I vestiti nuovi del re. Cosa significa ritrarre oggi un sovrano
Nell’èra dell’attenzione ridotta, i dipinti devono essere più intelligenti che belli
“Ritratto di Sua Maestà Re Carlo III” di Jonathan Yeo è il primo ritratto ufficiale del re, presentato a Buckingham Palace il 14 maggio a circa un anno dalla sua incoronazione. E’ la prima volta che si intravede l’emergere dell’immagine che re Carlo III vuole veicolare e, come tale, pone una pietra miliare sul modo in cui il sovrano desidera creare la propria eredità visiva. Già, “eredità visiva” cosa significa oggi? Cosa è rimasto dell’arte come strumento iconografico in un tempo di diffusione incontrollata e esasperatamente democratica della creazione di icone? Se tutto è icona la sua sacralità viene automaticamente violata. E questo ritratto ci dice molto, più in generale, sulla rappresentazione dei nostri tempi, lo stile che si adatta alla mancanza di necessità.
Tutta la grande ritrattistica che ha concorso a formare i punti di riferimento della storia dell’arte così come la conosciamo – Lotto, Tiziano, Velázquez, Rembrandt, etc. – proviene da opere su commissione. L’arte veniva creata e poi diffusa come strumento di potere. Chi lo esercitava e aveva interesse a consolidarlo, di fatto la Chiesa e l’aristocrazia, lo faceva commissionando ai migliori artisti del tempo il proprio ritratto. Era un segno di prestigio, di inserimento in un lignaggio ma soprattutto segno di diffusione popolare del proprio status. Con la perdita di potere di Chiesa e aristocrazia, il controllo delle icone è passato nelle mani della stampa e della pubblicità (ora forse nei social, ma questo è un altro discorso). L’invenzione e la rapida diffusione della fotografia hanno reso il ritratto obsoleto, privando l’arte del monopolio dell’iconografia, di fatto liberandola dalla gabbia della funzione a vantaggio della libertà dell’artista. Le commissioni si sono sostitute con il mercato, il tanto vituperato mercato che di fatto ha conferito autonomia creativa all’artista.
Perché allora perseverare in una rappresentazione iconografica di un monarca come se il tempo non fosse passato? Cosa significa dipingere oggi un re? Rimane un retaggio della tradizione, un esercizio stilistico dal sapore nostalgico, snobberia? Come viene percepito?
Brutto o bello che possa sembrarci, questo è fondamentalmente il più tradizionale dei ritratti, un dipinto a olio su scala monumentale di un monarca. Carlo indossa la giubba rossa delle Welsh Guards, il reggimento di cui è stato nominato colonnello nel 1975. La sua uniforme è colma di medaglie, tra cui la vistosa catena dell’Ordine della Giarrettiera. Poi rosso, tanto rosso ovunque. Vale la pena collocarlo nel contesto del “self-fashioning” nella ritrattistica, descritto sinteticamente da Stephen Greenblatt come un “processo in cui l’identità viene costruita come un pastiche di dettagli accuratamente selezionati”. In altre parole, non si vede l’immagine “reale” di una persona, ma una proiezione ideale di un’identità accuratamente orchestrata, che mette in evidenza gli aspetti che si vogliono vedere.
Meno tradizionale è l’inclusione di una farfalla che svolazza sopra la spalla destra del re. Esiste una lunga storia nella ritrattistica per quanto riguarda la collocazione di oggetti come marcatori interpretativi della personalità del soggetto. Un libro diventa simbolo di erudizione e saggezza; la bilancia ovviamente di giustizia, un cane indica fedeltà e fiducia; le perle sono associate a castità e verginità, il melograno più o meno il contrario; la farfalla è simbolo di spiritualità, di rinnovamento, di nuovo inizio, di rinascita.
Se sul piano della composizione l’immagine è fondamentalmente tradizionale, su quello dello stile rappresenta un ottimo esempio di Disrupted Realism (Realismo perturbato), un genere di pittura contemporanea volto a sfidare la tradizione del Realismo, rispondendo alla soggettività e alle perturbazioni dell’esperienza moderna. Particolarmente popolare nel mondo anglosassone, il Realismo perturbato incoraggia l’improvvisazione e spesso fonde rappresentazione e astrazione (Jenny Saville, per citarne una). Questa libertà di ibridare gli stili permette agli artisti di suggerire significati ambigui e variegati in un modo che il realismo diretto non può fare. Quindi un’apertura alle interpretazioni. In un’epoca di distrazione infinita, il “Ritratto di Sua Maestà il Re Carlo III” dimostra che nell’era di internet i dipinti devono essere intelligenti molto più di quanto non debbano essere belli. Ampiamente condiviso sui social media, il ritratto ha scatenato una raffica di discussioni sulle sue implicazioni, è stato il velo di rosso a risuonare più di qualsiasi simbologia reale con letture che vanno dalla passione alla mortalità.
Le più semplicistiche flirtano pericolosamente con il cretinismo che trova nell’anonimato del web la sua dimora d’eccellenza. Vanno forte l’idea che attraverso il rosso l’artista intendesse fare riferimento al sanguinoso passato del colonialismo britannico, il rosso visto come “Arcidemone dell’Inferno”, “Satana”, “bagno di sangue”, “un portale per il regno degli inferi”. Questi i commenti pubblicabili, perché c’è di peggio, e poi il rosso quale riferimento alle cure oncologiche in corso di Re Carlo. L’autore del dipinto è stato colpito da un grave attacco di cuore l’anno scorso, forse il rosso simbolico riflette l’esperienza condivisa dall’artista e dal suo interlocutore? Si è letto. Chiediamo pietà e risparmiamo di aggiungere altro.
Ogni oggetto può essere impregnato di un significato simbolico, e meno ce ne sono in un’immagine, più l’attenzione dell’osservatore vuole essere posta su quell’elemento di spicco, ma questo semplicismo fantasioso che rende tutto così banalmente verificabile restringe l’arte a un cruciverba.
Al netto delle reazioni, rimaniamo comunque nel controllo dell’icona, ma cosa succede quando questo controllo cessa, ovvero cosa succede quando si lascia libertà espressiva all’artista?
Gina Rinehart, conosciuta semplicemente come la donna più ricca d’Australia, ha ordinato alla National Gallery of Australia di Canberra di rimuovere un suo ritratto, ritenendolo poco lusinghiero. La tela, opera dell’artista aborigeno Vincent Namatjira, è parte della mostra “Vincent Namatjira: Australia in Colour”, dove fa parte di una griglia di ventuno ritratti che raffigurano personaggi noti che hanno influenzato la politica e la cultura australiana, tra cui re Carlo III (nella foto). Le opere sono eseguite con i tipici colori vivaci e la figurazione piatta e anticonformista dell’artista, che in questo caso ha conferito a Rinehart (ereditiera mineraria e nota filantropa con un valore di 22 miliardi di dollari) un doppio mento, una bocca rovesciata e occhi fuori dalle righe.
“Io dipingo il mondo come lo vedo”, ha scritto Namatjira, “la gente non deve necessariamente apprezzare i miei dipinti, ma spero che si prenda il tempo di guardare e pensare: ‘Perché questo aborigeno ha dipinto queste persone potenti? Cosa sta cercando di dire?’”.
Altro caso, la rivista Tatler ha svelato la copertina del numero di luglio: un ritratto di Sua Altezza Reale Kate Middleton, la Principessa del Galles, realizzato dall’artista britannico-sambiana Hannah Uzor. L’immagine è il terzo ritratto di un reale commissionato da Tatler. La prima commissione è andata all’artista nigeriano Oluwole Omofemi nel 2022, in onore del giubileo di platino della Regina Elisabetta. Il secondo, realizzato dall’artista trinidadiana Sarah Knight, era il ritratto di re Carlo III (nella foto). La risposta online, come quella al primo ritratto ufficiale del sovrano, non è stata molto lusinghiera.
“Questo ritratto è orribile”, “un ritratto davvero scadente che non riesce assolutamente a rappresentare la bellezza e l’eleganza della Principessa del Galles”, “i ritratti diventano sempre più strani. Questo è piuttosto amatoriale, non assomiglia a Sua Altezza Reale”.
Abbiamo riflettuto sulle scelte, coraggiose non fino in fondo, dell’attuale Biennale di Venezia, perfettamente inscritta in un ripensamento generale dell’egemonia occidentale dei codici artistici. Offrire spazio e opportunità a voci e stili di culture non occidentali sembra opportuno finché se ne fa un discorso politico e speculativo, inserendoli in una struttura consolidata. Altro discorso è quando si toccano le icone, e cioè lo specchio della nostra identità collettiva acquisita nel tempo, le nostre aspettative e la nostra sicurezza che differenzia “noi” da “loro”. Questa la differenza tra includere e accettare.
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