I nostri ricordi definiscono chi siamo, ma non sempre sono lo specchio della realtà

Studi neurologici rivelano cosa li influenza. Grazie al riconsolidamento è possibile rievocare un ricordo per modificarlo, ed è uno degli strumenti utilizzati in psicoterapia per attribuire un nuovo significato a ricordi dolorosi o difficili da sostenere, così da renderli più sopportabili

Non si è molto distanti dal vero nell’affermare che si è ciò che si ricorda di aver fatto, ciò che si ricorda di aver provato e chi si ricorda di aver conosciuto. In sostanza, non è molto distante dal vero affermare che i ricordi contribuiscono in larga misura non solo a modellare la nostra identità, ma anche ad aiutarci a predire ciò che capiterà. Secondo Daniel Siegel – notissimo professore di psichiatria della californiana School of Medicine – la memoria è “l’insieme dei processi con cui gli avvenimenti della nostra vita possono influenzare il cervello in modo tale da alterare la sua attività successiva in maniera specifica” (Raffaello Cortina Editore, 2013). E’ interessante, dunque, che parlando di memoria, ricordi e passato si tiri in ballo l’idea di futuro ma anche quella di oblio, cioè del modo in cui, per fortuna, si dimentica. 

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Il progetto lettura d’Istituto e la Giornata della Memoria.

Libri ed albi illustrati accompagnano gli alunni della Gramsci alla ricerca di risposte sulla  Shoah.
In occasione della Giornata della Memoria 2022 l’I.C “A. Gramsci”, attraverso una serie di iniziative ed attività rivolte agli alunni della scuola secondaria di primo grado, ha ricordato le vittime di una delle pagine più tristi e drammatiche della storia dell’umanità con la finalità di sensibilizzare le nuove generazioni alla cultura della pace contro ogni forma di discriminazione.

Il nostro Istituto si dedica alla didattica della Shoah da molti anni soprattutto attraverso i libri perché la scuola è uno dei luoghi privilegiati nei quali si costruisce la democrazia e si preserva la memoria come strumento di indagine.

Le testimonianze di chi ha vissuto l’orrore sulla propria pelle sono fondamentali perché non si dimentichi ciò che è accaduto.

Il nostro dovere in occasione di questa giornata è proprio quello di ricordare due sopravvissuti che la nostra scuola ha avuto l’onore di conoscere e di ospitare: Shlomo Venezia e il nostro concittadino Ennio Borgia.

Le classi 1D e 2D hanno voluto ripercorrere i momenti salienti di questi incontri attraverso la visione di filmati del tempo e soprattutto attraverso la lettura del libro di Shlomo Venezia dal titolo Sonderkommando Auschwitz, la verità sulle camere a gas.

Gli alunni delle classi 1 e 2 D, 1,2 3 F e 1 , 2 e 3 G hanno poi proseguito il proprio viaggio di scoperta e di conoscenza grazie agli albi illustrati.

Alle classi prime le professoresse Barbara e Cinzia Pedrazzi  hanno dedicato la lettura ad alta voce dell’albo L’albero di Anne di Irene Cohen-Janca con le illustrazioni di Maurizio A.C. Quarello, edito da Orecchio Acerbo.

L’albo che ha vinto il Premio Libro per l’Ambiente 2010 miglior coerenza grafica-testo presenta il racconto della storia di Anna Frank dal punto di vista di un ippocastano che Anna poteva vedere dalla finestra del suo rifugio.

L’albero è da tempo minato da un’infezione fungina e dalle tarme. Nella convinzione di essere prossimo a tacere per sempre, decide di raccontare fatti accaduti più di sessant’anni fa, proprio al numero 263 di Prinsengracht.

“Ho più di cento anni, e sotto la corteccia migliaia di ricordi. Ma è di una ragazzina – Anne il suo nome – il ricordo più vivo. Aveva tredici anni, ma non scendeva mai in cortile a giocare. La intravedevo appena, dietro il lucernario della soffitta del palazzo di fronte. Curva a scrivere fitto fitto, quando alzava gli occhi il suo sguardo spaziava l’orizzonte. A volte però si fermava sui miei rami, scintillanti di pioggia in autunno, rigogliosi di foglie e fiori in primavera. E vedevo il suo sorriso. Luminoso come uno squarcio di luce e speranza in quegli anni tetri e bui della guerra. Fino a quando, un giorno d’estate, un gruppo di soldati – grandi elmetti e mitra in pugno – la portò via. Per sempre. Dicono che sotto la mia corteccia, insieme con i ricordi, si siano intrufolati funghi e parassiti. E che forse non ce la farò. Sì, sono preoccupato per le mie foglie, per il mio tronco, per le mie radici. Ma i parassiti più pericolosi sono i tarli, i tarli della memoria. Quelli che vorrebbero intaccare, fino a negarlo, il ricordo di Anne Frank”.

Il racconto che è stato definito dal Messaggero e dal Manifesto “…poetico, mai retorico e senza sbavature, un libro che infrange le pareti dell’invisibile teca in cui si tende a rinchiudere la memoria…” ha affascinato profondamente gli alunni ispirando diversi laboratori sia di scrittura creativa che pittorico artistici.

Gli alunni della classe 1D, dopo aver ascoltato la lettura dell’albo, hanno prima svolto un lavoro di approfondimento sul proprio taccuino e poi hanno realizzato l’albero della Memoria.

Si tratta di un albero costruito seguendo lo schema di Bruno Munari: sui rami gli alunni hanno posizionato una foglia sulla quale ognuno di loro ha scritto un pensiero, una frase, una riflessione sulla tematica della Shoah.

Anche gli alunni della 2F hanno voluto lasciare un loro messaggio scritto su una foglia di platano; quel platano testimone degli ultimi anni di vita di Anne. Da una piccola finestra, Anne l’ha visto trasformato dallo scorrere del tempo, ed è stato per lei l’unico contatto con il mondo esterno.

La classe 2D, dopo la lettura di diversi testi oltre al libro di Shlomo Venezia tra i quali ricordiamo il Diario di Anna Frank, il bambino con il pigiama a righe  i testi di Liliana Segre, ha realizzato un lavoro creativo collettivo intitolato Il filo della Memoria.

Il filo spinato come simbolo del dolore e della follia umana diventa il filo della Memoria per non dimenticare mai più.

Sul filo della Memoria ogni alunno ha lasciato cadere una lettera indirizzata ad una delle vittime di questa indimenticabile pagina della storia.

Anche in questo caso il progetto lettura ha fornito gli strumenti necessari per raggiungere questo obiettivo come per esempio la mail art; infatti è stato possibile trasmettere un messaggio importante coadiuvato dalla presenza di immagini e disegni.

Un altro albo molto interessante che ha coinvolto le classi 1 e 2 D è stato Nicky e Vera di Peter Sis. L’albo illustrato racconta la storia di un eroe  della Shoah e dei 669 bambini che salvò.

Nel dicembre 1938, un giovane inglese cancellò la sua vacanza in montagna e partì alla volta di Praga per aiutare le migliaia di rifugiati in fuga dal nazismo che si erano ammassate in città. Si chiamava Nicholas Winton e, lavorando notte e giorno da una camera di albergo, raccolse centinaia di nomi e fotografie di bambini da portare in salvo, si procurò il denaro, trovò famiglie disposte ad accoglierli in Inghilterra, organizzò i viaggi, con tanto di documenti ufficiali o contraffatti.

Durante la primavera e l’estate del 1939, mentre l’ombra scura del nazismo si allungava sull’Europa, Nicholas riuscì a far fuggire quasi settecento bambini, soprattutto ebrei, a bordo di otto treni diretti a Londra.

Quando poi la guerra scoppiò e i confini furono chiusi, mise via tutte le carte e non parlò più a nessuno di questa vicenda. La straordinaria impresa di Winton fu scoperta solo cinquant’anni dopo da sua moglie e portata all’attenzione di tutti in un programma televisivo.

Dopo la lettura dell’albo i ragazzi hanno svolto un laboratorio grafico-pittorico sotto la guida della professoressa Isabella Realmuto con l’obiettivo di rappresentare graficamente gli otto vagoni che portarono in salvo tanti bambini.

Un altro albo illustrato molto interessante proposto alla classe 1D è stato Il cavaliere delle stelle, edito da Lapis Edizioni nel 2021, coi testi di Luca Cognolato e Silvia Del Francia, e le illustrazioni di Fabio Sardo.

L’albo racconta la straordinaria storia di Giorgio Perlasca in chiave fiabesca.

La stella di Andra e Tati, il cartoon pluripremiato che ha come protagoniste le due sorelle Bucci scampate all’Olocausto, è stato al centro delle riflessioni sulla Shoah nella classe 1G.

I piccoli alunni della 1 F, invece, sono stati coinvolti nella lettura dell’albo illustrato Il volo di Sara, dell’autrice Lorenza Farina, con le illustrazioni di Sonia M.L. Possentini.

L’albo descrive il commovente incontro tra Sara e un pettirosso in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il piccolo pettirosso deciderà di portare con sé questa nuova amica, perché la Shoah e i campi di concentramento sono cosa troppo crudele per una bambina. 

I ragazzi hanno voluto lasciare il loro personale messaggio proprio attraverso questo piccolo pettirosso, simbolo di pace e libertà.

Gli alunni della 3 F, invece, si sono cimentati in un compito di realtà, che ha permesso loro di conoscere nuovi aspetti di questa drammatica pagina della storia. 
I ragazzi, in piccoli gruppi o individualmente, hanno lavorato su uno dei seguenti progetti: 1) Un viaggio per non dimenticare, di Dacia Maraini; Il ghetto, di Jan Karski.2) Graphic novel: Maus, di Art Spiegelman; la biografia a fumetti di Anne Frank, di S. Jacobson 3) Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz, di T. Geve. Al termine dell’attività di analisi e comprensione dei vari testi, hanno manifestato le loro considerazioni personali in varie forme espressive come lettere, articoli di giornale, fumetti e pannelli.

Nella classe 3G, guidata dalla professoressa Deborah Tosi, la memoria dell’Olocausto ha assunto le sembianze e la voce della senatrice Liliana Segre, testimone diretta della tragedia e protagonista del libro Fino a quando la mia stella brillerà. La lettura è stata accompagnata da discussioni sul contesto storico e sui terribili eventi che hanno fatto da sfondo alle vicende del romanzo.

I laboratori creativi ai quali hanno partecipato i ragazzi hanno inoltre prodotto numerosi lavori: mail art, libri pop up, disegni, installazioni, lap book, interviste, relazioni e presentazioni multimediali.

Il percorso tra i libri e le testimonianze dirette accompagnerà ancora i nostri ragazzi anche nel corso del secondo quadrimestre perchè la memoria attraverso le loro voci deve continuare a risuonare per sempre.

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Il paesaggio pittoresco e lo specchio Claude

Ho incontrato per la prima volta questo curioso strumento da pittura descrivendo un dipinto di Matisse in uno dei capitoli de Il mondo alla finestra. In particolare si trattava di una delle sue opere più astratte e cioè La finestra blu del 1913.

La scena raffigura la camera da letto di Henri e della moglie Amélie al secondo piano della loro abitazione a Issy-les-Moulineux, alla periferia di Parigi. Il tetto sullo sfondo, tra alberi tondeggianti, è quello del suo studio, una costruzione voluta dallo stesso pittore. Tutto il resto è un insieme di elementi stilizzati che emergono dal fondo attraverso il vibrante contrasto tra colori quasi complementari: i toni d’azzurro e turchese e il giallo ocra.
La distinzione tra interno ed esterno è totalmente annullata, così come la verosimiglianza di ogni oggetto. Eppure ce n’è uno molto caratteristico, che Matisse inserisce forse per spiegare il modo con cui crea immagini così essenziali: è il cosiddetto “specchio Claude” o specchio nero, quel quadrato scuro con cornice rossa sul lato destro della tela.

Si tratta di un piccolo specchio brunito e leggermente convesso, generalmente grande come una scatola di cipria, che i pittori usavano per ritrarre la natura volgendosi di spalle e osservandola sulla superficie riflettente. L’effetto ottenuto era simile ai dipinti di Claude Lorrain, il paesaggista del Seicento da cui prende il nome.

Lo specchio nero, oltre a includere in un piccolo spazio un vasto paesaggio per via della sua convessità e a fornire un’immagine già bidimensionale e facile da copiare, aveva la capacità di confondere i dettagli e limitare la gamma cromatica, due aspetti utili a Matisse nella creazione di immagini sempre più semplificate come La finestra blu. 
Ma quando è nato quest’oggetto? L’ha inventato proprio Lorrain? In realtà le origini di questo dispositivo non sono chiare né si può affermare che il buon Claude lo utilizzasse. Ma quel che è certo è che nel Settecento era straordinariamente diffuso non solo tra i pittori ma anche tra i nobili e i turisti che lo usavano per guardare i paesaggi in una versione più suggestiva, come testimonia questo ventaglio del Settecento.

In pratica era come guardare il mondo con gli occhiali da sole, capaci di rendere ogni tinta più intensa e di far vedere tramonti spettacolari senza abbagliamento. Grazie allo specchio Claude ogni paesaggio si trasformava magicamente in un dipinto di Lorrain.
Seguace di Claude Lorrain, Il pastore, XVII-XVIII secolo
Tra i più entusiasti utilizzatori di questo strumento ci fu l’inglese William Gilpin (1724-1804). Secondo lui lo specchio nero conferiva «all’oggetto della natura una sfumatura morbida come la colorazione di quel Maestro».
Thomas Gaisborough, Studio di uomo che tiene uno specchio Claude, 1750-1755
Gilpin era talmente innamorato di questo “filtro” che ne fece montare uno sul fianco della sua carrozza, da cui poter ammirare «una successione di immagini dai colori intensi che scivolavano continuamente davanti all’occhio».
Le incisioni derivate dai suoi schizzi sembrano proprio paesaggi visti con lo specchio Claude. Alcuni ne conservano persino la forma ovale!

Non è un caso che Gilpin sia anche l’ideatore del concetto di pittoresco, da lui definito nel suo Essay on Prints del 1768 come «quel tipo di bellezza che è gradevole in un dipinto». Un po’ quello che ci scappa da dire quando, davanti a un luogo incantevole, esclamiamo «sembra un quadro!».
Si tratta di un’idea nuova, sintomo di un cambiamento culturale in positivo nei confronti del paesaggio. Non dobbiamo pensare, infatti, che la natura sia sempre stata considerata bella e buona. Al contrario! Per secoli boschi e montagne erano percepiti come luoghi spaventosi e simbolo del male (la selva oscura…). La diffusione della pittura di paesaggio coincide dunque con questa rivalutazione dei luoghi naturali.
Jules Coignet, Veduta di Bolzano con un pittore, 1837
Un’altra testimonianza dell’uso dello specchio Claude si trova nel diario del viaggio nel Distretto dei laghi, nel nord ovest dell’Inghilterra, scritto dal poeta Thomas Gray e pubblicato nel 1775. Così scrive Gray: «Da qui sono arrivato alla canonica poco prima del tramonto e ho visto nel mio specchio un quadro che, se potessi trasmettervi e fissarlo in tutta la dolcezza dei suoi colori vivaci, si venderebbe tranquillamente per mille sterline. Questa è la scena più dolce che io possa ancora scoprire in fatto di bellezza pastorale, il resto in uno stile sublime».
George Barret, Vista del Lago Windermere, mattina presto, 1781
La diffusione del suo diario rese lo specchio talmente popolare che per un breve periodo fu chiamato addirittura “specchio Gray“… Pare che il poeta fosse così preso dalla visione attraverso il suo specchietto che durante una gita cadde all’indietro in «una stradina sporca» e si ruppe le nocche.
Thomas Rowlandson, Il dottor Syntax cade in acqua, da Il viaggio del dottr Syntax in cerca del pittoresco, 1813
Ma non avrebbe mai rinunciato a tenerlo aperto in mano e a vedere «il tramonto del sole in tutto il suo splendore».
Anton Zwengauer, Paesaggio con cervi al tramonto, 1847
Una descrizione meno poetica è fornita invece in un catalogo statunitense del 1857, nel quale il costruttore di strumenti ottici Benjamin Pike Junior spiega che «gli specchi di vetro nero di Claude per il disegno prospettico sono molto utili per il giovane artista, poiché condensano o diminuiscono la vista nella dimensione desiderata per il quadro previsto, e tutti gli oggetti mantengono le loro proporzioni relative».
Certo, è piuttosto curioso pensare che viaggiatori e artisti, invece di guardare uno spazio naturale gli volgessero le spalle preferendogli una miniatura alterata nella forma e nei colori. Ma la concezione estetizzante del paesaggio pittoresco rendeva molto più attraente quella piccola scena simile a un dipinto.
Edward Alcock (attr.), Sophia Anne Delaval tiene uno specchio Claude verso il paesaggio, 1775-1778
D’altra parte non è molto diverso da quello che fanno oggi in tanti quando danno le spalle a una veduta per farsi un selfie. Non c’è più neanche l’idea di rendere il paesaggio pittoresco, ma solo quella di farne una quinta per un’autorappresentazione.
Nonostante si tratti di un dispositivo legato a una concezione sorpassata della visione del paesaggio, il dipinto di Matisse all’inizio dell’articolo dimostra che lo specchio Claude non fu spazzato via neanche dalla Avanguardie. Incredibilmente sopravvive ancora oggi come installazione di grandi dimensioni per riproporre l’esperienza del paesaggio riflesso. Ne è un esempio quello dell’architetto Sarosh Mulla collocato nel 2017 a Waikereru, in Nuova Zelanda.

Un altro specchio, di forma ovale, è stato installato presso Tintern Abbey, un’antica abbazia cistercense in rovina nel Galles sud orientale.

In alcuni corsi di pittura viene usato per impratichirsi nel disegno dal vero e controllare meglio la gamma dei toni di grigio.

Ma, senza rendercene conto, continuiamo a usarlo pure noi, quando prima di pubblicare la foto di un paesaggio su Instagram, applichiamo filtri, modifichiamo la saturazione dei colori, giochiamo coi contrasti, inseriamo la vignettatura. È una tentazione troppo forte, quella di rendere un paesaggio un po’ più “wow” o forse dovremmo dire “pittoresco”…

Questo significa una sola cosa: che Lorrain con il “suo” specchio è vivo e vegeto e fa le foto insieme a noi!

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