Come i popoli deportati ricordano il dolore

Quella del medio oriente è una storia di esodi e spostamenti forzati sin dall’antichità. Ebrei, assiri e babilonesi. I romani spostavano gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico. E la Cina è nata con spostamenti forzati epocali

Sballottati, costretti a muoversi da nord a sud, e poi ancora da sud a nord. Privati di tutto. Migranti forzati, sloggiati manu militari, costretti ad accamparsi in luoghi sconosciuti. Da dove verranno magari nuovamente scacciati. Sempre che siano riusciti a sopravvivere alla guerra. I bambini in braccio, i vecchi sorretti, o portati in spalla, in fila su strade e sentieri polverosi o fangosi. Ingombri delle poche cose che gli sono rimaste. Affamati, assetati, senza più neanche la forza di essere arrabbiati. Chi non ce la fa lasciato indietro. Popoli sradicati, fluttuanti, spintonati con violenza da una località all’altra. Lì succede da millenni.

 
Ci sono le testimonianze. Frammentarie. Oscurate dalla censura, o ingigantite dalla propaganda. “Ho raso al suolo tutte le loro città, ho portato via, come bottino, tutti gli abitanti, il bestiame, lasciando [in piedi] solo la città di Samaria [l’allora capitale del regno di Israele], che si era sottomessa quale tributaria, mentre il regno di […]”, suona la faticosa ricostruzione di un’iscrizione su argilla, in più punti lacunosa, del sovrano assiro sulle campagne militari di Tiglath-Pileser III in Siria e in Palestina (734-732 a.C.). “Li ho portati via con quel che possedevano [il loro bestiame e le loro greggi]”. Spostamento forzato. Sotto scorta armata. “O vi muovete dove vi diciamo noi, o vi ammazziamo”, si può presumere. “[Li ho costretti a superare] montagne difficoltose”, si legge negli Annali di Tiglath-Pileser, altrettanto rovinati e difficili da decifrare. Migrazione “difficile”, strada impervia, tormentosa deve essere stata davvero, se a dirlo è il sovrano che li ha fatti spostare. Non disponiamo di alcuna narrazione da parte dei deportati
 

Ci sono le cifre. Sballate, inaffidabili, contraddittorie, a seconda che a dare i numeri sia l’una o l’altra delle parti in causa. Per l’antichità avere due versioni spesso è un lusso. Abbiamo per lo più quella dei vincitori. Gli assiri erano scrupolosi nel far di conto. Qualche centinaio dal tal villaggio, qualche centinaio dal tal altro, in tutto “13.520 persone” annotano gli scribi di Tiglath-Pileser. Poco più di un decennio dopo, uno dei suoi successori, Sargon II, è più preciso ancora: “Li ho combattuti [i samaritani] e ho portato via 27.290 di loro, con 50 carri per le mie truppe regie”. Si tratta della campagna per domare, nel 720 a. C., la ribellione iniziata da Hamath (l’antica città siriana, non Hamas). Porta gli eserciti assiri fino a Gaza, alle porte dell’Egitto. “Ho assediato e conquistato Ashdod, Gath e Ashdod-Yam. Ho contato come spoglie gli dèi, le donne, i bambini, tutti i possedimenti e i tesori, del palazzo come degli abitanti. Ho ricostruito le loro città e vi ho sistemato gente delle altre città che avevo conquistato a oriente”. Conferma la Bibbia: “Venne Tiglat-Pileser, re di Assiria. Prese Iion, Abel-Bet-Maacà, Ianòach, Kedes, Asor, il Gàlaad e la Galilea, tutta la terra di Nèftali, e ne deportò gli abitanti in Assiria” (2 Re 15,29). Confermano gli scavi archeologici. Di Samaria, l’allora capitale del regno di Israele, Sargon dice che l’ha “ricostruita e fatta più grande di prima”. E che, dopo averla svuotata di parte dei suoi abitanti, vi ha mandato “genti delle [altre terre] conquistate”, mettendogli a capo come governatore uno dei suoi eunuchi, e imponendo “su di loro tributo e tasse come agli Assiri”.
 

Le terre che aveva svuotato le riempì con altre popolazioni. “Ho sconfitto [le tribù di] Thamud, Ibadidi, Marsimani e Hayapa, gli arabi che vivono lontani nel deserto, dei quali nessuno dei miei governatori o funzionari aveva neppure conoscenza, che non pagavano tributo ad alcun re. E li ho spostati perché risiedessero in Samaria”, fa scrivere sempre Sargon nei suoi annali. Prima ancora aveva fatto deportare le tribù restive che popolavano l’altopiano iranico dalla catena dei Monti Zagros, sino ai confini dell’Egitto. 
 

Sennacherib, successore di Sargon, nel 701 mosse contro il regno di Giuda, l’altro regno ebraico, che, a differenza di Samaria, aveva mantenuto la sua indipendenza. Giostrando accortamente intese con i vicini. Il nuovo re di Giuda, Ezechia, aveva però sconvolto l’equilibrio delle alleanze. Si era avvicinato all’Egitto, gran rivale degli assiri, e stava minacciando le città filoassire sulla strada per l’Egitto. Sennacherib gli aveva mosso guerra. Ezechia aveva fortificato Gerusalemme. L’aveva attrezzata a un lungo assedio. Aveva costruito una fitta rete idrica sotterranea, di cunicoli e tunnel a cui l’assediante non poteva arrivare. Gerusalemme non capitolò, ma fu costretta a pagare un pesante tributo. Ciascuna delle due parti cantò vittoria. Succede anche al giorno d’oggi. L’importante è poter gridare in faccia al nemico, e dire alla propria gente, di avere vinto.

 
Ecco la versione trionfalistica di parte assira: “Ezechia il Giudeo, che non si era sottomesso al mio giogo […] lo rinchiusi in Gerusalemme come un uccello in gabbia. Accumulai terrapieni contro di lui, e chi voleva uscire dalle porte della città veniva respinto alla sua miseria […] Ezechia fu terrorizzato dallo splendore della mia Signoria, e venne abbandonato dai mercenari che aveva portato a rafforzare Gerusalemme. Oltre a 30 talenti d’oro e 800 talenti d’argento, pietre preziose e gioielli, letti e seggi d’avorio, pelli e zanne d’elefante, legno pregiato, ogni genere di tesoro, come pure le sue figlie, le sue donne di palazzo, i suoi musici, maschi e femmine, dovette mandarmi a Ninive”. 

  

Ad alcuni studiosi il numero di deportati nelle fonti assire appare così enorme che ipotizzano venissero conteggiati anche gli animali

  
Le iscrizioni reali assire dicono che nel corso di quella guerra Sennacherib, il successore di Sargon, aveva decuplicato la movimentazione di popolazione, rispetto alle campagne precedenti. Aveva fatto deportare 201.150 persone, “giovani e vecchi, maschi e femmine, cavalli, muli, asini, cammelli, buoi, greggi innumerevoli [di pecore e capre]”. A sommare i numeri citati nelle iscrizioni, per tutti i movimenti su e giù in tutto il regno, si arriva a 350.000 deportati. Sennacherib era uno che sapeva il fatto suo, aveva informazioni precise, disponeva della migliore intelligence dell’epoca. L’altra cosa su cui gli assiri non erano secondi a nessuno era il sistema di strade – si presume con relative attrezzature di ristoro e sorveglianza – lungo le quali spostare queste fiumane. Non per niente, da principe ereditario, era stato il capo dell’attrezzatissimo spionaggio assiro. Ad alcuni studiosi il numero di deportati appare così enorme, rispetto alle popolazioni dell’epoca, che ipotizzano vengano conteggiati anche gli animali. L’insigne assirologo dell’Università di Haifa Bustenay Oded, autore a fine anni 70 di un fondamentale studio su Mass Deportations and Deportees in the Neo-Assyrian Empire, stima che in tre secoli siano stati spostati con la forza dai 4 ai 4,5 milioni di persone. 

Meglio deportati che massacrati. I bassorilievi con decapitazioni, mutilazioni, scorticamenti, torture erano volti a incutere terrore

  
Meglio deportati che massacrati, verrebbe da dire. Si sa che la propaganda assira, i terrificanti bassorilievi con decapitazioni, mutilazioni, scorticamenti, torture inflitte ai nemici erano volti a incutere terrore, scoraggiare ogni tipo di resistenza. Era, si ritiene, un modo di dire al mondo intero: guardate come siamo cattivi, non azzardatevi a provocarci. Appena un pochino meno spettacolari le deportazioni, gli esodi forzati, le sostituzioni di popolazioni da un capo all’altro dell’impero. Perché lo facevano? Per punire chi mal sopportava, o si ribellava al giogo assiro? Per ragioni di sicurezza, strategiche? Per rimescolare carte, alleanze e vassallaggi? La cosa più sorprendente è che spesso se li portavano in casa, fino in Assiria. Anziché allontanarli il più possibile, come si fa oggigiorno. Perché l’impero assiro aveva un bisogno disperato di forza lavoro, possibilmente specializzata (come mostrerebbe l’interesse specifico a requisire carri e reclutare aurighi e mulattieri registrato negli annali; oppure la presenza negli scavi di vasellame, fatto localmente, ma da vasai provenienti dai quattro angoli dell’impero)? Non sappiamo che sofferenze patissero i deportati, quanti ne morissero per strada nelle lunghe marce forzate. Quanti di stenti, quanti di malattie, quanti per violenza. Sappiamo però che non tutti venivano trattati male. Molti prosperarono nelle destinazioni loro assegnate. Alcuni fecero carriera nelle forze armate assire. Altri nell’amministrazione
 

La storia della regione che oggi chiamiamo medio oriente è lastricata di violenze, assedi, massacri. E anche, forse, soprattutto di movimenti violenti di popolazione. Era fresca la memoria delle deportazioni assire che Gerusalemme fu attaccata dal re babilonese Nabucodonosor, desideroso di conquistare i porti del Mediterraneo e di aprirsi una via verso l’Egitto. L’assedio durò un anno e mezzo e si concluse nel 586 a. C. quando la città fu sconfitta e venne distrutto il Tempio di Gerusalemme. E’ di ebrei deportati a Babilonia lo struggente coro “Va pensiero” del Nabucco di Verdi. che ancora oggi riesce a commuoverci. Miracoli della grande musica. La “Patria, sì bella e perduta” del testo di Temistocle Solera, musicato da Verdi, è ovviamente l’Italia occupata dagli austriaci. La cosa oggi incredibile è che la censura austriaca gliela lasciò passare. 
   

Il ritorno degli ebrei da Babilonia non fu facile. I reduci che volevano ricostruire il Tempio si scontrarono con i giudei che erano rimasti

   

L’esilio babilonese ha lasciato un segno profondo nella cultura ebraica, gli ha dato il Talmud, detto appunto babilonese, una sterminata raccolta di commenti, pareri, norme etiche, giuridiche e rituali, condita di note, chiose, dotte discussioni, spiegazioni a margine, che spesso lasciano la questione aperta a una pluralità di interpretazioni. A liberarli e a permettergli di tornare a casa fu un re persiano, Ciro il grande, campione di tolleranza religiosa, che nel frattempo aveva conquistato Babilonia. Il ritorno non fu facile. I reduci che volevano ricostruire il Tempio si scontrarono con i giudei che erano rimasti e non erano stati deportati. Li denunciarono al nuovo sovrano persiano, chiedendogli di punirli. All’esilio sotto dominazione persiana si riferisce anche la storia biblica di Ester, ebrea, sposa del re persiano Assuero. Ce ne sono diverse versioni. E’ stata attribuita talvolta a epoche diverse. Il cattivo Aman, che spinge il re persiano a sterminare gli ebrei, è anche lui discendente di deportati dalla Palestina, ma di etnia diversa dagli ebrei. Gli va male, finisce lui impiccato all’albero che aveva fatto preparare per il giudeo Mordecai. Un’amica, Miriam Camerini, che studia da rabbina (auguri!), ne interpreta la morale nascosta come un appello al re da parte di Ester perché faccia il suo mestiere e fermi il programmato massacro e la catena di vendette. Suggestivo, ma ci devo ancora riflettere. Quello scampato pericolo gli ebrei lo festeggiano a Purim. E’ una delle due feste, del tutto laiche, che più ricordo della mia infanzia in una famiglia non praticante. Sono dominate dal racconto, dal pranzo in famiglia, non dai riti religiosi. L’altra è Pesach, il passaggio, la liberazione dall’Egitto. Anche quella è una storia di migrazione di massa, ma non forzata, né respinta, e neppure temuta come invasione, bensì strappata a fatica al faraone che non li lasciava partire. 
  

I romani se ne intendevano di ingegneria etnica. Spostavano in tutta la penisola gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico

  

Gli ebrei continuarono a essere deportati e perseguitati dai satrapi ellenistici eredi di Alessandro Magno. Furono a più riprese conquistati, assediati, massacrati, deportati, e infine costretti a disperdersi per il mondo, dai romani. I quali antichi romani, di deportazioni in massa, e di ingegneria etnica (i coloni) se ne intendevano. Durante la conquista dell’Italia, e poi durante la guerra portata in Italia da Annibale, spostarono forzosamente da un capo all’altro della penisola gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico. Tito Livio racconta di come nel 179-80 a. C. 50.000 liguri apuani furono deportati nel Sannio, 7.000 addirittura via nave, dalla costa toscana a quella campana. Malgrado quelli implorassero che li si lasciasse a casa loro, e si fossero impegnati a non prendere le armi contro Roma (Ab urbe condita, XL, 38). Li avevano, racconta sempre Livio, affamati bruciando le loro vigne e i loro raccolti, tagliandogli vie di comunicazione e rifornimenti. Giulio Cesare aveva messo in pratica la notevole expertise acquisita in materia, spintonando per di qua e per di là, e mettendo l’una contro l’altra le diverse tribù delle Gallie, secondo la convenienza strategica del momento. Di buono c’era che non avevano il concetto di “razza” italica o romana. Solo di cittadinanza. 
 

La Cina praticamente è nata con spostamenti forzati epocali. Qin Shihuangdi, il Primo imperatore, l’aveva unificata spostando di qua e di là milioni di persone, le etnie più disparate, reclutandole nei suoi eserciti, nei grandi lavori idraulici, nella costruzione della Grande muraglia, e in quella della sua tomba. L’America si è fatta, oltre che sull’arrivo di masse sterminate di immigrati, sulle ossa delle tribù indiane spinte sempre più verso le terre più inospitali dell’ovest. 
 

Profughi palestinesi lasciano la striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah (LaPresse) 

  

Si capisce che la questione degli esodi, dell’esodo forzato (o anche dell’esodo impedito), sia da sempre la più intrattabile di tutte. Facevo il corrispondente in America quando nel 1992 assistetti in diretta al naufragio degli accordi di Oslo proprio sulla questione del “diritto al ritorno” dei palestinesi. Incredibile a ripensarci: gli avevano offerto a Camp David, su insistenza di Clinton, uno Stato palestinese nella striscia di Gaza e in gran parte della Cisgiordania, il ritorno di un limitato numero di profughi e un indennizzo per gli altri, in cambio dello smantellamento dei gruppi terroristici. Arafat rifiutò, insisteva sul diritto al ritorno per tutti. Non fece controproposte. Me l’avevano spiegata così: se Arafat firma una rinuncia al “diritto al ritorno”, i suoi l’ammazzano. 
   

La cacciata da casa propria è, da che mondo è mondo, il più pesante dei traumi. Naqba, catastrofe per eccellenza, la chiamano i palestinesi. Come catastrofe epocale fu vissuto lo scambio forzato di 18-20 milioni di musulmani e di indù tra India e Pakistan nel 1947. Come catastrofe fu vissuta nella Istanbul della mia infanzia lo scambio forzato di turchi e greci. Prima c’era stato lo sterminio degli armeni. La maggior parte in atroci marce forzate attraverso l’Anatolia devastata. Stalin aveva spostato da un capo all’altro dell’immensa Unione sovietica interi popoli, intere categorie sociali o politiche. Hitler li spostava da un capo all’altro dell’Europa per sterminarli. Non so come finirà a Gaza. Non oso pensare quanto sarà difficile negoziare su eventuali scambi e movimenti di popolazione tra Ucraina e Russia, quando e se finirà la guerra. 

Continua la lettura su: https://www.ilfoglio.it/cultura/2024/05/11/news/come-i-popoli-deportati-ricordano-il-dolore-6533307/ Autore del post: Il Foglio Quotidiano Fonte: https://www.ilfoglio.it/

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La rabbia serva di Hamas. Un catalogo degli “utili idioti” al servizio dei terroristi

Dai collettivi studenteschi pro Pal. ai rettori che si arrendono alle loro richieste. Da quelli che fischiano gli ebrei in visita ad Auschwitz ai cattivi maestri. E poi le proteste mancate e le atrocità non riconosciute. Dieci figure sulla scena antisionista antisemita (più una perla di speranza e di coraggio)

Un arcipelago con dieci isolotti pro Pal., cripto-filo-Hamas, filo Hamas senza cripto. Dieci figure sulla scena antisionista antisemita. Dieci categorie molto agguerrite, e molto sguarnite di cultura e informazioni. Qualcuno, rozzamente, avrebbe detto dieci categorie di “utili idioti”, consapevoli e non consapevoli, al servizio di Hamas. Dieci variazioni sullo stesso tema. Il decathlon dell’antisionismo urlante. Il catalogo è questo. (Più una perla di speranza e di coraggio)   

1) La capra collettiva

Sono il 99,9 per cento dei collettivi, a essere generosi: tutte capre senza speranza. Ignoranti assoluti. Non sanno nulla, blaterano, ululano, eruttano, si esprimono con suoni gutturali ritmati su slogan di desolante inconsistenza. Gridano “Palestine will be free from the river to the sea”, ma Daniela Santus, che è puntuale e sin quasi pignola nell’analisi storica, ha scoperto attraverso un sondaggio che se chiedi loro quale sia questo benedetto fiume e quale questo benedetto mare, le risposte sembrano, pressoché la totalità, delle tristi parodie dello studente asino. C’è chi ha detto: “Dal fiume Eufrate al mar Rosso”. Altri: “Dal fiume Nilo al Mar Caspio”. Altri ancora: “Dal fiume Tigri al Mar Rosso”, ma anche: “Dal fiume Nilo al Mar Rosso”. Qualcuno, tra gli italiani, ha voluto esagerare e mostrarsi capra da premio Oscar: “Dal fiume Alcantara al mar Mediterraneo” o addirittura (e non ce ne eravamo neanche accorti) “dal fiume Tevere al mar Mediterraneo”. Gridano fino all’afonia che da decenni la striscia di Gaza è occupata da Israele. Ma se provi a riferire che no, guardate, scusate il disturbo, tuttavia grazie all’odiato Sharon tutti gli ebrei di Israele se ne sono andati da Gaza dal 2005 e dal 2006 Hamas esercita un potere dispotico assoluto dopo aver scaraventato dai tetti i rivali dell’Autorità nazionale palestinese e aver speso tutti i soldi in armi, missili e tunnel blindati anziché in cibo e ospedali per i civili, ti guardano sgomenti per tanta improntitudine dell’arrogante sionista. Non azzeccano una data. Pendono dalle labbra di notori pro Hamas come Francesca Albanese, degna rappresentante delle inutili e dannose Nazioni Unite. Provate a chiedergli chi sia stato il fondatore del sionismo Theodor Herzl e ne avrete in cambio solo un’occhiata offuscata dall’ebetudine, incapaci come sono di sostenere qualunque tesi o argomento. Fossi un leader del ’68 mi offenderei con chi paragona il ‘68 con questa Intifada de noantri: loro almeno erano brillanti e persino informati. Questi sembrano comparse di Cinecittà a cui viene chiesto di recitare la parte della folla ululante e senza un briciolo di cultura. Ci riescono benissimo. E si divertono pure, con il miraggio delle tende nei cortili universitari.

  

2) Rettori poco retti

Un capitolo a parte merita la categoria dei Rettori italiani, di alcuni Rettori italiani per meglio dire. A differenza di alcuni loro omologhi delle università americane, che si sono ribellati di fronte all’affollarsi violento degli accampamenti antisemiti, questa frazione di Rettori italiani ha fatto capire con evidenza plastica (ci sono i video: quindi se ci sono i video è dogmaticamente vero) in che stato versano le università italiane. Quello di Torino, insieme al Senato accademico con l’eccezione di un’unica eroica dissidente, ha firmato la resa e l’atto di sottomissione mentre i collettivi ululanti reclamavano il boicottaggio delle università israeliane: non fosse una tragedia sembrava una parodia sarcastica dei Monty Python delle Guardie rosse e dei professori umiliati nella Cina della Rivoluzione culturale con le orecchie d’asino e gli sputi e la bastonate dei bravi ragazzi. Per rendere la scelta pateticamente più accettabile si sono inventati a Torino la categoria farlocca del “dual use”, cioè delle ricerche che potrebbero avere ricadute militari, provocando la sollevazione sconcertata di tutti i ricercatori scientifici che fanno ricerca scientifica vera. A Pisa il Rettore ha boicottato ma non ha boicottato, ha detto sì ma anche no, ma insomma doveva dare un segnale di ascolto ai bravi ragazzi che gridavano “from the river to the sea”. Quello di Milano (che poi sarà insolentito dagli insaziabili pro Pal) ha compiuto un capolavoro: per impedire un convegno su Israele previsto nelle aule dell’Università si è inventato un allarme della Digos in cui si diceva che quel convegno avrebbe provocato non un rischio, e neanche un rischio abbastanza alto, ma proprio un “altissimo rischio”. Dopo due giorni la Digos ha smentito di aver intrecciato un dialogo con il Rettore sull’“altissimo rischio” contenuto nell’annunciata manifestazione dei “sionisti”, ma nel frattempo la decisione del Rettore di non rilasciare il permesso e di traslocare il convegno nello spazio virtuale del web era stata già giustamente rifiutata dagli organizzatori. E in Italia ancora non si è materializzato lo spettro di uno dei leader degli accampamenti antisemiti americani che ha esplicitamente dichiarato: dovreste considerarvi fortunati se abbiamo deciso di non ammazzare tutti i “sionisti” (gli ebrei) del campus.

P.S: non tutti i Rettori come quelli di Torino e di Pisa hanno compiuto atto di sottomissione. Quelli di Bologna, Bari e Padova (per ora) hanno tenuto alto l’onore delle università libere: resistere, resistere, resistere.

  

     

3) Carogne purissime

Quelli che fischiano gli ebrei in visita ad Auschwitz sventolando le bandiere pro Pal. e gridando slogan antisionisti all’indirizzo dei parenti dei sopravvissuti della Shoah. Quelli che espongono cartelli con Anna Frank munita di kefiah. Quelli che vogliono cacciare con la forza la cantante israeliana dall’Eurovision, con Greta, che non sa niente di niente, a far da capopopolo dopo essere passata dalla difesa delle balene a quella del capo Hamas Sinwar, la belva che ama seppellire i corpi smembrati dei “traditori”. A Bologna, mentre preparavano le tende per il campeggio Hamas, si è sentita una voce cantare, in arabo: “Gli uomini a Gaza continuano a scavare, torneranno a casa con buste piene di parti del corpo” (i corpi degli ostaggi del 7 ottobre, naturalmente). Quelli che alla Columbia University hanno circondato uno studente ebreo, minacciandolo con slogan feroci. Quelli che in tutta Europa attaccano le sinagoghe, senza che nessuno sollevi nemmeno un abbozzo di protesta, o un briciolo di indignazione, visto che solitamente l’indignazione è una merce così a buon mercato. Quelli che a Manhattan convincono con nodosi, molto nodosi argomenti un teatro a interrompere la rappresentazione di uno spettacolo tratto da uno scritto di Amos Oz, perché bisogna boicottare gli scrittori ebrei e israeliani, ancorché defunti. Quelli che in Australia issano un cartello con su scritto: “Gas the Jews” (ma neanche un comunicato di sia pur temperata dissociazione, nemmeno uno). Poi c’è quella signora che ha avuto a che fare con non si capisce bene quale carriera diplomatica in Italia (ma come fanno a sceglierli così?) e che senza pudore ha insolentito grevemente Liliana Segre, bambina sopravvissuta ad Auschwitz, e non in un giorno qualunque, ma esattamente nel Giorno della memoria, e tuttavia i custodi della memoria resi smemorati dal 7 ottobre hanno fatto passare la cosa come un eccesso di reazione. Quelli che hanno impedito a una ragazza ebrea di entrare nell’edificio di Sciences Po. Quelli che hanno impedito nelle aule universitarie di Roma e di Napoli di parlare a due giornalisti ebrei. Cioè “sionisti”, insomma ebrei.

  

4) Oscar dell’abiezione

L’Oscar dell’abiezione antisemita va, nonostante la fitta concorrenza, a Roger Waters, ottant’anni, ex Pink Floyd: “Hamas era giustificata a resistere all’occupazione del 1967”; “gli israeliani inventano storie, probabilmente i primi 400 israeliani uccisi erano militari e quello non è un crimine di guerra. L’intera cosa è stata poi gonfiata da Israele con l’invenzione di storie su bambini decapitati”.

   

5) Non una di meno, una ti meno

Anche se non si arriva al negazionismo dell’unico satiro al mondo che non fa ridere, cioè il simpatico Daniele Luttazzi che proclama la teoria secondo cui i “presunti” stupri del 7 ottobre sarebbero soltanto miserabili fake news, le donne del movimento autonominatosi “Non una di meno” hanno già decretato che le donne israeliane (ebree ma anche arabe) violentate dai predoni di Hamas sono donne di serie B. Non meritevoli di solidarietà, da ignorare, cancellare, inghiottire nel nulla mentre si esalta la resistenza degli stupratori in lotta contro l’oppressore sionista. Hanno fatto un corteo contro il femminicidio, ma sul femminicidio di massa del 7 ottobre nemmeno una parola, nemmeno un accenno, nemmeno un fiato e anzi a Firenze hanno cacciato con la forza dal corteo una ragazza che voleva ricordare quella strage di donne. C’è chi si stupisce, ma non c’è da stupirsi: loro stanno dalla parte degli jihadisti, e chi se ne importa delle donne ebree. Da loro neanche una parola, un accenno, un fiato persino sulle donne afghane che i talebani di nuovo al potere hanno nuovamente segregato, picchiandole, impedendo di studiare alle ragazze e alle bambine, imponendo alle donne oppresse con una crudeltà indicibile di indossare il burka dell’umiliazione e con la minaccia della fustigazione pubblica se solo osassero uscire di casa senza un maschio barbuto al comando. Non una parola, un alito, un accenno anche di sfuggita sulle donne iraniane che si fanno ammazzare sulle strade di Teheran per rivendicare il diritto di non seppellirsi nel buio del velo obbligatorio e insomma per il diritto di essere libere. Sì, il taglio di una ciocca di capelli ogni tanto da modelle e attrici non si nega a nessuno. Ma quando si scopre che Nika Shakarami, una ragazzina sedicenne nell’Iran degli ayatollah, è stata violentata dagli energumeni della “polizia morale” prima di essere assassinata nel mattatoio allestito dal regime è come se la notizia non esistesse. E nemmeno un pensiero, non uno di meno, di sapere come vengono trattate le donne dai tagliagole di Gaza, senza il barlume di una libertà, di una dignità pubblicamente riconosciuta, come accade invece nelle fetenti terre dell’“entità sionista”. Ma non c’è verso, non si fanno convincere. Sbadigliano. Eludono. Fanno finta di niente. Proponiamo una manifestazione di “Non una di meno” davanti all’ambasciata iraniana? Ma non esiste proprio, come si dice a Roma con la solita indolenza cinica e un po’ stracciona: quella non è nemmeno la “cultura patriarcale” che opprime le donne dell’occidente. Anzi, la notte in cui l’Iran ha attaccato Israele con missili e droni, da quelle parti non una di più ha evitato di tifare per i bombardieri di Teheran. E continueranno, eccome se continueranno.

6) Lo slogan più trucibaldo

Quello gridato dagli accampati di Harvard, un tempio della cultura e del sapere oggi diventato covo di nefandezze antisemite, e che recita così, testuale: “Goodbye Nazis, go back to Poland”. Gli ebrei che devono tornare in Polonia, cacciati dalla Palestina. Che accadde agli ebrei in Polonia? Chiedere dettagli ai professori universitari del Boycott Israele.

  

    

7) Profumo coloniale

Quelli che dicono che il sionismo è stato un progetto infame di infami e ricchi colonialisti venuti in Palestina per opprimere con le loro potenti armi e i loro imbattibili eserciti i palestinesi. A loro si potrebbe dedicare una citazione tratta da “Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz, alle pagine 160-161 dell’edizione italiana Feltrinelli, per la traduzione di Elena Loewenthal: a Gerusalemme, nel 1934, “nei cortili sorsero magazzini, piccoli capanni, tetti di lamiera, baracche montate alla bell’e meglio con assi ricavate dai bauli in cui i residenti avevano trasportato le proprie cose, come in virtù dell’ambizione di ricreare in questo posto copia perfetta dei borghi d’origine, in Polonia e Ucraina, in Ungheria e Lituania. (…) E intanto a Kerem Abraham abitavano piccoli impiegati dell’Agenzia ebraica, insegnanti, infermiere, scrittori, autisti, segretari, rivoluzionari, traduttori, commessi, pensatori, scribacchini, cassieri di banca o di cinema, ideologi, modesti negozianti, anziani soli che tiravano avanti con i loro risparmi in miniatura”. Colonialisti furiosi, davvero. Privilegiati come le infermiere e gli scribacchini che erano scappati dai pogrom: “Tutti cercavano di credere che i tempi brutti sarebbero passati, che lo stato ebraico sarebbe sorto quanto prima e tutto sarebbe cambiato in meglio: già, la misura delle disgrazie era ormai colma”. Disgrazie colonialiste. Pogrom antiebraici colonialisti.

  

8) Il fantasma dell’illibertà

Dovunque nel mondo c’è una tirannia, una qualunque forma di illibertà, lì senza alcun dubbio troverai Mein Kampus (copyright Giuliano Ferrara). E’ una legge inderogabile, che non conosce eccezioni. Se c’è da protestare per qualche dissidente cinese sparito nelle segrete di Pechino, lì certamente non troverai nessuno dei chiassosi collettivi. Se si è sgomenti per la sorte della popolazione musulmana degli Uiguri in Cina, questo sentimento non sarà condiviso da nessuno dei musulmani jhadisti che tanto attraggono il Movimento. Così attenti a quel che accade a Gaza, eppure non muoveranno mai un dito, men che meno alzeranno le loro possenti voci, per deplorare i bombardamenti dell’amico Putin su un ospedale pediatrico di Mariupol, per la strage di Bucha, per le pizzerie di Kramatorsk distrutte dai missili con tutti i civili bruciati dai potenti denazificatori di Mosca, per i condomini colpiti a Kyiv durante la notte per fare quanti più morti possibili, per il terrore sparso sulla cittadinanza di Odessa. Per la sorte di Navalny, poi, il silenzio è assoluto, senza increspature, ghiacciato come la Siberia in cui Putin aveva spedito il più famoso dei dissidenti. Non fanno rumore i dissidenti avvelenati, il ricordo di Grozny rasa al suolo, le migliaia di bambini ammazzati ad Aleppo e nel resto della Siria dal duo di tagliagole formato da Assad e Putin. Niente, sempre amici. E neanche un brivido solidale con i ragazzi di Tbilisi che portano le bandiere della Georgia e dell’Europa mentre i filo-russi vorrebbero bastonarli bestialmente come “agenti” di “influenze straniere”, cioè con la testa e con il cuore rivolto all’odiato occidente scomunicato dal Patriarca Kirill, la vera guida spirituale dei movimenti oscurantisti che si agitano nelle piazze e nelle università del mondo democratico. Lì il principio di autodeterminazione dei popoli non viene nemmeno menzionato. Quei coetanei della Georgia vogliono la libertà? Ma i seguaci dell’illibertà non hanno nulla da spartire con loro.

  

     

9) Cattivi maestrini

E poi ci sono gli insegnanti, i docenti, i professori, frutto dello sfascio della scuola, in tutta evidenza. Anche Jonathan Lethem, oltre a essere uno scrittore, è un professore. Non è figlio dello sfascio della scuola italiana, ma la superficialità del corpo insegnante oramai senza argini non conosce confine, barriera, frontiera, lingua. E Lethem questo insegna ai suoi allievi a proposito di Israele e antisemitismo: “Si tratta di combattere un governo sanguinario e corrotto. E’ una coerente e persistente critica rivolta allo Stato di Israele e alla sua politica di apartheid”. Ecco la parola chiave che unisce tutti i cattivi maestrini: apartheid. Anche gli insegnanti italiani, firmando il manifesto per il boicottaggio di Israele, fanno ricorso a quella parola: apartheid. Hanno scritto che i palestinesi combattono non contro il governo di Israele, ma contro 75 anni di oppressione, cioè contro lo Stato di Israele in quanto tale, secondo una risoluzione dell’Onu in cui si stabiliva il principio del “due popoli, due stati” (“due stati democratici”, specificava con la sua consueta pignoleria sanamente iper-liberale Marco Pannella). Poi in un altro manifesto è venuta fuori la cifra di 70 anni, che è una cifra un po’ casuale, tanto per dire un numero, tanto per sparacchiare una data così per dire, visto che non si ricorda negli annali della storia qualcosa di totalmente decisivo avvenuto nel 1954. Ma i professori italiani anti Israele e filo Intifada non arretrano di un millimetro: apartheid deve essere e apartheid sarà. E i parlamentari arabi alla Knesset? Non contano: apartheid. E la nuova Rettrice araba dell’Università di Haifa Mona Maroun? Non conta: apartheid. E il partito Raàm, arabo-israeliano, che nel 2021 aveva un suo esponente nel governo, addirittura viceministro degli Interni? Non conta: apartheid. E le donne arabe israeliano stuprate il 7 ottobre? Non conta: apartheid. Non contano i dati di fatto, le circostanze, l’inverosimiglianza di un popolo segregato che pure esprime un ministro del governo. Conta solo il mantra, la formuletta narcotizzante da ripetere all’infinito senza interlocuzione, senza confronto, senza amore per la cultura e per la storia. Come nel caso dell’insegnante di Torino, che dopo aver declamato una lezioncina contro l’orrore di Israele che opprime da sempre i palestinesi, ha preteso dai suoi sfortunati studenti un temino sull’argomento: con quale libertà per i poveretti costretti a ripetere le fesserie dell’insegnante per non essere bocciati è facile immaginare.

  

10) Intifada (anti)gay

Ecco il risultato di una ricerca indipendente pubblicata in Italia da Fanpage: “A Gaza essere omosessuale è un reato punibile con la morte. E’ infatti in vigore l’ordinanza del codice penale inglese del 1936, che criminalizza i rapporti omosessuali tra uomini adulti anche se consenzienti”. E ancora, e soprattutto: “Nel 2016, il braccio armato del gruppo militante palestinese Hamas ha giustiziato Mahmoud Ishtiwi, uno dei principali comandanti del gruppo, con l’accusa di sesso gay e furto. Molti palestinesi Lgbtq+ hanno cercato rifugio in Israele. Secondo l’avvocato Shaul Gannon, dell’organizzazione Lgbtq+ israeliana The Aguda – Israel’s LGBT Task Force- circa 2.000 omosessuali palestinesi vivono a Tel Aviv. Secondo Pew Research, il 93 per cento della popolazione palestinese è completamente contraria all’omosessualità, una percentuale tra le più alte al mondo. La Palestina è stata anche nominata da Forbes come uno dei paesi peggiori al mondo per i viaggiatori Lgbtq+”. Ma niente, la sorte degli omosessuali scaraventati dalle finestre nel regime dispotico di Hamas a Gaza non è in cima alle preoccupazioni delle truppe che nelle metropoli occidentali sventolano le bandiere dell’orgoglio gay insieme a quella dei predoni asserragliati nei tunnel di Gaza. Se avessero voglia di leggere (ma ne dubito) e avessero il coraggio di affrontare una storia che scardina tutte lo loro certezze, i gay occidentali che senza pudore e senza dignità buttano nella spazzatura i gay palestinesi trucidati potrebbero chinarsi sulle pagine del romanzo di Cinzia Leone, “Vieni tu giorno nella notte”, per comprendere il dramma, la tragedia degli omosessuali della Palestina perseguitati dal regime, ripudiati dalle loro famiglie, costretti a fuggire in Israele dove, tra le mille contraddizioni di qualunque società in bilico tra tradizione e modernità, si è tuttavia liberi di amare. O ricordare la storia di Ishtiwi, già dirigente di Hamas, scoperto come omosessuale nel 2016, malmenato e poi torturato, che scrisse in ceppi: “Mi hanno quasi ucciso”. Ma forse, diranno gli acuti protagonisti delle piazze d’Occidente, era una spia sionista che si è inventato tutto.

Però…

Poi ci sarebbe la categoria dei coraggiosi, e che non avrebbero nessun interesse, per mestiere e vocazione, a mettersi contro l’ondata mainstream post 7 ottobre. Uno per tutti: Vasco Rossi, che in un’intervista al Corriere della Sera ha detto: “’Free Palestine’ è un bello slogan, ma se implica la distruzione dello Stato di Israele, allora sarebbe più onesto dirlo. E alla distruzione di Israele io mi ribello. Leggo cose superficiali, in cui non mi riconosco. Mi hanno dato del sionista, ma io non so neppure cosa voglia dire. So che se mettessi il like a ‘Palestina libera’ mi amerebbero tutti; ma io non sono fatto così”. Menomale, grande Vasco.  

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