Le farfalle di Bierstadt
Pittore statunitense di origini tedesche, Albert Bierstadt (1830-1902) è ricordato soprattutto per i suoi suggestivi paesaggi del selvaggio West, opere basate su fotografie scattate dallo stesso artista ma rese ancora più drammatiche da potenti effetti di luce.
Celebri sono le sue vedute delle Montagne Rocciose, l’immensa catena montuosa che attraversa il Nord America da nord a sud, sul versante occidentale. Ne è un esempio Tempesta sulle Montagne Rocciose, Monte Rosalie, del 1866, una tela di ben 210×361 cm.
È una vista monumentale, esageratamente ampia (oggi servirebbe un grandangolo per ottenenre qualcosa di simile in fotografia), appositamente studiata per creare un forte impatto emotivo. In basso al centro si possono scorgere alcune minuscole figure umane, inserite per suggerire le dimensioni reali della scena.
Il monte Rosalie, così battezzato da Bierstadt in onore di Rosalie Osborne Ludlow, la moglie di un compagno di viaggio che di lì a poco divorzierà per sposare l’artista, svetta lontanissimo dietro la massa delle nubi (oggi quella vetta è nota come Monte Evans). L’artista vide quel panorama dal vero nel 1863, durante una spedizione per conto del governo degli Stati Uniti.
Della stessa zona è Montagne Rocciose, Lander’s Peak, dipinto nel 1863 subito dopo il ritorno dalla spedizione. Anche questa è una veduta ‘corretta’ ottenuta aggiungendo dettagli capaci di aumentare la suggestione della scena. Non sono stati raffigurati, invece, i nativi della tribù Shoshone che abitavano quelle terre, che pure Bierstadt aveva incontrato e raffigurato in alcuni bozzetti.
Del 1868 è una veduta della Sierra Nevada, in California. La luce, se possibile, è ancora più spettacolare. Il paesaggio appare enormemente profondo grazie all’accorgimento di aver lasciato in penombra il primo piano e aver dato il massimo della luminosità ai monti più lontani.
In primo piano solo le silhouette di alcuni cervi e poi un’immancabile specchio d’acqua che riflette e duplica il chiarore impalpabile della scena.
Per rendere ancora più emozionanti le sue vedute, Bierstadt era solito presentare al pubblico ogni nuovo quadro creando un evento carico di suspence: la tela veniva appesa in una stanza buia, coperta da drappi fastosi e rivelata al pubblico con l’apertura dei tendaggi, tra applausi scroscianti.
Ma da dove deriva questo linguaggio così scenografico? Non vi ricorda certe atmosfere romantiche della pittura tedesca? E infatti è là, in Germania, e precisamente a Düsseldorf, che Bierstadt impara a dipingere, dopo gli inizi da autodidatta in Massachussetts.
Rimane in Europa per per cinque anni, dal 1853 al 1858, viaggiando anche in Svizzera e in Italia (dove visita Roma, Napoli, Capri e Paestum). Il suo stile è già nitido e magniloquente, come si può osservare in questa vista del lago di Lucerna e nel panorama della Marina Piccola di Capri.
Al suo ritorno in patria espone con successo le sue vedute d’Europa e si unisce alla Hudson River School, un gruppo di paesaggisti fondato da Thomas Cole che sceglie di rappresentare gli sterminati territori americani con la forza evocativa della pittura romantica. Il nome deriva dalla valle del fiume Hudson, nel nord est degli Stati Uniti, dove dipingeva la prima generazione di artisti.
Fondamentale per questi pittori è stata la conoscenza delle opere di Lorrain, Constable e Turner. Tuttavia il gruppo è mosso da un forte intento nazionalista e dalla volontà di dimostrare l’indipendenza della pittura americana da quella europea.
Nelle vedute mozzafiato di Bierstadt c’era in più un vero e proprio intento ‘politico’: con quelle viste il pittore intendeva spronare il popolo americano a conquistare il grandioso Far West, presentandolo come una sorta di paradiso terrestre. L’artista, infatti, credeva nel “destino manifesto“, un’ideologia nata a metà dell’Ottocento secondo la quale gli abitanti degli Stati Uniti avevano l’inevitabile ed evidente missione divina di espandersi e affermare i loro valori di libertà e democrazia, in particolare verso ovest.
Ma in questo articolo, in verità, non volevo raccontarvi né dei favolosi paesaggi di Bierstadt né delle opinabili teorie che vi stanno dietro, bensì delle sue farfalle.
Le ho scoperte per caso, mentre setacciavo la rete per una raccolta a tema, ma mi hanno subito folgorata. Si tratta, infatti, del tipico gioco che tutti da piccoli abbiamo fatto con le tempere, spremendo un po’ di colori sulla metà di un foglio di carta, piegando l’altra metà e schiacciando per far allargare i colori.
Quelle di Bierstadt però sono realizzate con una tale maestria che non somigliano neanche lontanamente alle grossolane macchie simmetriche della nostra infanzia. L’artista le realizzava come ricordo da regalare alle signore sue ospiti, nel corso dei tanti inviti pubblici che amava fare in casa sua.
Ecco come una giornalista del Free Press di Detroit, presente a un incontro del 1892, raccontò l’episodio:
“Noi donne eravamo così felici di essere donne quel pomeriggio, perché il signor Bierstadt ha regalato a ogni signora un souvenir. Ecco come li ha realizzati. Ci siamo riuniti tutti intorno al tavolo e lui ha tirato fuori una tavolozza, un coltello e alcuni grossi fogli di spessa carta da disegno. Due o tre tocchi di pigmento sulla carta, una piega veloce, e tenendola ancora piegata contro una lastra di vetro, ha fatto dall’esterno due o tre colpi di quella spatola da mago e subito è apparsa una meravigliosa farfalla o falena brasiliana, completa di venature sulle ali! Con un tocco di matita ha aggiunto le antenne, l’autografo dell’artista è stato apposto all’angolo e ora ognuna di noi possiede un dipinto di Bierstadt”.
Di queste farfalle se ne conservano meno di una trentina. Naturalmente, per la loro stessa tecnica di realizzazione, non ne esistono due uguali. Ma le accomuna la raffinata esecuzione e l’impressionante iridescenza delle ali.
Questa tecnica non è stata inventata da Bierstadt, ma è probabile che il pittore l’abbia conosciuta durante gli anni trascorsi in Germania. L’idea, infatti, è attribuita al poeta tedesco Justinus Kerner (1786-1862) che avrebbe cominciato a praticarla dopo la piegatura di un foglio sul quale erano cadute accidentalmente alcune gocce di inchiostro. La macchia simmetrica che si era formata aveva una forma molto interessante e così Kerner, nel 1857, cominciò a illustrare le sue poesie con queste immagini. Era nata la kleksografia.
La tecnica prese ben presto due strade separate: quella del gioco, con macchie che riproducono divertenti mostriciattoli e altre figure riconoscibili come, appunto, le farfalle, e quella della psicanalisi, in cui il paziente viene studiato attraverso ciò che tende a riconoscere in macchie piuttosto astratte.
Al primo gruppo appartiene la ricerca di Ruth McEnery Stuart e Albert Bigelow Paine, due autori statunitensi che nel 1896 hanno pubblicato Gobolinks, or Shadow-Pictures for Young and Old. Il libro spiega come realizzare dei piccoli mostri d’inchiostro e come fare con questi anche un gioco da tavolo scrivendo poesie ispirate ai personaggi, i gobolinks. Seguono decine di esempi.
Al secondo gruppo appartiene il lavoro di Hermann Rorschach (1884-1922), psichiatra svizzero noto per un test che porta il suo nome basato sulle kleksografie. Lui stesso, da bambino, aveva giocato con grande coinvolgimento a creare macchie simmetriche di inchiostro e, una volta completati gli studi, cercò di capire se la diversa interpretazione data da ciascuno a quelle forme potesse indicare un certo tipo di personalità ed eventuali problemi psichici. Per fare ciò predispose dieci tavole con macchie prive di somiglianze evidenti ad oggetti reali.
Raccoglierà le sue osservazioni in Psychodiagnostik A Diagnostic Test Based On Perception, un testo pubblicato nel 1921. Oggi il suo test e il suo approccio sono ancora in uso.
Quanto alle farfalle di Bierstadt, resta da dire solo una cosa: non esistono, nel campo dell’arte, ‘giochi da bambini’ che non possano essere fatti anche dagli adulti. Il divertimento e la meraviglia fanno bene a qualsiasi età. E in qualche caso ci scappa pure il capolavoro!
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