Davvero Salerno è stata capitale d’Italia?

In attesa che Roma venisse liberata, ottant’anni fa il governo italiano collocava provvisoriamente la capltale a Salerno. Come andò a finire? Ce lo spiega l’articolo “Salerno capitale” di Gigi di Fiore, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Il contesto. La battaglia di Cassino era nella sua fase più sanguinosa. Era il febbraio del 1944 e i tedeschi resistevano da un mese. Gli angloamericani, sbarcati a Salerno il 9 settembre del 1943 e poi ad Anzio il 22 gennaio del 1944, decisero di consegnare al governo “co-belligerante” del maresciallo Pietro Badoglio i territori liberati nel Sud d’Italia. Un atto di buona volontà, anche se quel Regno d’Italia dimezzato restava sotto la tutela dei liberatori.

Trasloco. In attesa di Roma, liberata solo il 4 giugno, fu deciso lo spostamento del governo a Salerno. Dopo Brindisi, sarebbe diventata la capitale provvisoria dell’Italia da ricostruire. Nel decreto ufficiale, Badoglio scrisse che “tutti i territori della Penisola, a sud dei confini settentrionali delle province di Salerno, Potenza e Bari, ritornano all’amministrazione italiana“.

Per motivi strategici non erano incluse Lampedusa, Pantelleria e Linosa, ma c’erano la Sicilia e la Sardegna. L’Italia era divisa in due e Napoli, con il suo porto, era indispensabile base logistica per i rifornimenti e le truppe impegnate a Cassino: per questo gli americani esclusero che potesse diventare la capitale provvisoria. L’unica ipotesi realistica restava dunque Salerno.

Stanziati. Uffici, documenti e personale del governo partirono da Brindisi tra il 3 e il 5 febbraio. Non fu una fuga nascosta, come quella del 9 settembre 1943 da Roma alla volta del Sud. Stavolta, tutto avvenne alla luce del sole. E con la benedizione alleata. La colonna in partenza era formata da 29 carri merci, che si mossero da Brindisi, Taranto, Bari e Lecce dove, per 5 mesi, si era concentrato il piccolissimo Regno del Sud. A Salerno si trasferirono 380 persone. Al suo arrivo, il 10 febbraio, Badoglio si affacciò dal balcone del municipio per ringraziare la folla numerosa che di sotto applaudiva e inneggiava al governo.

Lusso. La prima riunione del Consiglio dei ministri si tenne l’11 febbraio nel Salone dei marmi del Palazzo di città, diventato sede del governo. Tra i ministri, il salernitano Giovanni Cuomo, professore settantenne, responsabile dell’Educazione nazionale. E poi un salernitano di adozione: Raffaele Guariglia, napoletano di nascita, 55enne dalla brillante carriera di ambasciatore. Proprio la villa di Guariglia, a Vietri sul Mare, fu una delle sistemazioni trovate per il re Vittorio Emanuele III e la regina Elena.

L’altra fu Villa Episcopio, di proprietà del duca Di Sangro, ex sede vescovile di Ravello. Cappello a larghe tese in testa, il sovrano, stanco e a disagio, andava spesso a pescare in barca. La regina suonava il pianoforte e ascoltava la messa nel vicino convento di Scala. Ogni giorno, alla villa arrivava una cassetta di frutta e verdura, omaggio del commissario all’alimentazione, Alfonso Menna, futuro sindaco di Salerno. Ricorderà Menna: “Facevo spesso accompagnare alla cassetta un mazzetto di fiori, per la regina“.

Miseria. Gran parte dei palazzi pubblici salernitani fu requisita dal governo. Un terzo degli edifici e delle case era peraltro stato distrutto dai bombardamenti alleati, che avevano ucciso più di 400 persone. Molti erano sfollati, a Salerno erano rimasti solo 55mila abitanti, stremati dalla fame e dalle malattie. Mancavano pane, pasta, latte, medicine e tutto costava carissimo, visto che impazzava la borsa nera. Il giornale Libertà (uno dei quattro giornali cittadini) denunciava: “La gente è moralmente avvelenata dal facile guadagno“. E il quotidiano L’ora del popolo aggiungeva: “Salerno non è mai stata così sporca“.

Tensioni. Nell’ufficio del sindaco si sistemò Badoglio; nella Sala Giunta il ministero di Cuomo, rinominato Pubblica istruzione. E poi, a Palazzo Natella i ministeri dell’Agricoltura, dei Lavori pubblici e gli uffici di collegamento dei ministeri della Guerra e della Marina; a Palazzo Barone il ministero degli Esteri e a Palazzo di Giustizia il ministero di Grazia e Giustizia e la Cassazione. Per mancanza di edifici, alcuni uffici furono dislocati a Napoli, altri a Vietri, altri ancora divisi fra Taranto, Bari e Lecce. Ma la dispersione non aiutava. Badoglio provò a far ospitare il nuovo potere nel seminario regionale Pio XI. Ma trovò l’opposizione dell’arcivescovo Nicola Monterisi, molto amato in città per essere rimasto al suo posto sotto le bombe.

Tra Badoglio e Monterisi fu subito scontro. I due ebbero un duro colloquio. “Ma lei è italiano?“, urlò Badoglio. E l’arcivescovo gli rispose con una stoccata: “Non permetto che lo metta in discussione. Quando il popolo è rimasto solo e stremato dalla guerra, io, vecchio di 76 anni, ero al mio posto a conforto e sollievo della gente. Lei è scappato a Pescara“. Il seminario non fu requisito.

Benvenuti. E i salernitani, come accolsero i nuovi governanti? Secondo L’ora del popolo: “I salernitani sentono oggi tutto l’orgoglio del compito che assume la nostra città“.

Molti vedevano in quell’arrivo una speranza per superare la fame e mettere fine alla guerra. Il governo Badoglio in effetti da lì affrontò le prime emergenze di una nazione in ginocchio: il razionamento alimentare, la riattivazione delle vie di comunicazione, ma anche la riapertura dell’università a Salerno, chiusa 83 anni prima. La prese a cuore il ministro Cuomo, e a Palazzo Pinto il 9 marzo 1944 si inaugurò il Magistero. E vi si iscrissero 400 futuri maestri.

Governo di unità nazionale. Salerno rimase capitale fino al 15 agosto 1944. Sei mesi, poi il governo fu trasferito nella Roma liberata. Furono tre i governi “salernitani”: due guidati da Badoglio e uno da Ivanoe Bonomi. A Salerno si misero le basi dello Stato repubblicano. L’attività politica, risorta tra Napoli e Bari, portò al governo di unità nazionale, il secondo guidato da Pietro Badoglio. Fu la “svolta di Salerno”, che rinviava alla fine della guerra la scelta istituzionale tra repubblica e monarchia. Il re non abdicò, ma il figlio Umberto II sarebbe diventato, a Roma, luogotenente del regno.

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