, dove Matisse si era rifugiato per allontanarsi dalla frenesia della capitale.

La prospettiva appare volutamente deformata: il tavolino sembra visto dall’alto mentre la vasca è vista più lateralmente. Eppure questo non disturba l’armonia della scena, dominata dai quattro pesci rossi. Questi attirano immediatamente l’attenzione anche perché Matisse ha scelto di affiancare al colore rosso il suo complementare, cioè il verde, ottenendo l’effetto di “accendere” maggiormente il rosso.
Questo espediente, che l’artista sfrutterà in tutta la sua carriera, derivava dall’esperienza fatta in seno ai Fauves, il gruppo di artisti francesi che nel 1905 rivoluzionò la pittura usando il colore in modo violento e innaturale, guadagnandosi per questo il soprannome di “belve” (in francese fauves).

Tuttavia nell’arte di Matisse non c’era nulla di aggressivo: «Quello che sogno – scriveva il pittore nel 1908 – è un’arte dell’equilibrio, della purezza e della serenità, priva di argomenti preoccupanti o deprimenti, un’arte che potrebbe essere […] un calmante, un potere calmante sulla mente, qualcosa come una buona poltrona che fornisce relax dalla fatica». Nella raffigurazione dei pesci rossi troverà proprio questo: l’essenza della semplicità e della tranquillità.

Poco tempo dopo i pesci rossi tornano in un dipinto quasi astratto, un ricordo onirico del Café Maure di Tangeri. La scena è un campo turchese in cui l’unico riferimento spaziale è una sequenza di archi a ferro di cavallo, sullo sfondo.Delle sei figure sedute o sdraiate sul pavimento si distingue solo il tono ambrato del volto e degli arti, ripreso anche dalla cornice perimetrale. In basso, per terra, una boccia sferica con due pesci rossi. Stavolta la loro presenza non è particolarmente evidente ma restano comunque il fulcro del dipinto, l’elemento attorno a cui ruota la vita lenta e meditativa dei marocchini, tanto invidiata da Matisse.

L’acquario è di nuovo protagonista assoluto in un’altra tela dell’inizio degli anni Venti: La boccia dei pesci rossi. La scena è dipinta nell’appartamento di Matisse, al terzo piano di Place Félix 1, a Nizza.  Attorno alla boccia, che poggia su una cassettiera bianca dalle forme ondulate, pochi oggetti: alcuni frutti, un barattolo, un giornale ripiegato e una bottiglia. Sullo sfondo la carta da parati con motivi floreali e l’angolo di un dipinto con due figure sdraiate.

Nonostante la stilizzazione degli elementi, la scena ha una maggiore concretezza rispetto alle opere precedenti grazie all’ombra che i vari oggetti proiettano sul piano orizzontale e alla generale coerenza della prospettiva. Resta comunque quel senso di silenziosa beatitudine, di incanto ipnotico, creato dai quattro pesci rossi.
C’è tuttavia un indizio, anzi due, che ci inducono a pensare che, al di là dei significati simbolici, la ricerca sui pesci rossi e in generale sui contenitori pieni d’acqua, fosse per Matisse anche una forma di esplorazione dei meccanismi segreti della visione umana. Mi riferisco a quella macchia bruna sul lato destro della bottiglia e a quella arancione sulla superficie dell’acqua contenuta nella boccia. 
Nel primo caso si tratta della carta da parati della parete retrostante che appare riflessa rispetto alla posizione reale per via della rifrazione che avviene dentro il liquido. Nel secondo caso, non si tratta di un quinto pesce a pelo d’acqua ma di uno dei quattro sottostanti che però, – anche stavolta per via della rifrazione – risulta visibile anche in superficie. Questo effetto è ancora più evidente nei Pesci rossi del 1912: in quel dipinto tutti e quattro i pesci appaiono due volte, in posizioni che però non sono quelle corrispondenti alla loro reale collocazione nell’acqua. 

Vediamo come funziona questo fenomeno. La rifrazione avviene nel passaggio di un raggio luminoso da un mezzo a minore densità (come l’aria) a uno a maggiore densità (come il vetro o l’acqua) e viceversa e consiste nella deviazione del raggio luminoso dalla sua normale traiettoria rettilinea. 

Quando il raggio passa da un corpo meno denso a uno più denso si assiste a un avvicinamento alla linea perpendicolare alla superficie. L’angolo di rifrazione θ1 è quindi minore di quello d’incidenza θ2. Si ha un allontanamento dalla verticale se il raggio, invece, passa da un corpo più denso a uno meno denso (l’angolo di rifrazione θ1 è maggiore dell’angolo d’incidenza θ2).
La legge che lega l’angolo di rifrazione all’angolo di incidenza è nota come legge di Snell, dal nome dello scienziato olandese Willebrord Snell van Royen che la formulò nel 1621. Questa legge afferma che il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e il seno dell’angolo di rifrazione è pari al rapporto tra l’indice di rifrazione del secondo mezzo e l’indice di rifrazione del primo. 

Se l’angolo di incidenza è di 0° (dunque il raggio è perpendicolare alla superficie) il suo seno sarà anch’esso pari a 0, dunque risulterà nullo anche l’angolo di rifrazione. Ne consegue che un raggio luminoso che entra o esce dall’acqua in direzione perpendicolare, non subisce nessuna deviazione. In tutti gli altri casi si avrà una rifrazione più o meno evidente in base all’angolo di incidenza.
Il caso della boccia di Matisse è il secondo dello schema in alto: la “sorgente luminosa” infatti è costituita dal corpo dei pesci che rinvia verso il nostro occhio raggi di luce rossa. Questi raggi, che i pesci inviano in tutte le direzioni, si piegano in corrispondenza delle superfici di separazione tra acqua e aria, sia superiormente che sul lato verticale della vasca. 

Accade allora che per via della rifrazione giungano al nostro occhio sia i raggi emessi verso il pelo dell’acqua sia quelli inviati verso il lato della vasca. Per questo motivo ciascun pesce viene visto due volte in posizioni che però sono solo “virtuali“, perché corrispondono all’origine del raggio luminoso se questo non fosse stato deviato. La reale posizione del pesce dentro l’acqua è una via di mezzo, ma non può essere percepita.
Quanto al ribaltamento della decorazione della carta da parati che si osserva sulla bottiglia nel dipinto del 1921, questo è dovuto a una doppia rifrazione, simile a quella che avviene in una lente biconvessa (come la lente di ingrandimento che concentra i raggi solari e innesca il fuoco…).

I raggi luminosi emessi dall’oggetto, posto dietro la bottiglia, vengono rifratti una prima volta passando dall’aria al liquido. Data la convessità della superficie, i due raggi che prima erano paralleli, iniziano a convergere (sebbene l’angolo di rifrazione sia comunque minore di quello di incidenza). Questa convergenza aumenta per via della seconda rifrazione, in uscita dalla bottiglia, al punto che i raggi si incrociano ancora prima di arrivare all’occhio umano. Per questo motivo l’oggetto che sta dietro la bottiglia apparirà ribaltato in senso orizzontale.

Non sappiamo se Matisse conoscesse le regole fisiche di questi meccanismi dell’ottica geometrica, ma il fatto che li abbia rappresentati intenzionalmente, nonostante il suo stile rapido e sintetico, è estremamente significativo. D’altra parte non aveva mai rigettato la concezione di arte come rappresentazione del reale. Secondo Matisse «Un artista deve riconoscere, quando ragiona, che il suo quadro è un artificio, ma quando dipinge, dovrebbe sentire di aver copiato la natura. E anche quando si discosta dalla natura, deve farlo con la convinzione che è solo per interpretarla più pienamente».

Leopardi e la fisica del suo tempo

In Giacomo Leopardi adolescente l’eco delle principali questioni fisiche e matematiche dibattute dai grandi della scienza a lui contemporanei.
Giacomo Leopardi (1798- 1837)
L’articolo di Matmedia “Leopardi fisico e matematico” propone una riflessione sulla formazione scientifica di Giacomo Leopardi,  formazione che avrà un ruolo fondamentale nel suo pensiero filosofico e influenzerà la sua poetica.
Le prime opere adolescenziali denotano grande erudizione ma anche capacità di sintesi e senso critico nelle argomentazioni. Ricordiamo, in proposito, le Dissertazioni filosofiche, comprendenti anche dieci  argomenti di fisica, scritte tra il 1811 e il 1812 ossia all’età di 13 e 14 anni  e la Storia dell’astronomia, scritta un anno più tardi.
Il suo talento precoce era favorito e  stimolato culturalmente dal padre Monaldo, molto esigente  riguardo all’istruzione dei figli e, nonostante le sue idee conservatrici, sempre pronto ad aggiornare  la sua biblioteca accogliendo le  novità in campo scientifico e filosofico
Giacomo e i suoi fratelli potevano  disporre, inoltre, di un piccolo laboratorio per gli esperimenti scientifici. “Studio matto e disperatissimo” da parte dell’adolescente,  ma anche  interesse per la conoscenza del mondo fisico, della Natura, del Cosmo  e grande fascino esercitato su di lui dai grandi scienziati  quali Copernico, Keplero, Galileo  e, soprattutto, Newton.
L’attenzione ai contributi scientifici  negli scritti  di Leopardi, da parte dei critici o interpreti, risale alla seconda metà  del secolo scorso.
Alcune intuizioni da parte di  Italo Calvino nelle “Lezioni americane” e i continui riferimenti alle “Operette morali” nelle sue “Cosmicomiche”, mettono in luce la consapevolezza scientifica che sta alla base di alcune immagini o riflessioni leopardiane, solitamente analizzate dal punto di vista stilistico o nel loro significato filosofico,
Walter Binni, uno dei maggiori studiosi della poetica e del pensiero di Giacomo Leopardi, ne suggerisce un “habitus  mentale” di derivazione scientifica  affermando che: «L’illuminismo fu non solo fornitore a Leopardi di materiali e stimoli filosofici e morali, ma scuola di coraggio della verità, di bisogno di estrema chiarificazione, di lucidità ad ogni costo sulla via del suo attivo pessimismo».
In  occasione della celebrazione del bicentenario della nascita del poeta  (nel 1998) e, qualche decennio più tardi, nel bicentenario  dell’infinito (nel 2019) si assiste sia  a una riscoperta e una valorizzazione dei saggi  di carattere scientifico del giovane Leopardi, sia a una rilettura in chiave moderna delle opere della sua maturità.
Secondo Pietro Greco, giornalista e divulgatore scientifico scomparso due anni fa,
«…L’evoluzione del rapporto tra Leopardi e la scienza si muove con velocità differenziali e direzioni diverse lungo almeno quattro direttrici, certo interconnesse, ma abbastanza autonome da poter essere individuate con una certa precisione…» (Città della scienza /centro studi/Leopardi-e-la-scienza-16 agosto 2016)
Le quattro direttrici di cui parla Greco possono essere ricondotte facilmente ad alcune tematiche di indubbia attualità:

Valore sociale della scienza
Esaltazione della ragione e del rigore scientifico per spiegare i fenomeni
Ricerca del “ senso del mondo”, percezione della complessità del reale
Sfiducia nel meccanicismo e rifiuto del riduzionismo intrinseco nella scienza

Nel saggio “L’infinita scienza di Leopardi”( 2019), gli autori (Giuseppe Mussardo , professore ordinario di Fisica Teorica alla SISSA di Trieste e Gaspare Polizzi, storico della filosofia e della scienza del Centro nazionale studi leopardiani) concentrano le loro riflessioni su tre temi fondamentali :

Leopardi e il cielo
Leopardi e la materia
Leopardi e l’infinito

ricollegabili facilmente agli studi di astronomia, chimica e fisica.
A  questo punto è opportuno osservare che, se è decisamente interessante  affrontare la poetica e il pensiero di Leopardi alla luce della sua formazione scientifica, altrettanto stimolante  potrebbe essere cogliere nelle opere di  Giacomo adolescente l’eco dei principali dibattiti degli scienziati a lui contemporanei e  pensare a un approccio  originale alla storia della fisica e della chimica.
A  partire dalle curiosità e dai  commenti di un giovane studente  meticoloso e tenace, brillante e desideroso di apprendere, possiamo riflettere sul  panorama scientifico  degli anni di passaggio dal XVIII a XIX secolo e su come venissero  affrontati alcuni temi significativi.
Senza aver la pretesa di una trattazione esaustiva, proponiamo due tematiche  abbastanza ampie  che saranno in seguito approfondite, con spirito specialistico, dagli scienziati  XIX secolo:

la struttura della materia e le sue proprietà
la questione copernicana

La struttura della materia e le sue proprietà
Da: Casa Leopardi, Giacomo e la Scienza, 1996
Dalla lettura delle 10 disertazioni di argomento scientifico 

Dissertazione sopra l’attrazione
Dissertazione sopra la gravità
Dissertazione sopra l’urto dei corpi
Dissertazione sopra l’estensione
Dissertazione sopra l’idrodinamica
Dissertazione sopra i fluidi elastici
Dissertazione sopra la luce
Dissertazione sopra l’astronomia
Dissertazione sopra l’elettricismo

emerge il modello di realtà che  Giacomo si era costruito e il quadro concettuale unitario entro cui articola  le spiegazioni dei fenomeni naturali.
Si tratta di esercitazioni scolastiche preparate per il saggio annuale con cui  Monaldo Leopardi era solito far concludere gli  studi dei tre figli, Giacomo, Carlo e Paolina.
Il tono è esplicativo, le argomentazioni puntano sulla citazione di fonti autorevoli o sull’evidenza sperimentale.
La fiducia nella forza della Ragione, la fedeltà  al modello  meccanicistico della realtà, il “culto” della figura di Newton, contrastano, agli occhi del lettore moderno, con alcune convinzioni che sarebbero state a breve superate dalle nuove scoperte e dai  mutamenti di carattere metodologico e filosofico che avrebbero caratterizzano il  secolo XIX . Eppure ci sentiamo trascinati dall’entusiasmo del giovane  conferenziere e seguiamo le sue dissertazioni e i suoi ragionamenti, riscontrando con piacere  alcuni sprazzi di modernità.
Del resto, anche tra gli scienziati dell’inizio del secolo si poteva riscontrare un certo disorientamento di fronte alla molteplicità e alla complessità dei risultati ottenuti, in particolare, in elettrochimica,  in elettromagnetismo e in ottica . Spesso  si cercava una spiegazione riconducibile ai vecchi modelli e, anche se venivano enunciate nuove leggi,  non si arrivava a ideare una teoria ampia e dal potere unificante . Solo nella seconda metà del secolo si avrà la sistemazione della termodinamica e l’elaborazione della teoria dei campi. Per una teoria atomica, nell’ambito della fisica classica, si dovrà aspettare il XX secolo.
Nella Dissertazione sull’estensione si legge:
«…Viene altresì annoverata tra le proprietà dei corpi appartenenti alla loro estensione la Divisibilità. Ciascun corpo è formato di particelle, e di molecole unite insieme per mezzo dell’affinità d’aggregazione, di cui sono dotate. Essi sono dunque divisibili, cioè le particelle possono essere slegate, e scomposte, le quali particelle essendo formate di altre molecole ancor più sottili possono anch’esse per conseguenza esser divise. Infatti, noi non possiamo immaginarci un corpo sebben minimo, nel quale non supponiamo due metà, e per conseguenza può senza dubbio affermarsi esser la materia divisibile in infinito numero di parti infinitamente picciole. Deve avvertirsi, che noi non intendiamo di dire che un corpo sia divisibile in infinito fisicamente, ma soltanto geometricamente, e per mezzo de’ voli astratti dell’umana immaginazione».
«Moltissimi sono quegli esperimenti, con i quali vollero i Fisici dimostrare la Divisibilità dei corpi in modo evidentissimo. Tra questi ell’è utilissima l’osservazione riportata dal celebre Poli circa i raggi della luce, poiché “quantunque, com’egli si esprime, siffatti lumi non decidano se il campo assegnato alla rapportata Divisione si estenda all’infinito, nulladimeno ci mostrano ad evidenza, che la materia è capace di esser divisa in un numero di parti così immenso, che giugne fino a stancare la più vivace immaginazione….
Se in una notte serena, segue il mentovato Scrittore, pongasi a cielo aperto una candela accesa, diffonderà questa tanta luce, che si potrà agevolmente scorgere fino alla distanza di due miglia ossìa di 10 mila piedi tutt’all’intorno. È noto presso de’ Matematici, che uno spazio sferico, che abbia il semidiametro di 10 mila piedi in se contiene 4. bilioni 190 mila 40 e più milioni di piedi cubici. … »
Compare poi in una nota la seguente precisazione
(1) I principj della moderna Chimica dimostrano che la luce, e la fiamma non si sviluppano dal corpo che brucia ma bensì dall’aria vitale allorché l’ossigeno passa nel combustibile insieme con il calorico, e con la luce, con cui era unito, e che abbandonando l’aria vitale, si svolgono, e formano il fuoco.
L’esempio è tratto   da un testo famoso e apprezzato, gli  Elementi di fisica sperimentale (1798) di Giuseppe Saverio Poli e Vincenzo Dandolo, aggiornato sugli ultimi risultati di Lavoisier ma legato inevitabilmente ai modelli  settecenteschi del fluido calorico e dei corpuscoli che stanno a fondamento dei fenomeni luminosi.
Il  concetto di affinità tra le molecole è affrontato in modo generico, come si evince anche dalle dissertazioni sull’attrazione e sulla gravità.
In particolare, vogliamo soffermarci su alcune affermazioni del giovane saggista  riguardo l’interazione gravitazionale, accomunata disinvoltamente ad altre  forze di natura attrattiva, come le forze di adesione o di coesione molecolare.
Affermazioni quali:«…non ha solamente luogo  tra i corpi celesti, considerati l’uno relativamente all’altro. Questa forza agisce altresì in tutte le parti della materia. I liquori si alzano nei tubi capillari al di sopra del loro livello a causa dell’attrazione del tubo….»   non sono, come potrebbe  sembrare,   frutto di un ingenuo fraintendimento da parte del giovane studioso, bensì rispecchiano la convinzione, in quel tempo abbastanza diffusa negli ambienti scientifici, che l’attrazione fosse una proprietà della materia e che si manifestasse, oltre che nella gravitazione,  in molti altri  fenomeni di interazione fra corpi  solidi o fluidi o anche tra corpuscoli dotati di massa.
Interessante è il confronto tra le  dissertazioni di Giacomo  e alcuni  brani tratti dalla Storia dell’astronomia dell’astronomo  Jean-Silvain Bailly ridotta in compendio da  Francesco Milizia ( 1791), uno dei testi  su cui Giacomo aveva studiato.
L’autore sembra abbastanza deciso nell’identificare le forze  di attrazione tra molecole e l’attrazione gravitazionale
«Le affinità chimiche, le dissoluzioni, le precipitazioni, le coagulazioni non sono che attrazioni. Queste molecole esercitano a piccole distanze proporzionalmente alle loro masse un’attrazione simile a quella che i globi celesti esercitano negli spazi dell’Universo a distanze enormi…».
«La causa della coesione è l’attrazione o sia la gravità; e siccome la coesione è più o meno in tutti i corpi, Newton con ragione ha conchiuso che la gravità è universale in tutte le parti della materia»
Ribadisce la spiegazione «gravitazionale» che  Newton fornisce per il fenomeno della rifrazione della luce:
«La luce s’inflette passando presso i corpi per l’attrazione che prova e la devia. Passando da un mezzo ad un altro più denso si refrange, va più veloce poiché vi è più attratta»
L’autorità del paradigma newtoniano è ancora molto solido negli ambienti scientifici del primo ‘800.
Sviluppatosi principalmente come empirismo in Inghilterra e come razionalismo in Francia.  aveva alimentato la convinzione che il modello meccanicistico fosse in grado di descrivere e studiare tutti i fenomeni naturali.
La legge di gravitazione universale, in particolare, con il suo potere unificante,  resta il modello da seguire, almeno per analogia,  nell’interpretare  fenomeni in cui intervengono mutue forze attrattive tra  corpi, dipendenti dalla loro distanza.
Come si può osservare nelle affermazioni di Bailly, l’indiscussa  autorità degli scritti newtoniani poteva arrivare a far interpretare in modo acritico, e in parte errato, il suo pensiero.
Newton è molto più cauto nell’estendere la legge di gravitazione universale  al di fuori della meccanica, anche se, in effetti, per  quanto riguarda l’ottica, pensava che la  rifrazione potesse essere  ricondotta ad un fenomeno di attrazione tra masse,  avvalorando  la sua ipotesi corpuscolare sulla natura della luce.
Se  avesse avuto l’opportunità di anticipare i risultati ottenuti nel 1850 da  Fizeau e Foucault  relativamente alla  velocità della luce, avrebbe osservato che questa è maggiore nel vuoto che non  in un mezzo materiale e sarebbe giunto ad altre conclusioni.
Il pensiero di Laplace  (Exposition du système du monde-1823)  appare invece molto più lucido e più vicino  alla posizione newtoniana ( Hypotheses non fingo)
«L’attrazione sparisce tra i corpi di una grandezza poco considerevole: essa riappare nei loro elementi sotto un’infinità di forme. La solidità, la cristallizzazione, la rifrazione della luce, il sollevamento e l’abbassamento dei liquidi negli spazi capillari, e in generale tutte le combinazioni  chimiche sono il risultato di forze la cui conoscenza è uno dei principali obiettivi dello studio della natura. Così la materia è soggetta all’impero di diverse forze attrattive: una di esse, estendendosi indefinitamente nello spazio, regge i movimenti della terra e dei corpi celesti; tutto ciò che riguarda la costituzione intima delle sostanze che li compongono dipende principalmente dalle altre forze la cui azione è sensibile solo a distanze impercettibili. E’ quasi impossibile, per questa ragione, conoscere le leggi della loro variazione con la distanza; fortunatamente, la proprietà di essere sensibili soltanto assai vicino al contatto basta per sottomettere all’Analisi un gran numero di fenomeni interessanti che ne dipendono».
L’opera di Laplace è del 1823.
L’invenzione della  pila di Volta aveva  indicato nuove vie di ricerca sull’elettricità. Nel 1808  il chimico inglese  sir Humpry Davy aveva ottenuto i primi risultati di dissociazione elettrolitica .
La comunità scientifica francese era  fortemente influenzata dal programma laplaciano, tendente a spiegare i fenomeni fisici a partire dalle proprietà di fluidi imponderabili (fluido elettrico vetroso o resinoso, fluido magnetico australe o boreale, calorico ecc. ecc.)  le cui particelle ultime  interagivano a distanza, tramite forze di tipo newtoniano.
La formalizzazione  poteva avvenire nell’ambito dell’apparato matematico che già aveva  segnato l’indiscusso progresso della meccanica e dell’astronomia.
Le esperienze di Cavendish e di Coulomb, mediante la bilancia di torsione, avevano dimostrato, già alla fine del ‘700,  l’analogia tra le leggi che descrivono le interazioni gravitazionali, elettrostatiche e magnetiche.
L’interazione corrente-magnete scoperta da  Oersted  nel 1820 sembrava invece difficilmente riconducibile allo schema newtoniano e questo  aveva costituito una vera e propria sfida  tra gli scienziati francesi, di cui sono noti gli importanti risultati,  sia sperimentali sia nella formalizzazione matematica ( esperienza di Arago, leggi di Ampère, di Biot-Savart e dello stesso Laplace).
Ormai è ben nota la differenza tra le varie forze di interazione conosciute, sia per quanto riguarda la natura delle particelle interagenti, sia  dal punto di vista dell’intensità delle forze.
Qualsiasi studente liceale sa, per esempio , che  l’attrazione  gravitazionale tra un protone e un elettrone è molto più  debole , di circa 40 ordini di grandezza, dell’interazione elettrostatica, la quale svolge , pertanto, un ruolo essenziale  nella struttura microscopica della materia.
Agli inizi del secolo  XIX,  invece ,  in assenza di opportune  valutazioni quantitative e  di conoscenze adeguate sulla struttura della materia, le interazioni tra particelle dotate di massa venivano assimilate alle interazioni  gravitazionali.
Va precisato, in proposito, che, sebbene  comunemente si attribuisca a Cavendish la determinazione della costante  di gravitazione  universale, la formulazione  moderna della legge  di  Newton è entrata nella letteratura scientifica solo  nelle seconda metà secolo.
I risultati del  noto esperimento di Cavendish furono formulati, invece, in funzione del valore della densità media  della Terra, ovvero del valore della sua massa, dedotto dal  rapporto delle forze esercitate, rispettivamente, dalla Terra e dalla massa “grande” utilizzata nell’esperimento, su una stessa massa, la massa  “piccola”  posta a distanza  da essa.
Ricordiamo, infine l’approccio innovativo da parte  di Faraday, che, rifiutando il modello delle particelle di fluido interagenti a distanza, spostò l’attenzione sulle proprietà dello spazio, sede dei fenomeni elettromagnetici, il quale  diventa «campo di forze». Le sue  proprietà sono descritte  dalle linee di forza o linee di campo, secondo  un modello che sarà poi formalizzato, dal punto di vista matematico, nella sintesi maxwelliana.
Ovviamente non possiamo aspettarci che, nella dissertazione sull’elettricismo, il giovane Giacomo possa conoscere o immaginare l’importanza che i fenomeni elettrici avrebbero acquistato  in campo scientifico, tecnologico e industriale.
La dissertazione spazia pertanto nel campo meteorologico ( pioggia, fulmine, terremoto, tromba d’aria ecc. ecc.) .
Le spiegazioni dei fenomeni  mostrano i limiti del modello del fluido elettrico che non riesce a suggerirne in modo esauriente l’origine e la natura, anche se  fornisce alcune indicazioni per  difendersi da  eventuali effetti dannosi.
La conclusione sembra un tentativo di dare maggiore dignità all’argomento:
«Tutto ciò, che abbiam detto contiene in brevi parole l’intera Teoria dell’elettricità. Non possiamo al certo bastantemente encomiare quei Fisici, i quali impiegar seppero i loro lumi nel discuoprire la cagione, e l’origine di sì spaventosi fenomeni per poi dar campo alle ricerche intorno al modo di preservarsi da loro terribili effetti. Non si scorgerebbe certamente nelle Fisiche dottrine un sì gran numero d’inutili questioni se tutti i Filosofi impiegar sapessero la loro scienza nella ricerca soltanto di quelle cose, che ridondar possono in qualche modo a pro del genere umano. > >
La consapevolezza della rilevanza del progresso degli studi sui fenomeni elettrici traspare invece in una delle ultime poesie di Leopardi: la “ Palinodia al Marchese Gino Capponi” (1835).
Le moderne applicazioni dell’’elettricità, citata attraverso gli epigoni Volta e Davy , non riescono a vincere le forze inevitabili dell’egoismo umano.
L’entusiasmo e la fiducia nel valore sociale della Scienza ha lasciato il posto alla delusione e al pessimismo di fronte a una società che insegue il mito del progresso  dimenticando però gli ideali di  verità e di giustizia.
…………..Ardir protervo e frode, Con mediocrità, regneran sempre, A galleggiar sortiti. Imperio e forze, Quanto più vogli o cumulate o sparse, Abuserà chiunque avralle, e sotto Qualunque nome. Questa legge in pria Scrisser natura e il fato in adamante; E co’ fulmini suoi Volta nè DavyLei non cancellerà, non Anglia tutta Con le macchine sue, nè con un Gange Di politici scritti il secol novo. Sempre il buono in tristezza, il vile in festa Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse In arme tutti congiurati i mondi Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti Il debole, cultor de’ ricchi e servo Il digiuno mendico, in ogni forma Di comun reggimento, o presso o lungi Sien l’eclittica o i poli, eternamente Sarà, se al gener nostro il proprio albergo E la face del dì non vengon meno…… > >
 La questione copernicana
 Ha senso parlare ancora, ai tempi di Leopardi , di una questione copernicana?
Quando il giovanissimo Giacomo affrontava  gli studi di astronomia,  la teoria eliocentrica era già consolidata in ambito scientifico, accettata anche da scienziati cattolici o luterani . La Chiesa cattolica  però, non aveva ancora abrogato il Decreto della Congregazione dell’Indice del 1616, cosa che avvenne  qualche decennio più avanti  con la riabilitazione di tutte le opere di ispirazione copernicana.
In alcuni ambienti cattolici particolarmente intransigenti c’era , pertanto, una certa cautela  nell’insegnare  o propagandare il sistema copernicano come modello della realtà fisica, in accordo con la  prefazione del De revolutionibus orbium coelestium   ( rivelatasi in seguito apocrifa e attribuita al teologo  luterano  Andrea Oslander ) che parlava di “ipotesi matematica”.
Lo stesso Monaldo Leopardi continuò a dichiararsi anticopernicano convinto, fino a sfidare la Chiesa dalle pagine del periodico “La voce della ragione “ , da lui diretto, difendendo, da un lato, le decisioni dell’Inquisizione romana e , dall’altro,  cercando di demolire con argomentazioni di carattere scientifico  le prove sperimentali addotte dai sostenitori del sistema eliocentrico.
Si comprende pertanto  perchè nella Dissertazione sull’Astronomia, uno dei componimenti scolastici presentati nei saggio annuale  di casa Leopardi nel 1812, il giovane Giacomo tesse le lodi del sistema copernicano “il più ammissibile fra tutti i sistemi celesti” ma aggiunge nel finale la seguente riflessione:

L’ambiguità della posizione della Chiesa Cattolica fece scalpore, anche in campo internazionale,  quando, nel 1818 il Maestro del Sacro Palazzo negava al canonico Settele ,docente alla Sapienza di Roma,  l’imprimatur  per il secondo volume del trattato  “Elementi di ottica e astronomia” in quanto fondato sul sistema copernicano.
Il Santo Uffizio fu costretto a intervenire con un apposito  decreto ( nel 1822) e avviare un processo di riabilitazione di tutte le opere  di ispirazione copernicana che si concluse nel 1835, sotto il papato di Gregorio XVI.
Appena un anno dopo la Dissertazione , Giacomo completa la sua  “Storia dell’astronomia”  nella quale  l’adesione al copernicanesimo è  più decisa , tra l’entusiasmo di spirito illuminista per la forza della Ragione e il riconoscimento dell’esistenza di un  Dio «autore e regolatore  dell’ammirevol macchina dell’Universo».
Il  progresso dell’astronomia  si trasforma nello strumento che libera l’uomo dalle  superstizioni e dalle credenze errate e lo conduce alla civiltà e alla vera Sapienza, mentre le implicazioni di carattere  filosofico sembrano restare in secondo piano.
I riferimenti alle dispute intorno alla pluralità dei mondi e all’abitabilità dei corpi extraterrestri dimostrano, comunque,  che Giacomo aveva ben recepito i punti salienti e anche  i nodi di questo secondo aspetto della nuova questione copernicana. Con molta franchezza, infatti,  conclude che sono tutte discussioni inutili e oziose, dalle quali non è possibile «ritrarre il minimo frutto». La controversia infatti non potrà «mai venire alla conclusione», essendo questa «la più insolubile di tutte le questioni».
Il rifiuto  dell’antropocentrismo, un tempo tacciato di eresia, ben si conciliava invece  con lo spirito egualitario degli Illuministi.
Le  intuizioni di Giordano Bruno   sulla pluralità e infinità dei mondi,  giudicate  a suo tempo  inverosimili e diaboliche, avevano acquistato una base di credibilità, almeno a livello di possibilità.
Pur riconoscendone l’infondatezza  sia al livello sperimentale, sia dal punto di vista  speculativo,   queste idee erano patrocinate dai più eminenti astronomi del XVIII secolo, incontrati da  Giacomo nei libri della biblioteca paterna   (Lalande, Bailly, William Herschel) .  La forza dell’analogia, l’inconsistenza di una situazione privilegiata da assegnare alla terra ( unita alla mancanza di nozioni sulla genesi della materia vivente) sembrano punti a favore dell’esistenza di altre forme di vita o di altri sistemi solari simili al nostro .
Non mancavano  poi alcune opere di fantasia come l’ironico Micromega di Voltaire  o di divulgazione scientifica, come I Colloqui sulla pluralità dei mondi ( 1686 ) di Bernard le Bovier de Fontenelle e il poema  dai toni preromantici “ Complaint or night thoughts on life , death and immortality” (1742-45),del poeta ecclesiastico  inglese Edward Young.
Quest’ultimo, di cui Leopardi conosceva probabilmente la traduzione italiana di L.A. Loschi, vede  nella pluralità dei mondi e nell’infinità dell’universo la testimonianza dell’infinita onnipotenza di Dio  Creatore che non può  rimanere limitata nell’angusto  spazio del nostro pianeta.
Copernico continua poi ad essere presente in più punti della produzione leopardiana,  a prova del fatto che le letture giovanili  avevano avviato un processo di interiorizzazione,  sfociata poi  nel  pensiero filosofico e  nella sublime arte poetica.
«Una prova di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl’intellettuali e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnova interamente l’idea della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto Tolemaico; rivela una pluralità di mondi, mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione, il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno, benchè non ci appariscano, intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima; scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell’esser nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec. ec. »(Zibaldone, 84, 18209)
«Il sistema di Copernico insegnò ai filosofi l’uguaglianza dei globi checompongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura,anzi all’opposto), nel modo che la ragione e la natura insegnavano agliuomini ed a qualunque vivente l’uguaglianza naturale degl’individui diuna medisima specie». (Zibaldone, 975, 22 aprile 1821) (28).E’ noto il divertente dialogo “Copernico” delle Operette morali in cui la rivoluzione  copernicana nasce da una esigenza  del Sole che chiede a Copernico di concedergli il meritato riposo e di  costringere l’oziosa Terra a mettersi in movimento.
Forse  è meno noto questo brano  della storia dell’astronomia di cui il “Copernico” sembra essere lo sviluppo e l’ approfondimento:
«Quell’ardimentoso Prussiano che fe’ man bassa sopra gli epicicli degli antichi e spirato da un nobile estro astronomico, dato di piglio alla terra, cacciolla lungi dal centro dell’Universo ingiustamente usurpato, e a punirla del suo ozio, nel quale avea marcito, le addossò una gran parte di quei moti, che venivano attribuiti ai corpi celesti, che ci sono d’intorno».
I notissimi versi del “Canto notturno di un pastore errante” composto  tra il 1829 e il 1830 , ci hanno tante volte coinvolto nelle domande senza risposta sul destino e sull’identità dell’uomo
E quando miro in cielo arder le stelle;Dico fra me pensando:A che tante facelle ?Che fa l’aria infinita, e quel profondoInfinito seren ? che vuol dir questaSolitudine immensa ? ed io che sono ?
Quanti di noi le hanno confrontate con le parole di sir John Herschel  (1792 –1871) (matematico e astronomo figlio di William)?
«A quale scopo, scrive dobbiamo supporre che le stelle siano state disperse nell’immensità dello spazio? Non sarà stato senza dubbio per illuminare le nostre notti, oggetto che potrebbe meglio svolgere una luna piu di quanto non farebbe la millesima parte della nostra, né per brillare come uno spettacolo vuoto di senso e di realtà e ci perdiamo in vane congetture. Questi astri sono, è vero, utili all’uomo come punti permanenti ai quali può rapportare tutto con esattezza; ma bisognerebbe aver ricevuto ben poco frutto dallo studio dell’astronomia per poter supporre che   l’uomo sia il solo oggetto delle cure del suo Creatore e per non vedere, nel vasto e sorprendente  apparato che ci circonda, luoghi destinati ad altre razze di esseri viventi».
Un secolo dopo  Hubble enunciava la  legge che confermava  il modello di un universo in espansione, popolato da innumerevoli galassie distinte dalla nostra Via Lattea.
La Terra non è il centro dell’universo, non lo è il Sole, non lo è la Via Lattea.
Nel XX secolo la cosmologia, studio  dell’Universo nella  sua totalità su grandi scale, ormai separata  dall’astronomia, è una scienza osservativa  che non ha abbandonato  i suoi aspetti speculativi.  I tre principi che ne stanno alla base richiamano le antiche dispute dei filosofi  ma  hanno un chiaro significato di ipotesi di lavoro.
Primo assunto è l’isotropia dell’Universo  (principio cosmologico)   complementare all’omogeneità  di tutti i punti di osservazione (principio copernicano).
Si sente la necessità di un terzo principio, il principio antropico:
“I valori osservati delle quantità fisiche o  cosmologiche non sono equiprobabili ma sono  limitati  dal prerequisito che l’universo cui danno luogo, a un certo punto della sua storia, permetta l’esistenza di una forma di vita come la nostra, basata sul carbonio” (principio antropico debole di Barrow-Tipler) .
Nuovi interrogativi attendono una risposta: il nostro universo è il risultato di  un’eccezionale coincidenza cosmica o esistano infiniti universi fisici e noi abitiamo in uno di quelli che sono adatti alla vita?

Laureata in matematica, all’Università “La Sapienza” di Roma  . Vincitrice di concorso a cattedra per la classe matematica e fisica, ha  insegnato a Roma nel liceo scientifico  “Cavour” e ha collaborato con la S.S.I.S del Lazio in qualità di insegnante accogliente per i tirocinanti. In pensione dal 2009, ha partecipato al progetto del MIUR “La prova scritta di Matematica degli esami di Stato nei Licei Scientifici: contenuti e valutazione”  . Collabora alle attività di formazione della Mathesis.

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