Galilei agli esami di maturità

La scodella di Galilei e altri quesiti di matematica galileiana alla maturità scientifica per festeggiare i 400 anni del cannocchiale.

Il 2009 fu l’anno galileiano: 400 anni dall’utilizzo astronomico del cannocchiale (1609). Mi parve che il modo migliore di ricordare agli studenti la figura di Galileo Galilei fosse quello di fargli posto  nei quesiti delle tracce di matematica degli esami di Stato. In effetti, una “strategia” ministeriale che aveva una lunga tradizione per il tema d’italiano e che per la matematica avevo proposto già nel 2006 per il centenario della nascita di Bruno de Finetti. Galilei fu in tal modo presente alla maturità scientifica con la sua scodella. Ma non solo!

Il quesito faceva parte di un insieme di cinque domande che svolgevano la funzione di anchor-item. Questioni basilari, cioè, proposte a tutti gli indirizzi, sia di ordinamento che sperimentali: concetto di funzione, solidi platonici, forme indeterminate, calcolo combinatorio, principio di Cavalieri. Tutte questioni care a Galilei. Potremmo dirle di matematica galileiana.

Vediamole in dettaglio:

  • Sono dati gli insiemi A=left {1,2,3,4 right } e B=left { a,b,c right }. Tra le possibili applicazioni ( o funzioni ) di A in B, ce ne sono di suriettive? Di iniettive? Di biiettive?
  • “Esiste solo un poliedro regolare le cui facce sono esagoni”. Si dica se questa affermazione è vera o falsa e si fornisca una esauriente spiegazione della risposta.
  • Si considerino le seguenti espressioni: frac{0}{1}; frac{0}{0}; frac{1}{0};0^{0}

A quali di esse è possibile attribuire un valore numerico? Si motivi la risposta.

  • Si dimostri l’identità  binom{n}{k+1}=binom{n}{k}frac{n-k}{k+1} con n e k  naturali e n > k
  • Nei “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze”, Galileo Galilei descrive la costruzione di un solido che chiama scodella considerando una semisfera di raggio r e il cilindro ad essa circoscritto. La scodella  si ottiene togliendo la semisfera dal cilindro. Si dimostri, utilizzando il principio di Cavalieri, che la scodella  ha volume pari al cono di vertice V in figura.

Perchè matematica galileiana?

Ci sono i solidi platonici, quelli che Keplero utilizzò per descrivere l’Universo:

«….Fra le orbite di Saturno e Giove ho messo il cubo, fra quelle di Giove e Marte il tetraedro, fra Marte e la Terra il dodecaedro, fra la Terra e Venere l’icosaedro, e lasciate che vi mostri….fra Venere e Mercurio il dodecaedro» e che Galileo incluse tra i caratteri nei quali è scritto il grande libro della Natura.

Ci sono il concetto di funzione e quello di infinito, il concetto di limite, gli indivisibili e il calcolo combinatorio. Sono argomenti tutti collegati.

Il concetto di funzione

Si può trovare questo concetto quasi ovunque nelle pagine dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze,  il libro in cui Galileo fondò la meccanica moderna. Galileo esprime le sue relazioni funzionali verbalmente e con il linguaggio delle proporzioni. Ad esempio: «Se un mobile scende, a partire della quiete, con moto uniformemente accelerato, gli spazi percorsi da esso in tempi qualsiasi […] stanno tra di loro come i quadrati dei tempi» e ancora: «I tempi impiegati a scendere su piani diversamente inclinati, purché però abbiano la medesima elevazione, stanno tra loro come le rispettive lunghezze».

Il linguaggio – scrive Morris Kline – mostra chiaramente che Galileo sta parlando di funzioni e mancava soltanto un piccolo passo per scrivere questi enunciati in forma simbolica. Poiché il simbolismo algebrico si stava allora estendendo, l’enunciato di Galileo sugli spazi descritti da un corpo che cade venne presto scritto nella forma s=kt2 e quello sui tempi di discesa nella forma t=kl.

Gli insiemi infiniti

Galileo dà il primo argomento serio per fornire una giustificazione al tabù dell’infinito attuale: se si fa corrispondere a ogni naturale n il suo quadrato n2, si definisce una biiezione tra l’insieme N e un suo sottoinsieme. Ma, dice Galileo, se ci fossero “tanti” quadrati quanti sono i numeri naturali, ciò violerebbe l’assioma che “il tutto è più grande della parte”; quindi non si può dire che i numeri naturali costituiscano un insieme! Galileo conserva il tabù aristotelico e non coglie quella distinzione che sarà fondamentale tra inclusione e equipotenza. Non sfugge al capestro:

«O, s’io mi sento in gamba esser ben destro
A varcar quel confin, perché al mio piede,
Poni il peripatetico capestro?»

Ma la definizione che ancora oggi si dà di insieme infinito l’ha ispirata proprio lui: un insieme E è infinito se esiste una biiezione tra E e un sottoinsieme A di E distinto da E.

La scodella

«Come si possa mai capire che un sol punto sia eguale ad una linea, vedendo di non ci poter far altro per ora, procurerò di quietare o almeno temperare una improbabilità con un’altra simile o maggiore, come talvolta una maraviglia si attutisce con un miracolo. E questo sarà col mostrarvi due superficie eguali, ed insieme due corpi pur eguali e sopra le medesime dette superficie, come basi loro, collocati, andarsi continuamente ed egualmente, e queste e quelli, nel medesimo tempo diminuendo, restando sempre tra di loro eguali i loro residui, e finalmente andare, sì le superficie come i solidi, a terminare le lor perpetue egualità precedenti, l’uno de i solidi con l’una delle superficie in una lunghissima linea, e l’altro solido con l’altra superficie in un sol punto, cioè, questi in un sol punto, e quelli in infiniti».

Galilei ha spesso pensato (qualcuno scrive dal 1610 in poi) alla composizione  del continuo quindi agli infiniti, indivisibili e vacui. A questi temi non dedicherà uno scritto specifico, ma solo una “parentesi” della Giornata Prima dei Discorsi intorno a due nuove scienze a partire dal paradosso della scodella, ovvero: “Come si possa mai capire che un sol punto sia eguale ad una linea”.

Paradosso della scodella che porta il suo nome, ma qualcuno la dice di Luca Valerio (1552- 1618), accademico Linceo e professore al Collegio Romano sulla scorta di quanto egli stesso scrive: «Lasceremo per ora la dimostrazione, sì perché, volendola noi vedere, la troveremo nella duodecima proposizione del libro secondo De centro gravitatis solidorum posta dal Sig. Luca Valerio, nuovo Archimede dell’età nostra, il quale per un altro suo proposito se ne servì, sì perché nel caso nostro basta l’aver veduto come le superficie già dichiarate siano sempre eguali, e che, diminuendosi sempre egualmente, vadano a terminare l’una in un sol punto e l’altra nella circonferenza d’un cerchio, maggiore anco di qualsivoglia grandissimo, perché in questa consequenza sola versa la nostra meraviglia».

Infine il calcolo combinatorio che, a parte le notazioni introdotte più di un secolo dopo, Galileo aveva in particolare stima.

Italo Calvino così ne parla nelle sue Lezioni Americane:

“«Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati nè saranno se non di qua a mille dieci mila anni? E con quale facilità?

Con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta».[…] Galileo vedeva nella combinatoria alfabetica («i vari accozzamenti di venti caratteruzzi») lo strumento insuperabile della comunicazione. Comunicazione tra persone lontane nello spazio e nel tempo, dice Galileo; ma occorre aggiungere comunicazione immediata che la scrittura stabilisce tra ogni cosa esistente o possibile […], il ragionamento istantaneo, senza passaggi: « Se il discorrere circa un problema difficile fosse come il portar pesi, dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facessero più che un solo; ma il discorrere è come il  correre, e non come il portare, ed un caval barbero solo correrà più che cento frisoni».

«Il discorrere è come il correre»: questa affermazione è come il programma stilistico di Galileo, stile come metodo di pensiero e come gusto letterario: la rapidità, l’agilità del ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono per Galileo qualità decisive del pensar bene.”

Il quesito sulla scodella risultò essere il meno affrontato. Il più difficile.

Al quesito della scodella tentò di rispondere poco più di un allievo ogni dieci. Un risultato disastroso anche in termini di qualità delle risposte. E c’è da dire che anche i docenti lo ritennero difficile e qualcuno addirittura attinente a questione “marginale”.

Si notò allora, a margine dell’Indagine Matmedia, quanto le questioni di geometria solida fossero sempre meno gradite principalmente ai docenti.  Una conoscenza, dunque, che si correva il rischio di perdere, insieme ad altre, in una sorta di compensazione con altre ancora che forse si guadagnavano. Si osservò in definitiva, una generale perdita nelle abilità di risoluzione  dei problemi, specie se riguardanti questioni di visualizzazione spaziale e di determinazione di luoghi geometrici, e si perdeva  in ricchezza di significato. I nostri alunni sembravano disposti ad accettare sempre di più ricette su “come si fa” piuttosto che essere portati a considerare i perché e i ragionamenti sottesi. Come si calcola la derivata di una funzione o come si calcola un integrale sembravano riscontrare negli alunni maggiore disponibilità che ascoltare spiegazioni di cos’è una derivata o un integrale e del perché si fa così.

Ancora in quell’occasione si notò quanto l’Analisi fosse uno strumento potentissimo e che i professori agli esami di stato avrebbero voluto solo Analisi, in particolare lo studio di una funzione.

Ritornando a Galileo, egli compare ancora in un quesito del 2011.

Eccolo:  “In una delle sue opere G. Galilei fa porre da Salviati, uno dei personaggi, la seguente questione riguardante l’insieme N dei numeri naturali ( “i numeri tutti”). Dice Salviati: «….Se io dirò, i numeri tutti, comprendendo i quadrati e i non quadrati, esser più che i quadrati soli, dirò proposizione verissima: non è così?». Come si può rispondere all’interrogativo posto e con quali argomentazioni?

È la questione degli insiemi infiniti equipotenti discussa sopra. Anche per questo quesito i risultati furono molto deludenti.

RIFERIMENTI

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Vi racconto la Venere di Milo

La bellezza per antonomasia. La classità per definizione. Il capolavoro scultoreo per eccellenza.Questo (e tanto altro) è la Venere di Milo, l’eccezionale statua greca conservata al Louvre.
È una delle sculture più famose del mondo, un capolavoro di età ellenistica, ma non tutti ne conoscono la storia a luci e ombre e le infinite reinterpretazioni fatte dagli artisti.

Tutto ha inizio l’8 aprile del 1820 quando Yorgos Kentrotas, un contadino greco che abitava sull’isola di Milo, nell’arcipelago delle Cicladi, colpì con la sua pala qualcosa di molto duro.

Stava cercando pietre per rinforzare la recinzione del suo campo quando dal terreno spuntò fuori un busto di marmo pario senza braccia, del tutto inutile per le necessità del contadino.
Il caso volle che si trovasse da quelle parti anche Olivier Voutier, un giovane ufficiale della marina francese appassionato di archeologia, la cui nave Chevrette era ormeggiata sull’isola. L’uomo passeggiava tra i ruderi dell’antico teatro greco, incantato dagli innumerevoli frammenti di statue che emergevano dal terreno. Ma vedendo il contadino, a poca distanza da lui, fermo a osservare qualcosa nella buca che stava scavando, si avvicinò per curiosare.

Ecco come Voutier ricorda quel momento: “Aveva appena scoperto la parte superiore di un statua in cattive condizioni e, non potendo essere utilizzata per la sua costruzione, stava per ricoprirla di macerie. Con la punta di qualche piatto l’ho fatta invece uscire. Non aveva le braccia, il naso e il nodo di i capelli erano spezzati, erano terribilmente sporchi. Tuttavia, a prima vista, si riconosce un pezzo notevole. Ho esortato il mio uomo a cercare l’altra parte. Presto si è imbattuto in essa. Poi ho fatto assemblare la statua. Chi ha visto la Venere di Milo può immaginare il mio stupore!”.Ed ecco come ha disegnato quel ritrovamento.

La scoperta della statua suscitò grande entusiasmo anche nell’ammiraglio Jules Dumont d’Urville che si fece subito avanti per acquistarla. Ma Pierre-Henry Gauttier du Parc, il capitano della Chevrette, si oppose a quella trattativa rifiutandosi di trasportare un manufatto tanto fragile.

A quel punto il contadino pensò bene di cercare un nuovo acquirente in un monaco ortodosso che intendeva offrirla a un funzionario ottomano del sultanato di Costantinopoli. D’Urville allora scrisse immediatamente all’ambasciatore di Francia a Costantinopoli: non poteva lasciarsi sfuggire un pezzo così pregiato! L’ambasciatore acconsentì all’acquisto, anzi diede l’ordine di comprare la scultura a qualsiasi prezzo.

Il suo interesse però non era tanto di tipo artistico, ma smaccatamente politico. Quella statua, un raro esemplare greco originale e non una copia romana, alta poco più di due metri, avrebbe compensato lo smacco subito dalla Francia che, dopo il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva dovuto restituire ai vari stati italiani la Venere Medici, l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte, alcuni dei capolavori classici sottratti con le spoliazioni napoleoniche.
Grazie alla Venere di Milo, per altro, Parigi poteva tornare a competere con Londra – che da alcuni anni si era appropriata dei marmi del Partenone – e con Monaco di Baviera, la cui Gliptoteca conservava i preziosi frontoni provenienti dal tempio di Afaia, sull’isola greca di Egina.
Dopo estenuanti trattative con il monaco e con la comunità dell’isola di Milo i francesi finalmente si aggiudicarono la statua e la imbarcarono alla volta della corte di re Luigi XVIII che nel 1821 ne fece dono al Louvre.

L’azione di propaganda iniziò immediatamente: la statua, inizialmente attribuita a Fidia o a Prassitele (ma oggi datata al 150-125 a.C.) fu esposta al centro di una grande sala del Louvre e i calchi vennero inviati alle Accademie di Belle Arti affinché i giovani studenti potessero copiarla. Doveva diventare a tutti i costi un simbolo universale di bellezza.Per questo si aprì subito il dibattito sulla possibilità di completarla con due nuove braccia, come si usava fare all’epoca. Ma le ipotesi erano contraddittorie. Teneva una mela in mano? Scriveva su una lapide? Si guardava allo specchio?

Alla fine prevalse la decisione di lasciare la statua com’era (a parte l’aggiunta del piede sinistro, successivamente rimosso): la mancanza delle braccia, in fin dei conti, non ne diminuiva né il valore né la bellezza, anzi faceva convergere tutta l’attenzione sul raffinatissimo panneggio, sul busto levigato e su quel volto dall’espressione imperturbabile.

Per altro non era neanche certo che si trattasse di Venere: quell’identificazione era stata fatta da d’Urville e mai più rimessa in discussione. In verità una porzione di basamento originale, misteriosamente scomparso, portava delle iscrizioni collegabili forse alla statua di Poseidone ritrovata nello stesso luogo nel 1877, di cui la figura femminile avrebbe potuto essere la moglie  Anfitrite.

Ma è chiaro che una “Anfitrite di Milo” non avrebbe colpito l’immaginario collettivo come una “Venere di Milo” (che per essere precisi avrebbe dovuto chiamarsi Afrodite, alla greca). E d’altra parte la posa e la composizione somigliavano molto a quelle della Venere di Capua del Museo Archeologico di Napoli (copia romana di un originale greco rinvenuta nel XVIII secolo). Dunque, meglio lasciare tutto com’era…

La vera incoronazione come dea della bellezza arriverà poco tempo dopo, quando gli artisti iniziarono a prendere la Venere di Milo come modello per le loro opere d’arte. Il primo in assoluto è stato Eugène Delacroix: la sua Libertà che guida il popolo del 1830, infatti, si ispira alle Venere di Milo per quel busto nudo, per la gamba sinistra protesa in avanti e per il panneggio della veste.Questo omaggio però non bastò a fare apprezzare quella figura: le braccia robuste, le guance arrossate e i peli sotto le ascelle facevano somigliare la donna a una massaia piuttosto che a una dea!

Del 1841 invece, è questo dipinto intimista del danese Christoffer Wilhelm Eckersberg. È dedicato alla toilette del mattino ma quella schiena con i fianchi cinti dal tessuto è un esplicito riferimento alla Venere di Milo, come si può notare osservando il retro della statua.

Assieme alla fama purtroppo cominciano anche i pericoli. Nel 1870-1871, con l’infuriare a Parigi della guerra franco-prussiana, la Venere di Milo viene imballata in una cassa di legno e conservata in un luogo sicuro.

Al suo rientro a Louvre il curatore del museo iniziò degli studi approfonditi sulla statua scoprendo, tra le tante, che non si è spezzata in seguito a un incidente né è stata tagliata: la Venere è stata realizzata fin dall’inizio unendo due blocchi di marmo.
A partire dagli anni Ottanta viene ritratta più volte nella sala in cui era stata collocata, come presenza divina nella penombra del museo.

Intanto diventa oggetto di studio anche da parte degli artisti più insospettabili, come Cézanne e van Gogh.

La celebrità della scultura è testimoniata pure da alcuni dipinti che ne raffigurano delle miniature in ambienti domestici…

… o nell’atelier di una pittrice.

Ebbe grande diffusione anche il solo torso. Possiamo vederlo sia nello studio di uno scultore che in un soggiorno borghese.

Tutto cambia con l’arrivo del Surrealismo. Dopo cento anni dalla sua scoperta, quell’icona di bellezza, quel frammento di perfezione, perde per la prima volta la sua aura divina e diventa l’oggetto degli esperimenti espressivi più estremi.
Per primo inizia René Magritte con Les menottes de cuivre (Le manette di rame) del 1931. Si tratta di una copia della statua parzialmente ridipinta in rosa e blu, con la testa lasciata in bianco. Il titolo, ideato da André Breton, allude ironicamente all’assenza delle mani. È un’operazione dadaista simile ai baffi sulla Gioconda fatti da Duchamp nel 1919. E tuttavia Magritte ci aveva visto giusto: le statue greche erano colorate in modo da sembrare corpi veri.

Il 1936 è invece l’anno della Venere a cassetti di Salvador Dalì. Riprodotta in infinite varianti, è un’opera che si inoltra nel mondo della bellezza carnale, dell’eros e dei suoi segreti, rappresentati dai cassetti (un simbolo tratto dalla psicanalisi di Freud) aperti sul corpo della statua.

Nello stesso periodo si occupa della scultura anche Man Ray. La sua Venere restaurata del 1936 (un busto senza drappo sui fianchi) e la testa di Venere del 1937 sono una perfetta dimostrazione dello spirito iconoclasta che muoveva dadaisti e surrealisti. Stringere tra corde o catturare in una rete un pezzo di statua significa trattare quei capolavori come oggetti qualsiasi, oltre a suggerire simili fantasie erotiche sul corpo femminile.Ma in fondo non occorre cercare un significato. La testa di Venere dentro una rete da pesca è “bella come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, per usare le parole del poeta Lautréamont tanto care ai Surrealisti.

Tuttavia la dissacrazione della Venere di Milo non è stata un’invenzione di questi artisti. Già a partire dagli anni Dieci ci avevano pensato i pubblicitari a trasformare la dea della bellezza in testimonial più o meno ironico dei nuovi consumi di massa. Dai corn-flakes all’aspirina, dai corsetti alle stilografiche, ogni occasione era buona per accostare il proprio prodotto alla suprema perfezione della dea greca.

Ma nel 1939 la Venere è di nuovo in pericolo. Con l’avanzata delle truppe tedesche verso la Francia occorreva svuotare il Louvre dai suoi capolavori e spostarli in un luogo sicuro. Il direttore Jacques Jaujard chiuse il museo il 25 agosto 1939 (ufficialmente per manutenzione) e organizzò il trasloco di oltre 4000 opere – sia dipinti che sculture – chiudendole dentro 1862 casse di legno trasportate da 203 camion diretti verso il castello di Chambord.

Il 16 agosto 1940 i nazisti entrarono al Louvre. Con grande disappunto scoprirono che era completamente vuoto. Ma furono lieti di trovare la Venere di Milo ancora al suo posto. Quello che non sapevano è che la statua che stavano ammirando era una volgare copia in gesso.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Venere, quella vera, torna al suo posto. E in poco tempo ritorna al centro dell’interesse degli artisti, in quella sorta di continuo ritorno al passato, specialmente quello classico, che caratterizza l’arte occidentale.

Nel 1962 se ne occupa Niki de Saint Phalle con una delle sue azioni artistiche da poco inaugurate: realizza una copia cava della Venere, fissa al suo interno dei sacchetti di vernice e poi la colpisce a distanza con un fucile. La statua a quel punto inizia a ricoprirsi di colore, ma in un modo che non può essere controllato dall’artista. È un attacco all’arte antica ma contemporaneamente è una rigenerazione, nata da un gesto di estrema violenza.

Intanto i traslochi non sono finiti. Nel 1964 la statua viene spedita addirittura a Tokyo, in occasione delle Olimpiadi. Ma il lungo viaggio di 33 giorni sul transatlantico francese Vietnam l’ha danneggiata: quattro frammenti del panneggio, all’altezza dello stinco sinistro, si sono staccati. Tre di questi erano pezzi in gesso di un vecchio restauro mentre il quarto era una scheggia di marmo, già staccata dalla statua all’atto del ritrovamento nel 1820.
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Dalì tornerà di nuovo sul tema della Venere negli anni Settanta, evidentemente ossessionato da questo simbolo così potente. In Torero allucinogeno la Venere di Milo si moltiplica in diverse posizioni e varie dimensioni dentro una delirante sovrapposizione di immagini. La dea diventa archetipo femminile inafferrabile, a tratti spaventoso. La sua figura ripetuta dà forma anche al volto del torero, in un gioco di interscambio tra figura e sfondo.

Negli stessi anni Dalì torna anche alla versione scultorea di Venere, ma abbandona i cassetti e inizia a mescolare le parti del volto con la Testa otorinologica di Venere. Naso e orecchio sono scambiati di posto: forse perché ‘sentiamo’ con entrambi?

Poi è stata la volta di Arman che, usando il suo linguaggio basato sulla trasformazione e accumulazione di oggetti comuni, ha iniziato ad affettare, frammentare, scomporre e riassemblare la Venere di Milo. Ma per quanto la si possa fare a pezzi, lei rimane sempre riconoscibilissima.

Quella posa sinuosa con le braccia mozzate si riconosce pure in silhouette, come nello specchio Venere disegnato dall’architetto Carlo Mollino nel lontano 1938 per Casa Miller a Torino (ma ancora in produzione)…

… oppure nella scultura sezionata di César del 1984.

Tra le versioni più recenti ci sono quelle di Jim Dine degli anni Ottanta e Novanta. Le sue Veneri sembrano regredire alla fase di blocco appena sbozzato: mancano della testa e appaiono spigolose e ruvide. Ma il colore, in tinta unita o a chiazze vivaci, rende questi oggetti quasi astratti, specialmente nelle dimensioni colossali che in alcuni casi assumono. Quando queste statue sono disposte in gruppi di tre la classicità raddoppia, attraverso un evidente richiamo al tema delle Tre grazie.

A fronte di tutto questo, di una passione sfrenata verso una dea venuta da una sperduta isola greca che pare non vedere mai flessioni, si può ben dire che l’azione di propaganda messa in atto dalla Francia abbia funzionato davvero alla grande! E però, per trasformare una statua in un’icona, qualcosa di speciale ci dev’essere.

Quella donna di marmo ci guarda da millenni, indifferente al succedersi dei giorni e delle stagioni, alle generazioni umane che, passando, la guardano negli occhi. Aspetta paziente senza aspettare nulla: la sua imperfetta perfezione le basterà per sempre.

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