La nuova scienza dell’epigenetica non è la rivincita del finalismo in biologia

Molti fraintendimenti, involontari o cercati appositamente per invalidare al pensiero di Darwin, stanno inquinando il dibattito sul significato delle più recenti acquisizioni sul valore dei tratti non genetici, determinati dall’ambiente e trasmissibili alla prole. Ecco qualche chiarimento in merito

Prima del XX secolo, l’ereditarietà cosiddetta veniva tipicamente concettualizzata come la trasmissione delle caratteristiche o delle “influenze” dei genitori ai discendenti, in un modo piuttosto nebuloso. Se queste caratteristiche ereditarie fossero del tutto indipendenti dall’ambiente, o se invece potessero essere indotte e modificate direttamente dall’ambiente oppure dall’uso prolungato o dal disuso di determinate parti del corpo, come asseriva Lamarck, fu oggetti di un accesissimo dibattito, che si può esemplificare nella contrapposizione fra i sostenitori di un’ereditarietà “dura” (la prima), e quelli di un’ereditarietà “debole”.
 

Dai primi decenni del XX secolo, l’eredità “dura” fu descritta come la trasmissione mendeliana di tratti discreti a opera dei geni. Il gene, originariamente un’entità puramente teorica, acquisì poi una base materiale nella molecola del DNA, per cui l’eredità è venuta a essere intesa come la trasmissione delle sequenze di DNA contenute nei gameti dei genitori. I sostenitori della eredità debole furono ben presto messi di fronte alla richiesta di dimostrare come l’ambiente o le abitudini di un organismo potessero modificarne il DNA a livello dei gameti, per trasmettere così le caratteristiche acquisite alla discendenza: come affermato da Huxley, “qualsiasi teoria lamarckiana deve confrontarsi con i fatti riguardanti la base fisica dell’ereditarietà”. Tuttavia, poiché non era noto o immaginabile alcun meccanismo di codifica genetica, l’eredità debole fu presto considerata impossibile, e la possibilità che le esperienze di un individuo durante la sua vita potessero avere effetti prevedibili sul fenotipo dei suoi discendenti fu ritenuta definitivamente confutata.
 

La confutazione dell’idea di Lamarck e dei suoi epigoni, cioè, si accompagnò all’idea che qualsiasi forma di eredità, sia essa dura o debole, debba verificarsi tramite la trasmissione di sequenze di DNA, ovvero che l’ereditarietà sia mediata da un unico meccanismo universale basato su quelle.
 

La teleologia evoluzionistica che per motivi ideologici si avvaleva del Lamarckismo ricevette così un colpo mortale. Sulla base di un solido supporto empirico per l’eredità mendeliana e per la sua base molecolare, associato alla mancanza di prove incontrovertibili e di meccanismi chiari per l’eredità debole, molti genetisti influenti si convinsero non solo che la trasmissione delle sequenze di DNA fosse un meccanismo di ereditarietà, ma anche che fosse l’unico meccanismo di ereditarietà. Dagli anni ’30 del secolo scorso, chiunque sostenesse forme di eredità debole fu guardato con sospetto – spesso anche a ragione, visto che spesso questa posizione poggiava su idee astruse, teorie eterodosse e senza prove di peso, perché portata avanti non con i metodi della scienza sperimentale, ma sulla base di convinzioni metafisiche circa ‘intenzionalità e la direzionalità del processo evolutivo.
 

Negli ultimi decenni, tuttavia, la biologia molecolare, l’ecologia quantitativa e la biologia evoluzionistica hanno identificato una serie di meccanismi che dimostrano in maniera inequivocabile come l’informazione trasmissibile da un genitore ai discendenti, in grado di influenzare la fitness di questi e dunque di chiaro significato per l’evoluzione naturale, va ben oltre il meccanismo mendeliano classico. Con il fiorire degli studi epigenetici e l’allargamento del fenotipo esteso, di cui parleremo tra un attimo, si sono avute prove convincenti sia del fatto che il DNA non è l’unico veicolo attraverso cui si passa informazione di significato evolutivo fra le generazioni, sia del fatto che l’ambiente può effettivamente modificarne la sequenza durante la vita di un individuo. Si è cioè allargata la base fisica per la trasmissione di informazione genetica, e allo stesso tempo sono stati identificati i primi meccanismi epigenetici in grado di modificare attivamente il DNA dei gameti.
 

Non si tratta, come i sostenitori della teleologia amano declamare, di un ritorno del Lamarckismo nel senso che essi preferiscono: tutti i processi sin qui scoperti, infatti, continuano a essere figli “del caso e della necessità”, e il vaglio implacabile della selezione naturale continua ad agire su ciascuno di essi. Si tratta però di un ritorno dell’dea del fatto che l’ambiente sperimentato da un individuo durante la sua vita può influenzare i tratti che riceveranno i suoi discendenti: un Lamarckismo, cioè, privo di teleologia, perché non frutto di scelte dettate dalla volontà dell’individuo, ma di meccanismi che hanno origine stocastica nella storia individuale.
 

Innanzitutto, vi sono ormai solidi dati sull’induzione ambientale e sulla trasmissione alla prole anche per molte generazioni di caratteristiche epigenetiche che non corrispondono a mutazioni del DNA. Esistono casi documentati per esempio nelle piante di differenziazione a livello di popolazione causata da modifiche epigenetiche stabili per secoli, dopo l’iniziale induzione di quelle modifiche. Negli animali, i meccanismi attivi in piante e microrganismi sono più rari, ma molti tipi di tratti della prole sono determinati attraverso quelli che sono noti come “effetti parentali”, determinati da fattori diversi dal DNA, sia per via materna che paterna, insieme a un’ampia varietà di effetti di eredità non genetica in continuo ampliamento.
 

In aggiunta ai variegati esempi di cui sopra, che dimostrano in modo definitivo come l’informazione che determina il fenotipo di un individuo possa essere influenzata da effetti ambientali e trasmessa alla prole da supporti molto diversi dal DNA, è pure ormai chiaro che eventi in cui l’ambiente modifica il DNA dei gameti di un individuo non solo occorrono, ma sono stati fondamentali nell’evoluzione di molti organismi diversi. I resti di antiche invasioni virali del nostro genoma e l’acquisizione da altri organismi di tratti disparati di DNA in ogni tipo di organismo dimostrano come eventi di esposizione ambientale a materiale genomico estraneo hanno portato e continuano a portare a radiazioni evolutive importanti, in cui il particolare fattore ambientale costituito dall’insieme degli altri genomi cui siamo costantemente esposti può giocare un ruolo rilevantissimo. In aggiunta al DNA ambientale, noi ereditiamo costantemente dai nostri genitori – ma anche dalla popolazione di nostri simili cui siamo esposti e dall’ambiente – il microbioma: l’informazione genetica di una moltitudine di microrganismi, cioè, trasmessa per via non mendeliana da una generazione all’altra e che determina tratti più o meno vantaggiosi per l’individuo-olobionte che siamo, al vaglio della selezione naturale.
 

Infine, alcune particolari specie dalle capacità cognitive sviluppate, che assolutamente non possono essere ristrette alla nostra, trasmettono sia informazione di tipo culturale alla prole, sia modifiche dell’ambiente in cui la prole stessa si troverà a vivere (la cosiddetta “nicchia ecologica”) in modo ereditabile e a sua volta vagliabile dalla selezione, perché in grado di influenzarne la fitness.
 

Il rifiuto dell’ereditarietà debole nel XX secolo rifletteva due idee chiave: una definizione ristretta dell’ereditarietà come trasmissione delle sequenze di DNA al momento del concepimento e la convinzione che l’ereditarietà fosse mediata da un unico meccanismo universale. Come corollario di queste idee, molti genetisti di spicco presumevano che l’ereditarietà debole, per essere provata, dovesse coinvolgere la modifica delle sequenze di DNA della linea germinale da parte di fattori ambientali o somatici, un processo che rifiutavano come “impossibilità chimica”.
 

Al contrario, è ormai chiaro che l’ereditarietà di tratti selezionabili darwinianamente riflette la trasmissione non solo degli alleli genici (ereditarietà genetica), ma anche di una varietà di altri fattori che influenzano il fenotipo più o meno esteso della prole. Questo porta taluni a sventolare una presunta “rivincita” di obsolete idee finalistiche circa il funzionamento dell’evoluzione; invece, in tutti i casi, qualunque sia il supporto per la trasmissione di informazione ereditabile, non vi è alcuna giustificazione per reintrodurre dalla finestra la teleologia e il finalismo cacciati dalla porta. Il processo evolutivo resta infatti sostanzialmente stocastico, perché la fonte di varietà selezionabili risiede in fluttuazioni ambientali casuali, nella storia degli individui da cui ha origine una nuova varietà e, per quel che riguarda abitudini e cultura, nella stocasticità dei processi di invenzione cognitiva e delle complesse interazioni storico-sociali.
 

Siamo cioè passati dal genotipo come unico determinante del fenotipo selezionabile, alla visione di quello che io ho chiamato “infotipo” come generatore di un fenotipo esteso su cui agisce il processo selettivo; ma il meccanismo è e resta quello identificato da Darwin, e l’evoluzione è e resta un fenomeno statistico legato alla variazione delle frequenze di certi tratti in una popolazione sotto l’effetto della selezione, non alla volontà degli individui o di un dio.

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