Lo storytelling è in crisi e le ricadute si vedono anche nel nostro quotidiano. Un saggio

Il fuoco attorno al cui crepitare si raccolgono gli esseri umani per raccontarsi l’un l’altro delle storie si è desolatamente spento; soppiantato da schermi digitali che isolano persone e pensieri. L’espansione dello storytelling, ovvero l’involuzione dei racconti in merce da commerciare e consumare, certifica la crisi della narrazione; comprovando il vuoto narrativo come mancanza di senso, perdita di orientamento e sfilacciamento di una comunità. E’ da questo radicale assunto che muove il saggio La crisi della narrazione di Byung-Chul Han, filosofo sudcoreano, edito da Einaudi (traduzione di Armando Canzonieri). “Abbiamo disimparato a narrare racconti, il nostro ancoraggio all’essere. Lo storytelling, proprio perché vende storie, non reca con sé alcuna forza capace di trasformare il mondo”, avverte l’autore all’inizio del volume. La società dell’informazione disfà il tempo, disgrega la realtà, disperde attenzione e ascolto; mentre lo spirito della narrazione, soffocato da una marea di numeri e notizie, rimane spoglio di significato. “L’informazione si consuma nell’istante della novità, incapace di sopravvivere alla sorpresa. Susseguendosi freneticamente, le informazioni non si condensano mai in un racconto. Prive di estensione e profondità, sono inadatte a trattenere in sé le forti raffiche del vento e la splendente luce del sole”, annota Byung-Chul Han.

Nella tempesta della contingenza di un eterno presente, siamo avvolti in un vortice di attualità senza sapere più tramandare una tradizione o tagliare un traguardo. Quando, di contro, “solo la prassi narrativa apre il futuro, in quanto tempo che si spalanca, nella misura in cui offre la possibilità di sperare”. Cliccare, condividere like e commentare post non sono gesti narrativi, asserisce il saggista; rievocando riflessioni squadernate in Infocrazia: “Le storie social sono messe in mostra di sé stessi, elemosinano attenzione senza istituire alcuna comunità; a differenza dei racconti che generano coesione sociale, veicolano valori fondativi e forgiano identità”. Per puro paradosso, il regime dell’infocrazia manifesta tratti totalitari sfruttando – per sorvegliarci – la libertà anziché il dominio, la seduzione piuttosto della violenza. In questa cornice comunicativa sinistramente distopica, lo smartphone assurge al rango di “panopticon digitale”, il selfie a “scatto di un istante” inadeguato a supportare il ricordo. Invece, racconto e ricordo sono l’uno il presupposto dell’altro, rammenta lo studioso, già docente alla Universität der Künste di Berlino.

Un’analisi impietosa, livida, spietata. Tuttavia, al tramonto del testo affiora una tenue speranza, poco più di un sospiro nostalgico. Agli occhi del filosofo contemporaneo, “vivere è narrare” e l’essere umano, in quanto animal narrans, “si distingue dagli altri animali perché narrando realizza nuove forme di vita”. Perciò occorre riscoprire e restaurare la narrazione: forza insita in ogni inizio, azione che avvia qualsiasi trasformazione del mondo.

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