21 aprile 1924: muore Eleonora Duse
Eleonora Duse, considerata l’attrice teatrale più acclamata di sempre, fu distrutta dall’amore, vediamo perché, a cent’anni dalla morte, attraverso l’articolo “La divina” di Alessandro Borelli, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Donna dell’anno. Adorata dal pubblico, blandita dalla critica, celebrata ovunque come “la più grande attrice del mondo”, secondo la definizione dello scrittore e commediografo austriaco Hermann Bahr. Eppure Eleonora Duse – “la Divina” – si spense in solitudine, a 66 anni, in una camera d’albergo di Pittsburgh (Stati Uniti) il 21 aprile 1924. Era, ricordano i biografi, il Lunedì di Pasqua. Le fu fatale un attacco di tubercolosi, malattia che la perseguitava da tempo. L’attrice era in tournée dall’ottobre dell’anno precedente e con i suoi spettacoli aveva trionfato, ancora una volta, a New York, Boston, Baltimora, Chicago, New Orleans, L’Avana, Los Angeles, San Francisco, Detroit e Indianapolis. Pochi mesi prima della sua uscita di scena, nel luglio 1923, la rivista americana Time le aveva dedicato la copertina, prima donna e prima italiana ad avere questo onore.
Talento. Dando la notizia della scomparsa che, considerata l’epoca, si diffuse con incredibile rapidità, il filosofo Adriano Tilgher notò su Il Mondo, due giorni dopo: “L’arte di Eleonora Duse brillava immortalmente giovane e fresca come la natura. L’acqua di vita eterna zampillava da lei. Una semplicità e naturalezza sovrana da cui irradiava una sovrana spiritualità, una cura minuziosa del più minuto particolare e, insieme, una fusione di tutti i particolari in una vivente e ricchissima unità“. Di lei, che recitò ovunque e sempre in italiano, lo scrittore russo Anton Cechov aveva scritto alla sorella: “Ho proprio ora visto l’attrice italiana Duse in Cleopatra di Shakespeare. Non conosco la lingua, ma ella ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola“.
Amore tormentato. Tra le frasi di cordoglio, dopo la scomparsa, vi furono pure quelle, lapidarie e drammatiche (ma di dubbia autenticità, poiché riferite da terzi), di Gabriele D’Annunzio. Il Vate – che 30 anni prima aveva intrecciato con Eleonora Duse una lunga, tormentata e a tratti dolorosa storia sentimentale e un non meno burrascoso sodalizio artistico – avrebbe detto: “È morta colei che non meritai!“.
Destini uniti. Il poeta e l’attrice, i cui destini furono indissolubilmente uniti per quasi un decennio, nonostante le crisi e gli allontanamenti, si erano conosciuti a Roma nel 1882. D’Annunzio, ventunenne, vi si trovava per frequentare la facoltà di Lettere e Filosofia.
Ma era, in realtà, già un protagonista della joie de vivre capitolina: scriveva per giornali in gran voga, come Il Fanfulla della Domenica, mentre le donne facevano a gara per essere menzionate nelle sue rubriche. Eleonora Duse, nata a Vigevano nel 1858 in una famiglia d’attori originari di Chioggia, in Veneto, calcava il palcoscenico dall’età di quattro anni e nel 1879 era entrata nella prestigiosa Compagnia Semistabile di Torino di Cesare Rossi, dove avrebbe portato a maturazione una propria poetica che, raccogliendo l’eredità del passato, rompeva gli schemi consolidati della tradizione teatrale dell’epoca.
Approccio difficile. Il primo incontro, a Roma, fu fugace ma lasciò il segno: l’approccio di D’Annunzio, com’era nel suo carattere, fu sbrigativo e soprattutto esplicito nelle avances. Lei lo respinse con sdegno ma in privato annotò: “Già famoso e molto attraente, con i capelli biondi e qualcosa di ardente nella sua persona”. Si ritrovarono nel 1888, sempre nella capitale, al Teatro Valle, e poi nel 1892, quando il Vate le fece pervenire una copia delle sue Elegie romane con la dedica “Alla divina Eleonora Duse“. Lei era reduce dal matrimonio fallito con il collega Tebaldo Checchi: poco dopo averne scoperto i tradimenti aveva compiuto la scelta, provocatoria e dirompente, di scoprirsi il seno in scena, suscitando uno scandalo senza precedenti. Ed era delusa dalla relazione tormentata con il primo attore Flavio Andò ed esausta per quella, a lungo clandestina, con il celebre librettista di Giuseppe Verdi, Arrigo Boito, che per lei aveva adattato Antonio e Cleopatra di Shakespeare.
Colpo di fulmine. Decise dunque di concedersi al poeta: volle incontrarlo a Venezia, con una trepidazione che la stessa Duse raccontò così, parlando di sé in terza persona: “Si abbandona alla presa di quegli occhi chiari, si sorprende a dimenticare tutta la sua amara sapienza della vita e a godere della lusinga che essi esprimono“.
La sacerdotessa del teatro. Il legame sentimentale con D’Annunzio divenne stabile dal 1894. Eleonora Duse era già una “sacerdotessa del teatro”, impegnata sui palcoscenici di tutta Europa e Oltreoceano con un vastissimo repertorio: da Ibsen a Giacosa, da Sardou a Dumas passando per Verga. Nel 1898, con la Divina ancora in piena attività, il Teatro Brunetti di Bologna avrebbe mutato il nome in Teatro Duse. Un segno dei tempi. Il suo stile anticonformista, aperto all’improvvisazione, pervaso da slanci emotivi ignoti alla recitazione ottocentesca, totalmente ostile alla cosmesi, dentro e fuori la scena, le procurò ovunque successi e lodi.
Aveva una non comune capacità di immedesimarsi nei personaggi: “Le donne delle mie commedie mi sono talmente entrate nel cuore e nella testa che mentre m’ingegno di farle capire a quelli che m’ascoltano, sono esse che hanno finito per confortare me“, disse una volta.
Amore o interesse? Per il Vate la relazione con l’attrice divenne il viatico (non immune da calcoli, secondo più d’un biografo) per l’agognata celebrità: Eleonora Duse, infatti, portò sulle scene i drammi dannunziani (Il sogno di un mattino di primavera, La Gioconda, Francesca da Rimini, La città morta, La figlia di Iorio), spesso finanziando le produzioni e assicurandone il successo e l’attenzione della critica anche fuori dall’Italia. Con i proventi dell’attività della Divina, D’Annunzio riuscì a pagare i creditori.
La rivale. Il primo strappo mortificante per l’attrice era dietro l’angolo: nel 1896 D’Annunzio le preferì Sarah Bernhardt, sua rivale, per la prima rappresentazione in Francia della tragedia La città morta. Eleonora Duse, che di fatto lo manteneva, nel rapporto risultava soggiogata. Ma non gli faceva pesare nulla, rinnegava persino il suo talento, arrivando all’umiliazione di sé: “Perdonami anche questo”, gli scriveva, “cioè di sentire solamente la mia gioia quando ti sono vicina, poiché gioia io a te non so darne. Io sono la tua poveretta […]. Il genio quale sei tu… Ahimè so bene che l’artista che esegue l’opera d’arte non è l’opera d’arte“.
Prolifico. Negli anni in cui le fu accanto, il poeta risultò eccezionalmente prolifico: componeva migliaia di versi ogni giorno, scrisse numerosi libri, rimeditò su lavori giovanili come le Novelle della Pescara. Nel 1898 affittò una villa a Settignano, nei pressi di Firenze, per essere vicino a Villa La Porziuncola, dove la Divina viveva. Nel frattempo, però, seguitò a tradirla con centinaia di amanti.
Umiliata. Nel volgere di poco, i segni d’insofferenza da parte di D’Annunzio iniziarono a farsi sempre più frequenti. Era ancora accanto a Eleonora Duse quando diede alle stampe il romanzo Il fuoco: già i contemporanei vi riconobbero riferimenti alla loro tormentata vicenda sentimentale leggendo la storia della Foscarina, una bella donna, attrice non più giovane, che ama il protagonista, Stelio Effrena, fino all’annullamento di sé. Lui non si fa scrupoli nel descrivere “lo sfacelo fisico” della compagna. Un amico della Duse, dopo aver letto il manoscritto, l’implorò di non permetterne la pubblicazione.
Lei fu categorica: “Conosco il romanzo, ho autorizzato la stampa perché la mia sofferenza, qualunque essa sia, non conta, quando si tratta di dare un altro capolavoro alla letteratura italiana: e poi, ho quarant’anni e amo“.
Tradita. Già malata, si vide infine sottrarre la parte di Mila di Codra ne La figlia di Iorio, da lei interpretata tante volte, scritta da D’Annunzio “per lei e accanto a lei“, che fu data alla giovane Irma Gramatica. In una lettera Eleonora Duse gli griderà: “Tu m’hai accoppata – e con che arte – la tua!“. L’assenza momentanea della Divina dalla Porziuncola, in quello stesso periodo, facilitò gli incontri del Vate con Alessandra Starabba di Rudinì, figlia del marchese Antonio, due volte primo ministro del Regno, che, nel 1904, si trasferì a vivere con lui.
La fine. La relazione con la Duse era ormai finita. Il ricordo dell’attrice lo inseguì, però, sempre e fu, a tratti, tormentoso. Durante la Prima guerra mondiale, alla quale partecipò, D’Annunzio tenne sempre con sé un anello di smeraldi, dono dell’attrice, nella convinzione che lo proteggesse dalla morte. E al Vittoriale, la casa-museo edificata nel 1921 a Gardone Riviera, nel Bresciano, conservava il busto di Eleonora, che chiamava “Testimone velata”. La copriva infatti con un velo, ogni volta che si dedicava alla
scrittura. Perché, sosteneva, non doveva essere guardato mentre lavorava. E fu costretto ad ammettere: “Nessuna donna mi ha mai amato come Ghisola, né prima, né dopo“, tornando a usare il soprannome con cui l’aveva ribattezzata, insieme ad altri come Ghisolabella, Isa, Perdita e Nomade, per via dei suoi continui viaggi in tournée. Lei, invece, lasciò scritte poche parole, compendio di dramma e passione: “Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato“.
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