Cosa sappiamo dell’influenza “aviaria” che sta colpendo il Nord America

Il virus è conosciuto, a differenza di quello che è successo con il Covid e sappiamo che è molto resistente ai vaccini. Nonostante la mancanza di trasmissione efficiente tra umani, la sua diffusione in mammiferi domestici solleva allarmi sulla possibilità di una potenziale epidemia

Cosa sappiamo cioè del ceppo di influenza A di tipo H5N1 che, tipicamente associato agli uccelli e solo sporadicamente trovato nei mammiferi (compreso l’uomo), è invece ora passato a infettare su ampia scala degli animali di allevamento che si contano a milioni nei soli USA? Del virus in questione, al contrario di quanto successo in passato per SARS-Cov-2, sappiamo molto; tra le cose più importanti che sappiamo, è che esso muta attraverso un meccanismo di ricombinazione (in aggiunta a quello classico di variazione casuale) con una frequenza tale, da rendere rapidamente inefficaci i vaccini di tipo “classico” che abbiamo a disposizione per uso veterinario (soprattutto per contrastare la sua diffusione fra i polli di allevamento, ove è in grado di provocare ingenti danni). Sappiamo poi che questo virus influenzale ha una letalità elevata nell’uomo: come riferisce il ministero della salute, “dal 2003 al 1° aprile 2024, sono stati segnalati in tutto il mondo da 23 paesi 889 casi e 463 decessi”, il che equivale a una letalità del 52%.
  

Per fortuna, nonostante sia endemico e circoli da moltissimo tempo, questo virus non è ancora in gradi di trasmettersi agli esseri umani in maniera efficiente: tipicamente, i pochi casi noti di infezione sono dovuti a elevatissima esposizione ad animali infetti, la trasmissione via aerea non sembra per ora efficiente e la trasmissione da uomo a uomo non è documentata. È nota l’estrema adattabilità di questo virus a specie diverse, che ha più volte implicato il passaggio da uccelli a mammiferi; tuttavia in genere sono mammiferi predatori a essersi infettati sporadicamente, mentre casi di infezione su vasta scala – tali da provocare 24.000 morti alla fine del 2023 – si sono osservati solo per le otarie, presumibilmente a causa della convivenza stretta con uccelli marini infetti. Per questo motivo, la diffusione ampia prima mai documentata in mammiferi domestici, per i quali è da escludersi una vicinanza particolarmente stretta, prolungata e su larga scala con uccelli infetti, ha subito destato allarme nei ricercatori di tutto il mondo: essa è stata interpretata come spia di un adattamento del virus ad una nuova classe di vertebrati, la stessa che include anche l’essere umano, ove la letalità di questo virus può essere come abbiamo detto molto alta e potrebbe creare un’epidemia catastrofica se fosse accoppiata alla trasmissibilità diretta da uomo a uomo.
 

Ora, viste queste premesse, il dato epidemiologico e quello di sequenziamento sono fondamentali: il primo per identificare il propagarsi dell’epidemia e i suoi canali di diffusione negli animali di allevamento statunitensi, il secondo per confermare l’adattamento specifico ai mammiferi di eventuali nuovi varianti.Tuttavia, sorprendentemente, dopo avere per anni accusata la Cina per i suoi ritardi nella condivisione di dati vitali all’inizio dell’epidemia di SARS-CoV-2, gli Usa, seppur per ragioni diverse, stanno fornendo i dati vitali alla comunità scientifica con il contagocce, generando le proteste globali degli scienziati.
 

L’epidemia è cominciata alla fine dell’anno scorso; tuttavia, i primi dati di campionamento e sequenziamento di una qualche rilevanza sono stati resi accessibili su GISAID a gennaio di quest’anno, dopo di che vi è stata una brusca interruzione, e fra febbraio e marzo sono stati resi disponibili solo pochi e sporadici dati. Proprio qualche giorno fa, il servizio veterinario nazionale APHIS degli USA ha annunciato il rilascio di centinaia di sequenze; tuttavia, questo rilascio è del tutto insufficiente, innanzitutto perché non è avvenuto su GISAID, e dunque i dati non sono stati resi disponibili in un formato che permettesse un agevole confronto con quanto già noto, e poi – soprattutto – perché in ogni caso le sequenze rilasciate sono prive di data e luogo di campionamento, rendendo impossibile ricostruire sia l’epidemiologia che l’evoluzione molecolare in corso, entrambi vitali per capire cosa stia succedendo. Al netto di questo inaccettabile “deja vu” a protagonisti invertiti, in cui fra gli altri la Cina accusa (e giustamente) gli USA di scarsa trasparenza e di scarsa condivisione di dati sanitari essenziali per un patogeno potenzialmente pericoloso, è possibile cercare di ricostruire qualcosa di utile dalla poca informazione attualmente disponibile su GISAID.
  

Innanzitutto, le sequenze disponibili indicano un evento radiativo che è iniziato presumibilmente fra ottobre e novembre 2023 negli USA: da questo evento, sono derivati virus in rapida evoluzione, per i quali sono disponibili 253 campioni di sequenziamento, a larghissima maggioranza ottenuti da bovini infetti, e poi ancora da qualche felino, procione, gallina e infine da diverse specie di uccelli selvatici. Mentre però per le specie selvatiche il luogo di sequenziamento è indicato con precisione, per quelle di allevamento – polli e soprattutto bovini – si riporta solo la dizione “Usa”, in uno sforzo di salvaguardare l’economia degli allevamenti; un comportamento inaccettabile, che impedisce, come si è detto, alla comunità internazionale di studiare la diffusione epidemiologica in modo sufficientemente accurato.
 

Da qualche campione sporadico di uccelli selvatici di specie diverse, che risulta no essere stati tutti ottenuti in Texas, e da quello di meno di 5 bovini campionati a marzo, pure provenienti da quello stato, sembra che un centro importante dell’epidemia sia quello stato USA, terzo per numero di capi bovini allevati a livello federale; e questo dato è coerente con l’unico caso umano di infezione da parte di H5N1 “bovino” finora riportato, caso pure esso texano, nonché con l’abbondante presenza di virus (non si sa se vitale) nel latte di bovini di quello stato.
 

Il ramo di H5N1 differenziatosi alla fine dell’anno scorso nei bovini è inoltre probabilmente in grado anche di retrodiffusione agli uccelli, perché le sequenze campionate nello stesso luogo e nello stesso periodo in uccelli sono quelle largamente diffuse fra i bovini, prima non presenti fra gli uccelli; siamo dunque di fronte a un gruppo di varianti con ampia adattabilità a ospiti molto diversi, il che è precisamente quanto preoccupa la comunità scientifica, ed è il motivo per cui ogni ritardo nella condivisione di dati da parte del governo USA è inaccettabile. Gli scarni dettagli che ho elencato di per sé non destano preoccupazione sufficiente per un allarme immediato: la popolazione umana, e anche gli allevatori, per ora sono largamente negativi al virus.
 

Tuttavia, per prevenire spillover come quelli che hanno dato origine alla pandemia recente, a maggior ragione quando essi provengano da virus be noti, la sorveglianza epidemiologica e la trasparenza sono fondamentali, e il fatto che per presumibili ragioni di mercato esse si trascurino non fa che evidenziare quanto siamo vulnerabili alla politica che segue il mercato quanto a quella che segue i voleri di un’autocrazia nazionalistica. Il problema non è (solo) una nuova differenziazione di un ceppo pericoloso di aviaria: il problema è che continuiamo a essere in balia di politici e burocrati che, nella fretta di bilanciare interessi diversi, rendono cieca la comunità scientifica proprio nel momento in cui il suo contributo avrebbe il massimo effetto nel prevenire la prossima pandemia.

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