Risiko, scacchi, Go. Così i tradizionali giochi di guerra influenzano le politiche cyber di America, Russia e Cina

Protezione, conquista, circondamento. Ognuna delle tre grandi potenze globali interpreta sia sul piano fisico che su quello digitale una propria partita per la supremazia, seguendo le strategie che meglio conosce: quelle del gioco più popolare nella sua tradizione

Possono i giochi di strategia tradizionali propri di ciascuna civiltà permetterci di paragonaregli approcci geostrategici delle grandi potenze? E in particolare, determinarne la linea di condotta nel contesto dei conflitti nel cyberspazio? Alla prima domanda in molti hanno già dato una risposta positiva: la scelta di pervenire alla vittoria attraverso il perseguimento degli obiettivi nelle aree ritenute vitali per i propri interessi, come nel gioco del Risiko, caratterizza infatti la visione geopolitica statunitense, mentre la decisione di conseguire la superiorità attraverso la supremazia tattica e strategica anche con il sacrificio di parte delle proprie pedine, come negli scacchi, è propria della dottrina militare russa. Il Go, invece, con il suo focus sul controllo del territorio circondando l’avversario piuttosto che affrontandolo direttamente, riflette la visione militare cinese di guadagnare potere attraverso l’assorbimento strategico e il controllo indiretto. 

L’analisi dei giochi di guerra tradizionali offre pertanto un’opportunità singolare per esplorare le profonde radici culturali delle strategie militari adottate dalle nazioni nel corso della storia. Attraverso l’osservazione dei meccanismi di Risiko, Go o degli Scacchi, possiamo cogliere non solo le differenze nelle strategie di combattimento, ma anche le visioni del mondo, i valori e gli obiettivi delle culture che li hanno generati. E in ciò è possibile intravedere sottotraccia come, al contrario di quanto teorizzava Karl Marx, la sovrastruttura determini la struttura. Non una sorpresa del resto, se si considera quanto esposto dall’antropologo ungherese Karl Polany. Egli, ribaltando il dogma marxista, negli anni Quaranta del secolo scorso affermò nel saggio “La grande trasformazione” che l’economia, fino all’avvento del capitalismo, era integrata nella società. Ogni forma di scambio, nelle comunità tradizionali, era condizionata e determinata da quella che marxianamente vien definita sovrastruttura: la cultura di un popolo. Qualsiasi scelta economica in un contesto preindustriale non veniva basata esclusivamente sul profitto, bensì sulla redistribuzione dei beni fondata su relazioni personali e comunitarie e su rapporti di reciprocità. Allo stesso modo, le scelte strategiche e militari sembrano rispondere al medesimo criterio, adeguandosi alle impostazioni culturali proprie di ciascuna civiltà tradottesi anche nei giochi di simulazione più popolari nel contesto di riferimento; e ciò è vero non solo nelle società tradizionali, ma si riverbera sino ai nostri giorni.

Il pensiero strategico, a quanto pare quindi, non si è assoggettato alla grande trasformazione individuata da Polany con l’avvento dell’era industriale e del capitalismo, ma sembra far riferimento a qualcosa di ben più profondo, connaturato alla visione stessa dell’uomo e della vita di ciascuna civiltà.

Tuttavia, in un mondo sempre più interconnesso, smaterializzato e digitalizzato, è essenziale estendere questa analisi anche al dominio cibernetico, dove le nazioni cercano di consolidare il loro potere e la loro influenza, per verificare se il paradigma rimane valido. I giochi di strategia tradizionali sono intrecciati alla componente cyber così come lo sono a quella militare sul piano fisico? A una prima analisi, anche in questo caso la risposta è affermativa e offre una visione più completa delle mentalità strategiche delle culture mondiali.

 

Stati Uniti: Risiko e la proiezione del potere

Nel contesto cyber, gli Stati Uniti si distinguono per il loro predominio nella guerra informatica e nella sicurezza digitale. La strategia di proiezione del potere si estende pertanto al dominio del cyberspazio, dove il controllo dei territori digitali, come le infrastrutture critiche e le reti di comunicazione, è diventato essenziale per la sicurezza nazionale e l’egemonia globale degli Stati Uniti. Attraverso la loro capacità di condurre operazioni di hacking sofisticate e di difendersi dai cyber attacchi, gli Stati Uniti mantengono il loro ruolo di potenza prevalente nel cyberspazio tramite una strategia di dominio e alleanze strategiche finalizzate al perseguimento degli obiettivi, proprio come nel Risiko.

In particolare, gli Stati Uniti si trovano in una competizione persistente e asimmetrica con i contendenti autoritari come Cina e Russia, concentrata su politica, economia, tecnologia e informazione. Quest’ultima è vista come un terreno cruciale in cui le autocrazie diffondono deliberatamente disinformazione e teorie del complotto per rafforzare il loro potere interno e minare le democrazie all’estero. Tuttavia, gli Stati Uniti stanno sviluppando una strategia proattiva per contrastare questa minaccia, sfruttando vantaggi asimmetrici come la verità, la promozione dei valori democratici e il sostegno al giornalismo di qualità. Questa strategia include anche l’uso delle capacità informatiche avanzate degli Stati Uniti e la collaborazione con alleati democratici, anche nel contrasto al cybercrime: attraverso l’Interpol e in coordinamento con gli stati occidentali, gli Stati Uniti contrastano attivamente il crimine digitale, bacino di coltura e a volte strumento più o meno consapevole per le azioni ostili delle autocrazie nel cyberspazio, arrivando alla chiusura dei server delle cybergang e all’individuazione e al perseguimento giudiziario dei loro membri, come avvenuto ad esempio lo scorso febbraio con lo smantellamento della russa Lockbit. L’Agenzia per i Media globali degli Stati Uniti ha un ruolo chiave nella promozione di questa strategia, concentrando l’attenzione sull’America Latina e utilizzando strumenti digitali sofisticati per raggiungere pubblici globali con contenuti autentici e convincenti, evitando di essere troppo dispersivi nelle proprie attività: esattamente come nel Risiko, dove le forze sono concentrate lì dove servono per raggiungere l’obiettivo che porta alla vittoria nel gioco.

Cina: Go e la strategia di circondamento

Il gioco del Go premia la pazienza e la visione a lungo termine nel guadagnare territorio pezzo per pezzo, un analogo diretto alla strategia di espansione territoriale della Cina nel mondo reale. Nel dominio cyber, la Cina si distingue per le sue capacità nel cyber hacking e nella guerra informatica. Utilizzando tattiche sofisticate di infiltrazione e manipolazione delle reti, la Cina cerca di consolidare la sua influenza nel cyberspazio, parallela alla sua strategia di espansione territoriale nel gioco Go. Attraverso la Belt and Road Initiative, la Cina crea anche alleanze digitali e progetti di infrastruttura cyber, estendendo la sua influenza nel mondo digitale. Altro esempio lampante è stata la controversia sulla tecnologia 5G e l’apporto di Huawei: tramite la connivenza di stato e industria, per la Cina è possibile tendere sottili reti di spionaggio mondiale, finalizzate anche ad acquisire informazioni con cui ricattare o compromettere leader o figure chiave delle altre potenze sullo scacchiere mondiale, bloccandone l’iniziativa. Anche a questo potrebbe esser stato mirato, ad esempio, il furto recentemente scoperto dei dati personali di milioni di cittadini britannici da parte di Apt31, un gruppo hacker sostenuto dal governo della Repubblica Popolare Cinese. Lo stesso attacco ha avuto invece finalità diverse negli USA, dove Apt31 ha compiuto l’infiltrazione digitale di infrastrutture critiche statunitensi, sia civili che militari, con intenti di natura bellica: paralizzare il traffico aereo o interrompere la fornitura di energia elettrica, ad esempio, inibendo le eventuali mosse di Washington nel caso del precipitare di una crisi a Taiwan.

La strategia di guerra digitale dell’informazione della Cina si configura inoltre come un piano completo e multi frontale per stabilire la supremazia informatica e affrontare le sfide future nel contesto delle moderne battaglie. La Cina, attraverso il suo Esercito popolare di liberazione, ha identificato obiettivi chiave, tra cui reti di comando, piattaforme ad alta tecnologia e sistemi di intelligence, e ha sviluppato una serie di tattiche per conseguire tale supremazia: la raccolta intensiva di informazioni durante i periodi di pace, la preparazione anticipata per identificare le capacità e le debolezze nemiche, e l’individuazione di obiettivi non militari cruciali come le infrastrutture critiche. Per ottenere e mantenere la supremazia informatica, la Cina adotta sia operazioni offensive che difensive, che vanno dalla manipolazione delle percezioni politiche alla protezione delle risorse informative nazionali. Inoltre, la Cina impiega la guerra psicologica in modo aggressivo, cercando di influenzare l’opinione pubblica e mantenere la fiducia nella leadership del Partito Comunista Cinese. La Cina si impegna anche in attività di spionaggio informatico per garantire vantaggi economici e tecnologici, mentre simultaneamente regola e controlla il flusso di informazioni dall’estero. In sintesi, la strategia di guerra dell’informazione della Cina rappresenta un approccio completo e multiforme per dominare il panorama informativo globale e proteggere i suoi interessi nazionali e ideologici, ponendo gli avversari in condizione di immobilità ma senza sopprimerli: proprio come avviene nel gioco del Go, dove la vittoria arriva quando con il posizionamento delle proprie pedine si impedisce il movimento o il posizionamento di quelle avversarie.

Russia: scacchi e la conquista totale

Gli scacchi, con la loro enfasi su strategia e tattica, incarnano la dottrina militare russa di sconfiggere l’avversario attraverso la superiorità strategica e tattica. La vittoria negli scacchi si ottiene tramite il raggiungimento dello scacco matto, un obiettivo che richiede una comprensione profonda della strategia e una capacità di adattamento alle mosse avversarie, anche con il sacrificio dei propri pezzi. Nel dominio cyber, la Russia si distingue per le sue abilità nel condurre operazioni di disinformazione, sabotaggio digitale e guerra psicologica online. Utilizzando il cyber spazio come un’arena per destabilizzare i suoi avversari e ottenere vantaggi strategici, la Russia applica i principi degli scacchi nel mondo digitale, arrivando anche ad immolare le proprie pedine per conseguire una miglior posizione, proprio come avvenuto ad esempio con le cybergang Revil e Conti Team. La loro capacità di infiltrarsi nei sistemi informatici avversari e di lanciare attacchi mirati riflette l’approccio russo alla conquista totale anche nel cyberspazio, dove i pedoni sono idealmente le varie gang di Criminal Hacker dell’area ex sovietica, strettamente legate ai servizi segreti russi. 

Il modo in cui la Russia opera nella guerra digitale dell’informazione, inoltre, è articolato e complesso, con obiettivi strategici ben definiti, diverse pedine e varie tattiche per raggiungerli, proprio come negli scacchi. Il loro approccio si estende a livello globale, coinvolgendo paesi come gli Stati Uniti. Le operazioni russe si basano su una serie di fasi e strategie mirate a influenzare l’opinione pubblica straniera, minacciare la stabilità internazionale e, in alcuni casi, rovesciare governi ostili. Queste strategie comprendono l’attrito e l’annientamento, ognuna con il suo insieme di tattiche e obiettivi. La fase dell’attrito coinvolge una serie graduale di operazioni informative ed è progettata per distorcere e, alla fine, sostituire i valori e le priorità nazionali di un paese obiettivo. Questa strategia è stata utilizzata, ad esempio, per preparare l’ambiente informativo prima dell’invasione russa della Crimea nel 2014, influenzando le opinioni pubbliche interne ed esterne, e corrisponde al movimento dei pezzi sulla scacchiera finalizzato al logoramento della difesa avversaria. La fase dell’annientamento, invece, mira allo scacco matto: ottenere il pieno controllo delle reti e delle infrastrutture informative di un obiettivo attraverso operazioni di disinformazione, psicologiche e cibernetiche coordinate. La Russia vede la guerra dell’informazione come una guerra totale, con la sopravvivenza della nazione in gioco, proprio come negli scacchi dove la “patta” è il risultato più improbabile di una partita dove di norma o vince il bianco, o vince il nero. 

Ognuna delle tre grandi potenze globali interpreta quindi, sia nel piano fisico che in quello digitale, una propria partita per la supremazia, seguendo le strategie che meglio conosce: quelle del gioco più popolare nella propria tradizione. Tutto sta a vedere quale sia quello che, sul lungo periodo, garantisce le migliori probabilità di successo.

Pierguido Iezzi è un ex ufficiale di carriera, formatosi all’Accademia Militare di Modena, laureato in Scienze dell’Informazione e con oltre 30 anni di esperienza nel mondo della Cyber security. Ha alle spalle un’ampia gamma di attività operative relative a Tecnologia, Innovazione, Cyber Security e gestione aziendale. Autore del libro “Cyber e potere” (2023) Le aree di expertise comprendono cyber security, geopolitica, intelligenza artificiale e tecnologia. Founder di Swascan, Consigliere Nazionale di Assintel (Associazione Nazionale Imprese ICT di Confcommercio) è anche Coordinatore del Cyber Think Tank della stessa oltre a presiedere lo SME ISAC della European DIGITAL SME Alliance. Oggi ricopre il ruolo di Strategic Business Development Director di Tinexta Cyber, il polo italiano della cybersecurity, con un focus sui temi della sicurezza digitale, innovazione, forti competenze verticali e soluzioni custom.

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Guerra e Matematica

La riflessione sulle guerre. Il carteggio Einstein-Freud e la matematica per gli scopi bellici.

Parte prima: il dibattito sulla guerra
Cancellare le guerre dai libri di storia è un appello del Movimento Nonviolento.
Senonché accogliere l’appello non cancellerebbe le guerre dalla storia. In assenza di riferimenti alla guerra non ci sarebbe occasione di leggere riflessioni fondamentali come queste:
“Homicidia conpescimus et singulas caedes: quid bella et occisarum gentium gloriosum scelus? […] Ex senatus consultis plebisque scitis saeva exercentur et publice iubentur vetata privatim. Quae clam commissa capite luerent, tum quia paludati fecere laudamus. Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit.”
Sono parole di Lucio Anneo Seneca in un memorabile passo di un’epistola all’amico Lucilio. L’assassinio viene punito se commesso in privato, mentre è motivo di lode e di gloria se commesso in guerra: questa la vergogna denunciata definitivamente dal filosofo latino con parole destinate a riecheggiare in ogni tempo, monito più che mai attuale quando  assistiamo come oggi a orrendi crimini di guerra perpetrati contro civili inermi.
La prevaricazione di chi si ritiene più forte militarmente a danno di un popolo trova riscontro nell’antica Grecia.
Esemplare in proposito il dialogo fra gli Ateniesi e i  Meli nella Guerra del Peloponneso di Tucidide. Gli Ateniesi, in guerra contro Sparta, inviano in via preventiva  ambasciatori presso i Meli, coloni spartani dell’isola di Melo, per indurli alla resa, ammonendo i loro consiglieri che “i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano”. I Meli chiedono come possa esserci un interesse comune fra chi accetti di diventare schiavo e chi si erga a padrone. Osservano ancora i Meli che non cercare ogni via per evitare la sottomissione sarebbe manifestazione di viltà e motivo di vergogna. Replicano gli Ateniesi che sarebbe saggio invece arrendersi a un avversario più potente. Purtroppo il  dialogo tucidideo resta attuale in una sua versione tragicamente aggiornata: oggi qualunque criminale compiaciuto di sentirsi più potente dispone della minaccia al ricorso alle armi nucleari.
Dall’antichità classica proviene anche la distinzione tra guerra difensiva e guerra offensiva.
Troviamo in Tito Livio la seguente espressione:  “Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma, quibus nulla nisi in armis relinquitur spes.”
Vale a dire che la guerra è giusta se necessaria per chi non nutra speranza alcuna di salvezza qualora non ricorra alle armi a scopo di difesa. La riflessione sulla guerra giusta era già presente in Aristotele, che da una parte condannava l’aggressione riconoscendo a chi venisse aggredito il diritto di difendersi, ma dall’altra giustificava il muovere guerra ai barbari. Analogamente nel pensiero cristiano medioevale si affermò il concetto di guerra santa contro gli infedeli, “sterpi eretici” secondo la definizione di Dante. Il bellicismo colonialistico cinquecentesco si basava sull’asserita necessità di redimere dalla loro inciviltà i popoli da colonizzare.  Insomma lo ius ad bellum, ovvero diritto di muovere guerra, giustificava in certi casi gli aggressori.
Nel secentesco trattato De iure belli ac pacis di Ugo Grozio viene esplicitato fra l’altro lo ius in bello, ovvero complesso di norme giuridiche da rispettare in  guerra.
Su questo tema si pronuncia anche Louis de Jaucourt, il quale nella voce Guerre della Encyclopédie illuminista scrive che  non v’è diritto che autorizzi “a togliere la vita per deliberato proposito ai prigionieri di guerra, né a coloro che domandano quartiere, né a coloro che si arrendono, né tanto meno ai vecchi, alle donne, ai bambini, e in generale  a tutte le persone che non hanno un’età né svolgono una professione tali da renderli atti alle armi, e che nella guerra non hanno nessuna parte e vi sono coinvolti solo perché si trovano nel paese o nel partito nemico”. Nella voce citata si condanna anche  la brutalità della guerra nei confronti della donna. Eccola tradotta dal francese:
“Essa [la guerra] ha regnato in tutti i secoli sulle più fragili basi; la si è vista sempre desolare il mondo, privare le famiglie dei loro eredi, riempire gli stati di vedove e di orfani: mali deplorevoli, ma tanto comuni! In ogni tempo gli uomini, per ambizione, per avarizia, per gelosia, per malvagità, si sono derubati, bruciati, sgozzati a vicenda […] A più forte ragione, i diritti di guerra non giustificano gli oltraggi all’onore delle donne, dato che una tale condotta non contribuisce affatto alla nostra difesa, alla nostra sicurezza né alla difesa dei nostri diritti; essa serve soltanto a soddisfare la brutalità del soldato privo d’ogni freno.”
Delitti contro l’umanità che continuano ad essere perpetrati dal “soldato privo d’ogni freno”, a ciò per giunta  incitato dalla viltà di chi in sede di comando pianifica la presa a bersaglio di  civili inermi.
La riflessione sulle cause della guerra trova una delle sue più alte espressioni nel carteggio Einstein-Freud, di cui sono qui riportati alcuni stralci in traduzione.
Il padre della teoria della relatività si rivolge per una risposta al padre della psicoanalisi:
“Caro signor Freud, c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.”
Si riportano qui alcuni passi della lunga risposta:
“Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con lei. […] Ora la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, cosi che dobbiamo ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è un’intolleranza costituzionale, per così dire il massimo della idiosincrasia. […] Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – l’atteggiamento sempre più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alla guerra in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo giudicarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.”
Evidentemente l’evoluzione civile è in inquietante ritardo nel mondo, se non giunge addirittura a configurarsi come involuzione.
Nel filone delle riflessioni sulla pace risalta la cinquecentesca Querela pacis di Erasmo.
Eccone un passo tradotto dal latino:
“E invero, se io sono la Pace, esaltata all’unisono da dèi e uomini come sorgente, genitrice, nutrice, promotrice, tutrice di ogni bene esistente in cielo o in terra, e se in mia assenza nulla mai fiorisce, è saldo, puro, santo, piacevole per gli uomini e gradito ai superi, mentre la guerra viceversa si presenta come l’oceano di tutte le sventure esistenti al mondo, […] ebbene, io allora mi chiedo in nome dell’immortale divinità: chi può ritenere che costoro siano esseri umani ed abbiano un briciolo di senno, quando a dispetto delle mie virtù si adoperano con tanti mezzi, tanta ostinazione, tante macchinazioni, tante astuzie, tanti affanni, tanti rischi a scacciarmi, per acquistare a così caro prezzo un tale profluvio di mali?”
Il testo classico in cui la ragione coltiva l’utopia è  Per la pace perpetua  di Immanuel Kant.
Fra le condizioni necessarie per assicurare la pace perpetua il filosofo annovera la totale scomparsa degli eserciti permanenti, il divieto per ogni Stato di intromettersi con la forza in un altro Stato, la necessità  della forma repubblicana della costituzione di ogni Stato e del federalismo fra Stati. Per lui, che ritiene non inconciliabili politica e morale, i politici dovrebbero avvalersi della consulenza dei filosofi. Se ci chiediamo quali filosofi, dobbiamo escludere quelli come Georg Wilhelm Friedrich Hegel,  triste figura che la guerra non la condanna, ma la esalta. È l’aberrazione della “guerra sola igiene del mondo”, come la celebra e glorifica Filippo Tommaso  Marinetti.
Encicliche dei sommi pontefici come  Pacem in terris  o Fratelli tutti vagheggiano la pace universale.
Ferma, decisa e risoluta è la  condanna ecclesiastica di ogni guerra di aggressione, definita dal Vaticano “moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega”. Anche il Papa riconosce a chi sia aggredito il diritto di difendersi. Ad ogni  posizione irenica ovvero pacifista, sia religiosa che laica, si contrappone la concezione della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi” espressa da Klaus von Clausewitz nel suo trattato Vom Kriege.
Oggi i progetti di educazione alla pace sono insidiati dalla  minaccia incombente della cosiddetta guerra nucleare preventiva.
Finora si riteneva che l’equilibrio del terrore potesse scongiurare la terza guerra mondiale. Però era già presente nel pensiero di un presidente statunitense l’idea di una guerra preventiva. La novità  consiste nel fatto che  ora l’uso di armi atomiche in funzione preventiva  è contemplato in una legge voluta da un famigerato dittatore gongolante ad ogni suo lancio di missili. Perciò, quando alla fine del suo volume sull’identità umana Edgar Morin, avvalendosi delle scienze dell’incertezza, scrive che per l’avvenire “niente è sicuro, neanche il peggio”, con tutto il rispetto per il più che centenario studioso dobbiamo purtroppo constatare che la probabilità del peggio è in aumento. Probabilità che un qualunque detentore di un potere assolutistico dia il via in un accesso di demenza, se assecondato da generali altrettanto folli,  allo sterminio della vita sul pianeta per la percezione soggettiva di una minaccia soltanto presunta.
Vittorino Andreoli in Homo stupidus stupidus. L’agonia di una civiltà, Rizzoli, 2018, osserva che la corsa agli armamenti si svolge più che mai “all’insegna della stupidità e della follia”.
Questa l’amara constatazione dello psichiatra a proposito dello scadimento cerebrale di questo o quel singolo individuo al posto di comando: “Trasformare questo pianeta in una pietra che, nuda e fredda, gira nell’universo non è più nelle mani degli dèi, ma della stupidità del potere.”
Viene in mente la conclusione di un romanzo.
Da La coscienza di Zeno di Italo Svevo: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Pablo Picasso, Guernica (1937)
Parte seconda: matematici  pro e contro  la guerra
Il trattato L’arte della guerra attribuito a Sun Tzu, risalente al VI secolo avanti Cristo, dedica spazio a una serie di fattori matematici che possono determinare l’esito di una guerra.
Il testo è organizzato in tredici capitoli dedicati all’analisi razionale delle diverse dimensioni della guerra, identificando le modalità per perseguire e riportare la vittoria. Tredici i capitoli: pianificazione e valutazione; preparazione alla guerra; attacco strategico; schieramento e disposizione dell’esercito; forze; punti di debolezza e punti di forza; scontro e manovre militari; variabili, variazioni e adattabilità; spostamenti e movimenti delle truppe; terreno; territorio e i nove campi di battaglia; attacco con il fuoco; utilizzo delle spie. Chi è esperto dell’arte della guerra deve saper controllare il fattore morale, il cuore, la forza e le diverse circostanze. Il numero non  dà vittoria certa: la vittoria deve essere creata sul campo. Tuttavia nel quarto capitolo i fattori numerico e geometrico sono  presi in  considerazione:
“Ricorda, gli elementi della strategia militare sono cinque: primo, misurazione dello spazio; secondo, valutazione della quantità; terzo, calcolo; quarto, confronto; e quinto, probabilità di vittoria. Le misurazioni dello spazio si deducono dal territorio. Le valutazioni della quantità si deducono dalle misurazioni, i calcoli dalla quantità, i confronti dai calcoli, e la probabilità di vittoria dai confronti.”
Galilei, che Einstein definisce padre della scienza moderna, si è occupato di guerra in Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali.
L’opera è stata tradotta in italiano da Alessandro De Angelis e pubblicata da Codice edizioni nel 2021. Nell’opera, realizzata in forma dialogica,  la quarta giornata è dedicata al moto dei proiettili. A un certo punto Simplicio si dimostra curioso di sapere perché i proiettili delle armi da fuoco debbano essere considerati diversamente da quelli di archi e balestre e Salvati risponde che “la velocità di una palla sparata da un moschetto o da un cannone è soprannaturale”, cioè più veloce di quella di un corpo in caduta libera:
“Infatti, se una tale palla dovesse cadere da una grande altezza, la sua velocità, a causa della resistenza dell’aria, non aumenterebbe indefinitamente. […] Sono dell’opinione che una palla di moschetto o di cannone, che cade da un’altezza grande a piacere, non produrrà un colpo così forte come se fosse sparata contro un muro da una distanza di poche braccia, cioè a distanza così breve da non essere sufficiente a far rubare l’impeto dalla resistenza dell’aria.”
In questa quarta giornata la matematica mediante una serie di proposizioni o teoremi concorre a spiegare fenomeni fisici che sono l’oggetto della balistica.
Da: il grande Blek
Ormai il progresso scientifico rende possibile l’espansione della guerra in ambito virtuale e nel dominio robotico.
Sono già in atto forme di guerra informatica o cibernetica. Attacchi a internet, diffusione in rete di notizie false, divulgazione di dati militari sensibili ne sono alcuni aspetti. Oltre a ciò ricordiamo i soldati automi dei nostri giorni. L’idea di realizzare un androide di tal genere  sarebbe però non nuova: l’avrebbe concepita  la mente di Leonardo da Vinci, ipotesi che si fonda su studi anatomici e meccanici contenuti nel Codice Atlantico.
Non si combatte soltanto sul campo di battaglia.
Intervengono nei conflitti i calcoli degli economisti. Giuseppe Della Torre, cattedratico di  Economia, distingue fra economia di guerra e guerra economica:
“Anticipo che per economia di guerra intendo l’ambito tradizionale degli studi, legato direttamente al conflitto armato, nei momenti della sua pianificazione e della sua gestione operativa, incluso il tema delle «riparazioni». Per guerra economica intendo le attività non strettamente militari, spesso preliminari o di accompagnamento o successive alle iniziative propriamente belliche. Di conseguenza, i temi delle sanzioni e degli embarghi, che sono sovente parte dell’economia della guerra, ho deciso di inserirli nella guerra economica, perché non strettamente legati al fenomeno bellico.”
La guerra economica contempla oggi, oltre che sanzioni e embarghi, la distruzione di sovrastrutture.
Fino a che punto la razionalità matematica può cogliere la realtà empirica della guerra?
In questo passo di Albert Einstein tratto da On the Method of Theoretical Physics si delinea il controverso rapporto fra matematica e fisica:
“We reverence ancient Greece as the cradle of western science. Here for the first time the world witnessed the miracle of a logical system which proceeded from step to step with such precision that every single one of its propositions was absolutely indubitable – I refer to Euclid’s geometry. […] But before mankind could be ripe for a science which takes in the whole of reality, a second fundamental truth was needed, which only became common property among philosophers with the advent of Kepler and Galileo. Pure logical thinking cannot yield us any knowledge of the empirical world; all knowledge of reality starts from experience and ends in it. Propositions arrived at by purely logical means are completely empty as regards reality. Because Galileo saw this, and particularly because he drummed it into the scientific world, he is the father of modern physics-indeed, of modern science altogether.”
Dunque Einstein riconosce all’antica Grecia il merito di avere dato all’umanità con la geometria euclidea un sistema logico preciso e indubitabile nella consequenzialità del suo svolgersi. Era però necessaria un’altra fondamentale verità, dovuta a Keplero e Galilei: il puro pensiero logico non è in grado di cogliere la complessità esperienziale. Tuttavia, argomenta ancora Einstein, logica ed esperienza risultano complementari, in quanto la ragione elabora una struttura teorica con la quale devono accordarsi i contenuti empirici:
“The structure of the system is the work of reason; the empirical contents and their mutual relations must find their representation in the conclusions of the theory.”
Nella Repubblica Platone esalta l’aritmetica e la geometria come discipline indispensabili sul piano pratico per gli scopi bellici, ma ancor più importanti sul piano teorico come mezzi di elevazione dell’animo verso la verità.
Ci troviamo così di fronte a una visione filosofica in cui la ricerca del vero  non contempla il ripudio della guerra. Quindi  alla matematica viene attribuita un’ambivalenza, anzi un ruolo dicotomico, che risulta comprensibile se si considera il periodo storico in cui Platone  visse, mentre non è accettabile oggi in quanto sappiamo ormai che la matematica può essere utile alla guerra, ma per sua natura non può non comportarne il ripudio. Il vero a cui mediante la matematica giunge col  pensiero assume una dimensione etica. Infatti una verità che non contempli l’etica è una verità falsificata. Si tratterebbe di spingere il genere umano a inverare in sé il connubio di verità ed etica. E in ciò la matematica può dare un contributo di prim’ordine.
Un noto tentativo di integrare i calcoli matematici relativi alla guerra con fattori di ordine sociale è quello di Lewis Fry Richardson in Mathematical Psycology of War.
Matematico pacifista e obiettore di coscienza, Richardson si impegnò nella ricerca di possibili rimedi preventivi all’insorgere di conflitti fra nazioni. Nei suoi sistemi di equazioni si tiene conto anche di elementi non matematici, come, ad esempio, il grado di conflittualità latente fra potenze. La sua teoria dell’equilibrio trova riscontro nell’opera di John Nash, del quale è noto il “dilemma del prigioniero”, sviluppato anche dal matematico americano di origine russa Anatol Rapoport, pacifista al pari di Richardson, cofondatore fra l’altro del Center for Research on Conflict Resolution
Ai conflitti fra nazioni è stata applicata anche la teoria dei giochi.
Nella Prussia dell’Ottocento già George Leopold von Reisswitz e il figlio Georg Heinrich Rudolf Johann avevano inventato il Kriegsspiel, gioco di guerra,  non per giocare alla guerra, ma per farla, simulandola sulla falsariga del gioco degli scacchi.  Nel suo evolversi il gioco di guerra andò svolgendosi con la supervisione di un arbitro.  I moderni wargames possono essere considerati sviluppi del Kriegsspiel. La teoria dei giochi presenta anche un aspetto costruttivo, giacché in base ad essa si può dimostrare che per due competitori è più vantaggioso cooperare piuttosto che combattersi a vicenda. Pertanto alla tradizionale strategia militare dovrebbe subentrare una strategia di altro tipo, orientata all’incontro piuttosto che allo scontro. C’è da augurarsi che anche la Ricerca Operativa si prefigga uno scopo analogo. In definitiva, i modelli matematici non necessariamente risultano adeguati per progettare o prevedere l’andamento di una guerra, mentre si palesano più funzionali alla preparazione alla pace.
I matematici italiani in guerra.
È l’argomento studiato in Laurent Mazliak, Rosanna Tazzioli. Ciascuno secondo il proprio mestiere. Lettera Matematica PRISTEM, 2015, La vittoria calcolata. Hal-01477415. Nel corso della prima guerra mondiale matematici come Vito Volterra, Eugenio Elia Levi, Mauro Picone sono apertamente a favore di un intervento italiano, ma non tutti i matematici li seguono. Vito Volterra, arruolato nell’esercito, non si limita ad assumere la posizione interventista, ma si adopera anche per mettere la matematica al servizio degli strumenti di guerra. Così anche Mauro Picone, che si dedica particolarmente alla balistica in collaborazione con matematici francesi. Dagli scambi epistolari fra matematici si desume entusiasmo patriottico per l’apporto dato alle operazioni belliche. Scrivono Mazliach e Tazzioli a proposito dell’abbandono della ricerca pura:
“L’intento è piuttosto quello di aiutare  concretamente il proprio paese cui si offre il sacrificio dei lavori teorici per consacrarsi alle applicazioni, probabilmente meno profonde, ma di immediato impiego nel conflitto.”
Tuttavia altri matematici erano su posizioni neutrali e ritenevano di dover dedicarsi agli studi teorici. Dalla  ricerca di Mazliach e Tazzioli si desume dunque il riproporsi in forma moderna della dicotomia platonica fra matematica applicata alla guerra e matematica come elevazione dello spirito. Dicotomia che va superata con il ripudio dell’uso della matematica a scopi bellici in seguito all’avvento delle armi nucleari e alla dimostrazione della loro tremenda distruttibilità nel corso della seconda guerra mondiale. Superamento necessario non solo alla matematica, ma alla scienza nel suo complesso.
Ogni pettoruto presidente di nome ma dittatore di fatto, tanto tronfio e eccitato quanto ottuso e stolto, può minacciare il ricorso alle armi nucleari tattiche o peggio con intenzioni ricattatorie.
Contro una tale esaltazione fissata, per usare un’espressione dello psichiatra Ludwig Binswanger, bisognerebbe tener presente di fronte a ogni guerra di aggressione questa presa di posizione di  scienziati russi tradotta dal russo:
“[…] La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia. Per questa guerra non ci sono giustificazioni […] è del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso […] Scatenando questa guerra la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di paese maledetto. Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora, in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri […]”
Ciò nell’anno 2022 dall’avvento dell’era cristiana.
Albert Einstein (1879 – 1955)
Albert Einstein avvertì l’urgente necessità di adoperarsi per la pace nell’era degli armamenti nucleari.
Ne discusse non solo con lo psicoanalista  Sigmund Freud, ma anche col matematico Bertrand Russell. Dalla collaborazione con quest’ultimo scaturì The Russell-Einstein Manifesto. Eccone l’incipit:
“In the tragic situation wich confronts humanity, we feel that scientists should assemble in conference to appraise the perils that have arisen as a result of the development of weapons of mass destruction, and to discuss a resolution in the spirit of the appended draft.”
È necessaria, dunque, una conferenza degli scienziati per valutare i pericoli sorti per lo sviluppo delle armi di distruzione di massa e giungere a una comune risoluzione. Sul genere umano, proseguono gli autori del manifesto, incombe una minaccia di estinzione totale. Non solo una H-bomb può distruggere intere città ben più grandi di Hiroshima, ma gli effetti della ricaduta di particelle radioattive possono anche interessare a lungo termine aree ancor più vaste.  Di qui l’inquietante interrogativo:
“Shall we put an end to the human race, or shall mankind renounce war?”
L’alternativa si pone fra rinunciare alla guerra o porre fine al genere umano. Il manifesto si conclude con la proposta agli scienziati di firmare la seguente risoluzione:
“In view of the fact that in any future world war nuclear weapons will certainly be employed, and that such weapons threaten the continued existence of mankind, we urge the governements of the world to realize, and to acknowledge publicly, that their purpose cannot be furthered by a world war, and we urge them, consequently, to find peaceful means for the settlement of all matters of dispute between them.”
Considerando dunque che l’impiego di armi nucleari minaccia di distruggere l’umanità, i governi dovrebbero rinunciare pubblicamente a mettere in atto i loro propositi con la guerra, impegnandosi a risolvere con mezzi pacifici ogni contrasto.
Giorgio Gallo nel suo saggio Costruzione della Pace: quale ruolo per la matematica? osserva opportunamente che la matematica, come ogni altra disciplina, è da considerare nel suo inverarsi in una “persona che vive in una data società e che con il suo comportamento può su essa influire”.
Di qui la responsabilità dei matematici, chiamati a prendere posizione contro la guerra e ad adoperarsi per la pace. Ce lo ricorda fra gli altri in Mathematics and Peace: Our Responsibilities il matematico brasiliano Ubiratan D’Ambrosio, citato da Michele Emmer del Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma “La Sapienza” nell’articolo La matematica della guerra.
Il destino della civiltà sul pianeta può essere affidato ai matematici?
Mentre l’uomo del nostro tempo è “ancora quello della pietra e della fionda”, come canta Salvatore Quasimodo, ci chiediamo in particolare se i docenti di matematica possano essere tramiti privilegiati di civiltà. Forse più di altre discipline la matematica è in grado di concorrere a plasmare una forma mentis orientata alla pace. L’auspicio è che le giovani generazioni siano formate non solo umanisticamente, ma anche scientificamente e soprattutto matematicamente.
Proposte di approfondimenti
Per approfondire la parte prima: academia.edu/Per_un_lessico_della_politica_pace_e_guerra
Per approfondire la parte seconda: Matematica%26Pace_Articolo.pdf

Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.

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