“Cernobyl? Non può ricapitare”. Parla l’Avvocato dell’atomo

Sono passati trentotto anni dal disastro nucleare di Cernobyl, giorno nel quale si materializzò la paura, forse irrazionale, dell’energia atomica. Erano trascorsi gli anni della Guerra fredda, della minaccia dell’apocalisse nucleare. Solo un anno dopo, in Italia, i referendum abrogativi misero fine alla produzione di energia nucleare nel paese. “Per molti fu la concretizzazione di quelle paure”, dice al Foglio il fisico Luca Romano, meglio conosciuto come l’Avvocato dell’atomo, “ma questo ha poco a che vedere con la realtà, pur tragica, dell’incidente”. Poco più di un anno prima, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984, a Bhopal, in India, un incidente industriale coinvolse uno stabilimento chimico, causando la fuoriuscita di quasi quaranta tonnellate di vapori tossici, e uccidendo all’istante più di 2 mila persone. “Cernobyl è uno scherzo, al confronto – continua il divulgatore – ma quell’incidente non ha segnato la memoria collettiva in maniera compatibile, sia dal punto di vista delle vittime che dei danni”.

Nei confronti del nucleare ci sono ancora moltissimi pregiudizi, pregiudizi che spesso si sono stratificati, sono diventati una reazione allergica, assumendo l’inscalfibilità della “tradizione” collettiva. E che non tengono in considerazione che nel disastro di Cernobyl “c’entra solo l’errore umano. Non è stata una triste casualità, non è un evento che può ricapitare”, spiega categorico Romano. Perché? “Ci furono due tipi di errori. Uno, di design. L’Rbmk, la tipologia del reattore usato a Cernobyl, era un design economico e semplice, aveva dei vantaggi per l’Unione sovietica, ma si sapeva che aveva dei difetti. Infatti non fu mai adottato in occidente”. E l’altra tipologia? “Una lunga serie di errori umani, dovuti a incompetenza e fredda necessità di portare a termine il test da riportare al partito”. Cioè un contesto politico che è fondamentale tenere in conto, quando si parla dell’incidente. “Il direttore della centrale nucleare, Viktor Brjuchanov, non era un ingegnere nucleare, ma un ingegnere civile che aveva costruito la centrale per poi esserne nominato capo. Il suo vice, Nikolai Fomin, prese la laurea in Ingegneria nucleare per corrispondenza. Non aveva mai visto un rettore nucleare prima di lavorarci”. E non solo: “Djatlov, l’ingegnere capo, aveva esperienza solo dei reattori nucleari usati nei sommergibili, molto diversi”. Perché degli incompetenti erano lì? “Per volere del partito, non per per merito”. Non una svista, dunque. L’errore umano deriva da un sistema politico che promuoveva e assegnava incarichi in base alla lealtà dimostrata.

Però Cernobyl è stata anche altro. Una tragedia, certo, ma che la ricerca ha saputo cogliere non solo per evitare gli errori già commessi, ma per progredire. “Dall’epoca di Cernobyl abbiamo imparato a rendere i reattori a prova di errore umano, tanto che i sistemi di sicurezza passiva sono invulnerabili a questo tipo di errori”. Ma non solo. “Gli studi sulle conseguenze del fallout a Cernobyl ci hanno aiutato moltissimo a sviluppare la nostra conoscenza degli effetti biologici delle radiazioni”. Un esempio? “Gli effetti dello iodio 131 radioattivo, che provoca tumori alla tiroide, di cui abbiamo visto un aumento importante nelle regioni che circondavano la centrale nucleare. Oggi lo usiamo per curare l’ipotiroidismo”.

Quindi, ha senso paragonare una centrale nucleare moderna a quella di Cernobyl? “E’ come paragonare lo Zeppelin a un Boing 747. Volano entrambi”. E invece il nucleare di quarta generazione? “L’errore che si fa è pensarlo come un’evoluzione della terza”. Cioè? “Hanno altri scopi. Sono pensati per la propulsione navale o per riciclare scorie, o per produrre calore. La quarta generazione non va vista come successiva alla precedente, ma è parallela a essa. L’idea del reattore nucleare si applica a settori diversi e più ampi rispetto alla mera produzione di elettricità”. Ora serve farlo capire alle persone. Romano è ottimista, anche se con riserva: “C’è già un cambiamento in atto, si sta andando nella direzione giusta. Servirebbe però un’informazione migliore sui media tradizionali, soprattutto in tv, dove resiste uno zoccolo duro di anti nuclearismo”.

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“Cernobyl? Non può ricapitare”. Parla l’Avvocato dell’atomo

Sono passati trentotto anni dal disastro nucleare di Cernobyl, giorno nel quale si materializzò la paura, forse irrazionale, dell’energia atomica. Erano trascorsi gli anni della Guerra fredda, della minaccia dell’apocalisse nucleare. Solo un anno dopo, in Italia, i referendum abrogativi misero fine alla produzione di energia nucleare nel paese. “Per molti fu la concretizzazione di quelle paure”, dice al Foglio il fisico Luca Romano, meglio conosciuto come l’Avvocato dell’atomo, “ma questo ha poco a che vedere con la realtà, pur tragica, dell’incidente”. Poco più di un anno prima, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984, a Bhopal, in India, un incidente industriale coinvolse uno stabilimento chimico, causando la fuoriuscita di quasi quaranta tonnellate di vapori tossici, e uccidendo all’istante più di 2 mila persone. “Cernobyl è uno scherzo, al confronto – continua il divulgatore – ma quell’incidente non ha segnato la memoria collettiva in maniera compatibile, sia dal punto di vista delle vittime che dei danni”.Nei confronti del nucleare ci sono ancora moltissimi pregiudizi, pregiudizi che spesso si sono stratificati, sono diventati una reazione allergica, assumendo l’inscalfibilità della “tradizione” collettiva. E che non tengono in considerazione che nel disastro di Cernobyl “c’entra solo l’errore umano. Non è stata una triste casualità, non è un evento che può ricapitare”, spiega categorico Romano. Perché? “Ci furono due tipi di errori. Uno, di design. L’Rbmk, la tipologia del reattore usato a Cernobyl, era un design economico e semplice, aveva dei vantaggi per l’Unione sovietica, ma si sapeva che aveva dei difetti. Infatti non fu mai adottato in occidente”. E l’altra tipologia? “Una lunga serie di errori umani, dovuti a incompetenza e fredda necessità di portare a termine il test da riportare al partito”. Cioè un contesto politico che è fondamentale tenere in conto, quando si parla dell’incidente. “Il direttore della centrale nucleare, Viktor Brjuchanov, non era un ingegnere nucleare, ma un ingegnere civile che aveva costruito la centrale per poi esserne nominato capo. Il suo vice, Nikolai Fomin, prese la laurea in Ingegneria nucleare per corrispondenza. Non aveva mai visto un rettore nucleare prima di lavorarci”. E non solo: “Djatlov, l’ingegnere capo, aveva esperienza solo dei reattori nucleari usati nei sommergibili, molto diversi”. Perché degli incompetenti erano lì? “Per volere del partito, non per per merito”. Non una svista, dunque. L’errore umano deriva da un sistema politico che promuoveva e assegnava incarichi in base alla lealtà dimostrata.Però Cernobyl è stata anche altro. Una tragedia, certo, ma che la ricerca ha saputo cogliere non solo per evitare gli errori già commessi, ma per progredire. “Dall’epoca di Cernobyl abbiamo imparato a rendere i reattori a prova di errore umano, tanto che i sistemi di sicurezza passiva sono invulnerabili a questo tipo di errori”. Ma non solo. “Gli studi sulle conseguenze del fallout a Cernobyl ci hanno aiutato moltissimo a sviluppare la nostra conoscenza degli effetti biologici delle radiazioni”. Un esempio? “Gli effetti dello iodio 131 radioattivo, che provoca tumori alla tiroide, di cui abbiamo visto un aumento importante nelle regioni che circondavano la centrale nucleare. Oggi lo usiamo per curare l’ipotiroidismo”.Quindi, ha senso paragonare una centrale nucleare moderna a quella di Cernobyl? “E’ come paragonare lo Zeppelin a un Boing 747. Volano entrambi”. E invece il nucleare di quarta generazione? “L’errore che si fa è pensarlo come un’evoluzione della terza”. Cioè? “Hanno altri scopi. Sono pensati per la propulsione navale o per riciclare scorie, o per produrre calore. La quarta generazione non va vista come successiva alla precedente, ma è parallela a essa. L’idea del reattore nucleare si applica a settori diversi e più ampi rispetto alla mera produzione di elettricità”. Ora serve farlo capire alle persone. Romano è ottimista, anche se con riserva: “C’è già un cambiamento in atto, si sta andando nella direzione giusta. Servirebbe però un’informazione migliore sui media tradizionali, soprattutto in tv, dove resiste uno zoccolo duro di anti nuclearismo”.

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