La scuola bloccata
Il libro di Andrea Gavosto, La scuola bloccata, porta a chiederci chi sia davvero da educare e come e se non sia da assicurare il primato dell’etica sull’economia.
Nel giudicare un’opera, non è inutile tener conto delle referenze dell’ autore, per poter valutare l’impatto della sua ideologia sull’argomento trattato.
Andrea Gavosto è un economista, presidente della Fondazione Giovanni Agnelli, membro di Confindustria e del Comitato tecnico-scientifico internazionale istituito dal MIUR per la messa a punto del sistema nazionale di valutazione delle scuole. Da lui la prassi educante tradizionale è vista come ostacolo a un proficuo passaggio studentesco al mondo del lavoro. Dovremmo accettare l’idea che vi sia un blocco della scuola dovuto ai nostalgici di un tempo che fu. Sarebbe colpa loro se gli studenti italiani, a stare alle rilevazioni di enti non ministeriali, giungono sempre più impreparati al termine degli studi e sempre meno adatti al lavoro.
Sembra che ormai la pedagogia sia stata bandita dal dibattito sull’istruzione.
È l’economicismo a regnare. Potremmo chiederci da che cosa gli economisti siano legittimati a occuparsi di scuola in tal modo. La loro è una scuola vista essenzialmente in funzione del mercato del lavoro. Non si comprende allora perché non si metta prioritariamente in discussione la realtà lavorativa piuttosto che la formazione scolastica. Gli sbocchi occupazionali a diversi livelli (professionistico, impiegatizio, operaio) si rivelano generalmente deludenti in termini di dignità e compenso. La rovinosa alternanza scuola-lavoro si è palesata funzionale a un progetto di deprivazione culturale dei giovani e di addomesticamento al regime capitalistico.
L’autore prende in esame il sistema scolastico italiano in un contesto internazionale.
Ovviamente per il nostro paese si avvale delle ormai ben note risultanze delle misurazioni Invalsi circa gli apprendimenti, i quali secondo l’ente non ministeriale risentono di divari territoriali, sociali, di genere dal carattere catastrofico. Per quanto riguarda i divari di genere, si sofferma sull’asserita inferiorità delle ragazze nelle discipline scientifiche, dovuta a stereotipi sociali e a metodi didattici inadeguati:
“Mentre cambiare gli stereotipi di genere richiede un lavoro lungo e paziente, modificare le metodologie di insegnamento è realizzabile nell’arco di un ciclo scolastico. La didattica tradizionale non conduce a risultati soddisfacenti: un approccio meno trasmissivo all’insegnamento della matematica potrebbe determinare una riduzione del divario, avvicinandosi maggiormente allo stile cognitivo delle bambine.”
L’auspicio dell’autore è che le ragazze possano orientarsi sempre più verso le STEM – Science, Technology, Engineering, Mathematics. Sembra quindi da non escludere l’avvio di una propaganda che miri a reclutare fra le studenti tante future scienziate, anche se non è dato comprenderne il vantaggio.
Coerente con la sua visione aziendalista, l’autore a un certo punto affronta le problematiche delle variabili all’interno del sistema scolastico in termini di trade-off.
Si tratta del fenomeno così definito nell’Enciclopedia Treccani in rete:
“In economia, relazionale funzionale tra due variabili tale che la crescita di una risulta incompatibile con la crescita dell’altra e ne comporta anzi una contrazione. Si parla di trade-off quando si deve operare una scelta tra due opzioni ugualmente desiderabili ma tra loro contrastanti. Ne consegue che un’azione di politica economica che assumesse come obiettivo l’acquisizione di vantaggi in termini di una opzione comporterebbe inevitabilmente costi in termini dell’altra.”
Si tenga presente però quanto scrive Luca Pezzotta a proposito delle variabili in economia:
“Ogni apparente correlazione tra due variabili può essere una coincidenza non collegata, direttamente casuale oppure collegata ad una terza variabile o anche ad un insieme di variabili.”
Ragionare in termini di relazione fra due sole variabili, se può essere fuorviante in economia, lo è in misura ancor maggiore all’interno del sistema scolastico (come del resto avviene per qualsiasi sistema complesso), tant’è vero che poi lo stesso autore è lungi dall’attenersi esclusivamente al trade-off nella sua disamina del cosiddetto blocco della scuola.
In tema di politiche scolastiche l’autore si sofferma sul come insegnare.
Naturalmente lo fa nella prospettiva dei venti miliardi di euro per la scuola previsti nel PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Per investire in modo ottimale bisognerebbe operare in termini di modifica del funzionamento scolastico. Mentre resta irrisolto il rapporto fra indicazioni nazionali e autonomie, risalta comunque la necessità di una radicale modifica dei curricoli. Vengono chiamati in causa tra l’altro i libri di testo, che secondo l’autore “si sostituiscono ai docenti nell’elaborazione delle strategie di insegnamento”. Se è vero che urgono nuove modalità di trasmissione dei saperi, destano non poca diffidenza le esortazioni a concentrarsi sui nuclei fondanti delle materie e a ridurre quelle “indispensabili” a uno “zoccolo comune” alla stregua dei common core standards statunitensi, destinandone altre a restare opzionali. Il risultato ovviamente sarebbe quello di depauperare le conoscenze.
L’autore osserva che nell’insegnare bisogna preoccuparsi anche di orientare gli allievi.
Ciò al fine di indirizzarli verso gli studi accademici oppure verso le attività lavorative proprie dei non laureati. Un corretto orientamento richiede che si riconoscano le attitudini personali degli studenti e le loro motivazioni, informandone anche le famiglie, nonché creando “una serie di occasioni per applicare le competenze sviluppate ai casi della vita reale”. Ritorna qui l’ideologia delle competenze in contrapposizione alle conoscenze. È un’ideologia che comporta conseguenze di ordine strutturale, nel senso che l’intera architettura scolastica tradizionale verrebbe ad esserne scompaginata.
Per quanto riguarda la formazione delle classi, l’autore le vorrebbe “costruite sul livello di competenza degli studenti”.
Ciò nel solco della pratica statunitense detta ability tracking. Vale a dire che “si potrebbe sfruttare meglio l’effetto pari, soprattutto mescolando alunni con età anagrafiche diverse, che la letteratura indica come il mix più efficace”. Tuttavia, se si va alla ricerca di un modello ideale, non è dato reperirlo:
“Esiste un modello migliore degli altri? La risposta è negativa: nonostante alcuni tentativi di determinarlo attraverso i risultati degli studenti nei test standardizzati, non è mai stato possibile dimostrare la superiorità di un modello sugli altri […]”
Costretto a riconoscere che i test standardizzati non offrono alcun apporto al miglioramento del sistema scolastico, ciononostante l’autore un suo modello lo propone. Anche se ogni anno di istruzione in più aumenta i benefici, la durata della scuola materna potrebbe essere ridotta di un anno, oppure la scuola secondaria superiore potrebbe durare quattro anni con un prolungamento dell’orario giornaliero. Questa ingegneria istituzionale finisce col risultare contraddittoria, perché da una parte si riconosce il beneficio di una dilatazione del tempo scolastico e dall’altra se ne propone la contrazione (il prolungamento dell’orario giornaliero è comunque una forzatura nei confronti dei ritmi di sviluppo adolescenziali).
L’autore si sofferma sulle competenze del futuro richieste dal cambiamento tecnologico.
Siamo ormai in una fase di incertezza, che la scuola non insegna ad affrontare: “A fianco delle competenze abituali, la scuola dovrebbe fare uno sforzo perché gli studenti sviluppino creatività, interazioni sociali e capacità di gestire l’incertezza per affrontare il loro futuro: purtroppo, ambiti in cui la nostra scuola non eccelle.”
Si ricalca qui il pensiero del Premio Nobel James Heckman, economista e statistico statunitense, docente in varie università (Chicago, Columbia, Yale, Dublino), assertore dell’importanza dei character skills nell’apprendimento scolastico, ossia delle cosiddette competenze trasversali consistenti negli aspetti caratteriali, non essendo sufficienti le sole abilità cognitive per la formazione del capitale umano. Su questa scia l’autore rivendica l’importanza del grit, che nel vocabolario inglese significa coraggio e determinazione nell’affrontare le difficoltà. È evidente che s’intende così alludere alla competitività in campo economico.
Si sa che le politiche scolastiche debbono fare i conti con gli insegnanti.
Qui l’autore è perentorio: “Un sistema scolastico vale quanto valgono i suoi insegnanti.”
Poiché tale affermazione presa isolatamente è tale da rendere inutile qualsiasi proposito di cambiamento del sistema, l’autore precisa che l’apporto non dei singoli docenti, ma di gruppi di docenti all’apprendimento è un “valore aggiunto”. Rileva che nella formazione iniziale dei docenti vi è “scarsa enfasi sulle competenze didattiche”. Ritiene necessario un nuovo sistema di selezione. Per lui ormai l’immagine “romantica” dell’insegnante è obsoleta. Viene sfiorato anche il rapporto dei docenti coi presidi ed è avanzata una proposta: introdurre fra loro la funzione intermedia del middle manager, figura di mediatore presente nei quadri aziendali. Per quanto riguarda le condizioni di lavoro dei docenti, viene riconosciuta la sussistenza di un’insoddisfazione dovuta alla “struttura salariale piatta”. Per rimediare, si dovrebbero introdurre crediti formativi con l’obiettivo di istituire un meccanismo di carriera secondo un criterio meritocratico. Infatti, se i docenti non mostrano interesse per la preparazione relazionale e pedagogico-didattica, ciò sarebbe dovuto alla mancanza di incentivi. Non sarà sfuggito all’attento lettore che il lessico dell’autore è costellato di termini economici e ciò rappresenta la conferma linguistica della concezione della scuola come azienda.
L’autore si sofferma poi sul come insegnare.
Non si può dire che non sia aggiornato sulle più recenti ricerche attinenti all’educazione scolastica in campo internazionale. Cita, ad esempio, le ricerche del neozelandese John Hattie, direttore del Melbourne Education Research Institute presso l’Università di Melbourne, noto per aver individuato nel suo Visible Learning centinaia di fattori che influenzano l’apprendimento (finora, a quanto è dato saperne, 252), restando però non esente da critiche per le sue pretese di scientificità.
Ormai è una moda infarcire i discorsi pedagogici con anglismi che dovrebbero suonare come rimprovero agli insegnanti, quasi che essi non siano avvezzi a fare ricorso alle metodiche indicate in quanto non aggiornati: cognitive task analysis (analisi focalizzata sul comprendere compiti che richiedono presa di decisioni, soluzione di problemi, memoria, attenzione e capacità di giudicare), response to intervention (identificare gli studenti in difficoltà fin dall’inizio e dare loro il supporto di cui hanno bisogno per ben fare a scuola), jigsaw (tecnica mediante la quale gli studenti apprendono in modo cooperativo), scaffolding ((sostegno mediante tutoraggio), e così via.
Non manca il riferimento alle architetture didattiche di Giovanni Bonaiuti: ricettiva o trasmissiva, comportamentale, simulativa, collaborativa, esplorativa, metacognitiva. Né poteva mancare il riferimento alle griglie di osservazione dei comportamenti dei docenti in aula elaborate dal connubio Fondazione Agnelli-Invalsi.
L’autore sintetizza infine i principali modi per sbloccare la situazione scolastica.
Punti salienti sono “riforma dei cicli, orientamento, formazione, selezione e carriera dei docenti, allungamento del tempo della scuola”. Per ottenere ciò, il nostro Ministero dell’Istruzione andrebbe marginalizzato sull’esempio dell’Ofsted anglosassone, così descritto sul sito:
“Ofsted is the Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills. We inspect services providing education and skills for learners of all ages. We also inspect and regulate services that care for children and young people. Ofsted is a non-ministerial department.”
Si noti la frase finale: “Ofsted is a non-ministerial department.”
Andrea Gavosto pretende che l’operato dei docenti e dei presidi sia valutato da organismi con una “maggioranza di esterni alla scuola”, confermando in tal modo il progredire del progetto egemonico di enti privatistici decisi a scongiurare ingerenze statali nei contesti scolastici:
“Ragionevolmente, una riforma del governo delle scuole dovrebbe trasformare gli organi collegiali da strumenti di partecipazione democratica a organismi di vaglio e discussione dell’operato del dirigente e dei docenti, con una formazione ridotta rispetto all’attuale e a maggioranza di esterni alla scuola (famiglie, enti locali, uffici regionali del ministero).”
Nelle conclusioni l’autore riassume i modi per superare il mismatch fra i bisogni delle scuole (domanda) e le caratteristiche dei docenti (offerta).
Ragionando in termini economistici, come si desume dall’uso del termine mismatch (disequilibrio fra domanda e offerta), paventa il rischio che si verifichi una fuga dalla scuola pubblica verso il settore privato e ciò perché le famiglie non gradirebbero una scuola non selettiva. Strana questa idea: infatti non poche famiglie attualmente sono portate a orientarsi verso il settore privato (reso paritario per decisione politica), ove allignano non pochi diplomifici, proprio perché in essi non vi è selezione, ma si elargiscono titoli di studio a pagamento a studenti che non frequentano le lezioni.
Strano anche il modo in cui l’autore si contraddice sul rapporto fra i test Invalsi e il successo lavorativo.
Infatti, dopo avere riconosciuto che “da noi non ci si è mai preoccupati di verificare se un buon risultato ai test Invalsi sia effettivamente un indicatore della probabilità di emergere negli studi successivi e nel lavoro”, sostiene che le famiglie dovrebbero capire “che i test Invalsi non sono un’inutile tortura a cui sono sottoposti i loro figli, ma che le competenze di base che essi misurano sono utili per il prosieguo della loro vita”. Con questa apologia dell’Invalsi stride poi la strana accusa allo stesso Invalsi di essere restio a rendere pubbliche le notizie sul funzionamento delle scuole, mentre è palese che gli opinionisti non mancano di divulgare ad ogni piè sospinto sugli organi di informazione gli esiti dei test invalsici (la verità è che all’autore preme mettere in risalto i modi di pubblicizzare gli esiti scolastici come accertati da Eduscopio della Fondazione Agnelli della quale lui, come si è detto, è presidente). Si vede che nel connubio Fondazione Agnelli-Invalsi, da noi celebrato in altra occasione, non mancano gli screzi.
La lettura di La scuola bloccata è raccomandabile?
Certo. Purché si prenda cognizione anche di prospettive radicalmente diverse, come quelle del Manifesto per la nuova scuola, leggibile su diversi siti fra cui change.org/p/manifesto-per-la-nuova-scuola ove lo si può anche firmare, e dell’intervista degli insegnanti Giovanni Carosotti e Sergio Arangino all’economista Emiliano Brancaccio sul sito roars.it/online/le-mani-delleconomia-sulla-scuola dal titolo di per sé eloquente.
Per concludere, sia consentita una riflessione.
Nel momento in cui ancora una volta che c’è un dittatore che minaccia il mondo, chiediamoci chi sia davvero da educare e come. Chi: gli adulti. Come: assicurando il primato non all’economia, ma all’etica. Se possibile.