Dibattito artificiale, soldi reali. Lo stato dell’AI in Europa

Mentre Stati Uniti e Cina investono miliardi per costruire infrastrutture tecnologiche adatte a istruire nuovi modelli di intelligenza artificiale, il dibattito nel Vecchio continente è focalizzato soltanto all’etica e le spese per le nuove frontiere tecnologiche si riducono a briciole

In principio era il verbo. E il verbo, ovvero il linguaggio formale utilizzato come vettore intergenerazionale della conoscenza, era un sostanziale monopolio della specie nota come homo sapiens. Ma un bel giorno, in un garage della California, il verbo si fece software, e venne ad abitare in mezzo ai nostri smartphone. Non l’avessero mai fatto, questi novelli Stranamore Digitali. Reato di lesa maestà antropologica, che mette a repentaglio le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, hanno subito pensato gli Europei Analogici, da questo lato dell’Atlantico, che infatti oggi offrono alle massime istituzioni religiose, prima (se non invece) di ingegneri ed economisti, il pulpito globale per discettare sul tema. E mentre in Usa e in Cina si investono miliardi per costruire infrastrutture tecnologiche adatte all’enorme potenza di calcolo necessaria a istruire i modelli linguistici di intelligenza artificiale generativa, in Europa il dibattito si è subito impantanato su come proibire prima (come dimenticare l’arcigno intervento dell’Autorità che vietò immediatamente, unica al mondo, l’uso di ChatGPT in Italia?) e regolamentare poi (con un ponderoso e cervellotico AI Act, strutturato per gerarchia di divieti).
 

E spiegare, favorire, investire? Macché. I fiumi di parole su etica e morale, su leggi e proibizioni, si sono finora trasformati solo in uno smunto rigagnolo di denaro, per lo più pubblico, distribuito a pioggia per fare un po’ di ammuina tecnologica. Mentre Usa e Cina investono circa 100 miliardi di dollari nel 2024 sul comparto AI, l’Europa si ferma circa a un ventesimo di tale cifra. L’Italia, che spende 200 miliardi di superbonus per rifare il trucco alle villette private, mette briciole trascurabili sull’AI. Ma in compenso organizza decine di convegni su “AI ed etica”, dedicando addirittura il G7 al tema. Sebbene le preoccupazioni etico-legali, per quanto alquanto premature visto il livello tuttora primitivo di queste tecnologie, siano rilevanti, è cruciale che l’Europa e l’Italia non perdano di vista un aspetto altrettanto importante: il potenziale impatto economico positivo dell’AI e la necessità di investimenti infrastrutturali adeguati. Senza un’adeguata attenzione a queste componenti, l’Europa rischia di perdere l’ennesimo treno di innovazione tecnologica, compromettendo così il proprio futuro economico e la competitività a livello globale. Lo ha ricordato il governatore Fabio Panetta nelle sue considerazioni finali, con un appello a far nascere un’Europa in grado di affrontare le grandi sfide infrastrutturali del nostro tempo, purtroppo ampiamente disatteso dalle urne. Le gride manzoniane di tono vagamente luddista contenute nel disegno di legge del governo sull’intelligenza artificiale non vanno certo in quella direzione, quando pretendono di limitare l’uso dell’AI nelle attività professionali alle sole funzioni di ausilio e supporto, di fatto rendendo illegali in Italia gli “autonomous intelligent agent” prima ancora che vengano compiutamente sviluppati.
 

La produttività è un’area in cui l’AI può avere un impatto particolarmente forte: per quanto sia difficile stimare in anticipo gli effetti sull’incremento della produttività del lavoro, gli analisti sono concordi nel prevedere effetti positivi nei paesi a più elevato livello di digitalizzazione e con la maggior quota di skill digitali (l’Italia non è tra questi) e sulle funzioni organizzative basate sull’uso del linguaggio naturale (marketing, vendite, gestione clienti, sviluppo software, ma anche ricerca e sviluppo, automazione dei processi, ottimizzazione delle supply chain). Ignorare questi aspetti significa non solo rinunciare a opportunità di crescita economica, ma anche lasciare che altre regioni del mondo, come gli Stati Uniti e la Cina, prendano il sopravvento. In una politica italiana che si riempie la bocca con sproloqui sulla sovranità, è ancora insufficiente la consapevolezza che l’intero continente resta quasi completamente dipendente dai server e dalle piattaforme software made in Usa, per di più sotto il controllo di grandi oligopoli privati. Per realizzare appieno il potenziale economico dell’AI, l’Europa deve anche investire nelle infrastrutture necessarie. Questo include non solo l’hardware, come data center avanzati e reti di comunicazione ultra-veloci, ma anche il software e le piattaforme digitali che permettono lo sviluppo e l’implementazione di soluzioni AI. L’Europa ha solo il 16 per cento di quota delle capacità di calcolo globale dei data center, contro il 53 per cento degli USA (fonte: Synergy Group).
 

L’Italia ha pochissimi data center (erano stimati in circa 200 nel 2023, contro gli oltre 5.500 degli Usa), per lo più precocemente invecchiati, e quasi tutti inadatti a supportare le potenze di calcolo necessarie per l’AI, quando il workload globale dei data center è raddoppiato da 200 TWh nel 2019 a 400 TWh nel 2023 ed è previsto arrivare a 1100 TWh nel 2030 (fonte: Goldman Sachs, 2024). Il vecchio continente non dispone della leadership su alcuno dei layer tecnologici fondamentali nella catena del valore dell’AI, dai chip, ai server, ai data center; dalle piattaforme, alle reti neurali, ai modelli linguistici, alle applicazioni. L’Europa ha la rete di distribuzione elettrica più vecchia del mondo, e rimane strutturalmente in deficit energetico. Inoltre, è essenziale investire nell’educazione e nella formazione di una forza lavoro capace di sviluppare, gestire e utilizzare queste tecnologie. Senza un piano di formazione e sviluppo delle competenze adeguato, l’Europa non sarà in grado di sostenere l’adozione di tecnologie avanzate come l’AI, sulle quali l’Italia è ultima in Europa, insieme alla Grecia, per quota di lavoratori dotati di skill adeguati. Ciò richiede una collaborazione tra governi, università e settore privato per creare programmi educativi mirati e opportunità di sviluppo professionale. Per evitare di perdere l’ennesimo treno dell’innovazione, l’Europa deve trovare un equilibrio tra la regolamentazione etica e la promozione dell’innovazione tecnologica. Questo significa adottare un approccio regolamentare che protegga i diritti fondamentali senza soffocare la creatività e l’imprenditorialità. Significa anche riconoscere l’importanza degli investimenti infrastrutturali come prerequisito per la competitività economica. Il verbo, per farsi software, ha comunque bisogno di parecchio hardware. Altrimenti rimane chiacchiera, questa sì, artificiale.

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