PIOPPI VICINO AD ARGENTEUIL

Pioppi vicino ad Argenteuil, di Monet, a scuola?
Splendido lavoro della maestra Teresa Fiorillo e i suoi alunni di 5^

I bambini dopo aver visionato il dipinto hanno provato a copiarlo utilizzando tempere, pennelli e cotton fioc (per i fiori del prato).

Qui le foto

Davvero un bellissimo lavoro, grazie a Teresa per la condivisione

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Monet e le ninfee

La storia di Claude Monet (1840-1926), padre della corrente artistica dell’impressionismo, ha origine vicino a Parigi, a Giverny, dove l’artista abitò e dove iniziò a dipingere a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento.
Affascinato da ciò che definiva “l’aspetto mutevole della natura”, Monet si dedicò per tutta la vita a dipingere en plein air (letteralmente all’aperto) per riuscire a cogliere le sottili sfumature che la luce e l’aria generano su ogni particolare della natura. La sua casa aveva due magnifici giardini, che lui curava personalmente: uno di impianto tradizionale, prevalentemente geometrico; l’altro un giardino acquatico di concezione orientale, ricco di piante esotiche e con qualche elemento architettonico, come il ponte giapponese che appare nei suoi dipinti. Come una grande opera vivente, li riempì di iris, papaveri, tulipani, rose e, naturalmente, di splendide ninfee.

Il giardino di Monet a Giverny (Francia).
© shogunangel / CC BY-NC-ND 2.0

Lo scopo dell’arte di Monet fu quello di cogliere l’impressione di un attimo, come quando si guarda qualcosa per la prima volta; sfruttò così la modalità del “dipingere in serie” le ninfee proprio per farsi l’occhio su quel soggetto preciso, per vedere di volta in volta che cosa cambiasse rispetto al dipinto precedente e come mutassero i colori dalla sera alla mattina, dall’alba al tramonto, dall’inverno all’estate.

Monet, Ninfee e nuvole.
© sailko / CC BY-SA 3.0

Quando Monet dipingeva le sue amate ninfee, quindi, non si concentrava nel rappresentare i dettagli specifici ma voleva creare una visione d’insieme, cercando di rendere al meglio le intonazioni, i giochi di luce sull’acqua e i suoi riflessi colorati nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni. Nelle opere delle ninfee, come anche nella famosa serie della Cattedrale di Rouen, la ripetizione del medesimo soggetto è dettata dalla volontà di cogliere quel soggetto nell’immediato e nell’attimo non ripetibile.

Il ponte giapponese sullo stagno delle ninfee a Giverny (Francia), Monet, 1899.
© Everett Collection / Shutterstock

Monet, dunque, per tutta la vita, riuscì a dipingere immerso nella natura, e per farlo aveva bisogno non solo di vederla, ma di sentirla in tutti i suoi fenomeni. Fece della natura il suo atelier, quell’atelier diverso ogni volta che cambiava il paesaggio, il soggetto, il punto di vista. L’invenzione delle serie delle ninfee nacque proprio dalla malinconia dettata dalla consapevolezza della natura temporanea della bellezza.
Il ciclo delle ninfee è composto da ben 250 dipinti, oggi sparsi nei più importanti musei del mondo. Ma dietro quei dipinti, soprattutto in quelli più prossimi alla sua scomparsa, si nasconde anche il dolore di un grande artista che lottò contro la sua malattia. Oramai cieco, morì a causa di un tumore polmonare nel 1926, all’età di 86 anni, nel suo angolo di paradiso, a Giverny.

———-Per approfondire:Gilson J. P., Lobstein D., Giverny. Il giardino di Monet, L’Ippocampo Editore 2019;King R., Il mistero delle ninfee. Monet e la rivoluzione della pittura moderna, Rizzoli, 2016;Beltramo Ceppi Zevi C. (a cura di), Monet. Il tempo delle ninfee, Giunti, 2009.

La foschia dei dipinti di Monet era (solo) smog?

Ogni tanto, arte e scienza si servono l’una dell’altra. Soprattutto quando i dipinti sono osservati come fotografie dell’epoca. Tempo fa vi avevamo raccontato di un biologo e un esperto d’arte che studiavano l’evoluzione genetica di frutta e verdura cercandole raffigurate in dipinti antichi. Di recente, invece, analizzando con un modello matematico un centinaio di dipinti di William Turner e Claude Monet, due scienziati del clima hanno scosso il mondo dell’arte: secondo il loro studio, infatti, i colori sempre più pallidi e i contorni sempre più sfocati presenti dell’evoluzione stilistica dei due grandi artisti rispecchierebbero l’inquinamento atmosferico che inghiottiva Londra e Parigi nel XVIII e XIX secolo. In altre parole, i meravigliosi paesaggi urbani immersi nella foschia dell’artista britannico del movimento romantico e del maestro francese dell’impressionismo, sarebbero delle fotografie delle due metropoli soffocate dallo smog della Rivoluzione industriale. Davvero è così?

Il palazzo del Parlamento, effetto sole (1903) di Claude Monet è conservato presso il Brooklyn Museum, New York.

Effetto sole. Per lo studio, pubblicato dalla rivista scientifica PNAS, Anna Lea Albright della Sorbona e Peter Huybers di Harvard hanno esaminato 60 dipinti realizzati da Turner tra il 1796 e il 1850, e altri 38 realizzati da Monet tra il 1864 e il 1901. Dai dati raccolti è emerso che circa il 61% dei cambiamenti di contrasto – contorni sempre più sfocati e una tavolozza di colori più bianca nei dipinti – «seguono in gran parte l’aumento delle concentrazioni di anidride solforosa durante quel periodo di tempo». Secondo i ricercatori, dunque, le opere «fotografano una determinata realtà, catturando le conseguenze della trasformazione ambientale atmosferica sui paesaggi urbani dell’epoca. In particolare, i due pittori sembrano aver mostrato realisticamente come la luce del sole filtra attraverso il fumo e le nuvole».

La valorosa Téméraire trainata al suo ultimo ancoraggio per essere demolita (1838-1839) di William Turner, in mostra alla National Gallery di Londra.
© Wikipedia

Estetica dell’inquinamento. Come dicevamo, però, questa tesi ha suscitato diverse perplessità. Il critico d’arte Sebastian Smee, sul Washington Post, invita chiaramente a non dare troppa importanza a questo studio in quanto, sostanzialmente, finirebbe per sminuire l’evoluzione artistica di Monet e Turner: «la correlazione non è la stessa cosa della causalità. Solo perché due fenomeni sembrano essere collegati non significa che uno abbia causato l’altro», dice.
Smee ricorda, tra l’altro, che una connessione tra l’inquinamento e il lavoro degli impressionisti è già stata discussa da esperti d’arte durante una mostra del 2005 alla Tate Britain di Londra, durante la quale si parlò di “estetica dell’inquinamento”, ovvero l’idea che gli artisti potessero essere stati indotti dallo smog ad abbandonare il realismo e cercare la bellezza nell’ambiente urbano moderno.

 

Il Tamigi sotto Westminster (1871) di Claude Monet è in mostra alla National Gallery in London.
© Wikipedia

Emozioni astratte. «È comune, nella pittura di Turner e di Monet – commenta il critico d’arte -, collegare le loro visioni con aspetti della modernità, compreso l’inquinamento provocato dall’uomo. Quindi la connessione c’è, ed è valida. Ma suggerire che il loro crescente radicalismo, la loro volontà di abbandonare i contorni chiari e i vecchi modi di dipingere, sia il risultato dell’aumento dei livelli di anidride solforosa nell’atmosfera significa confondere le scelte creative interne con stimoli esterni».  
E citando Monet precisa: «Cosa dovremmo allora pensare delle sue ninfee sfocate e offuscate anche se le ha dipinte a 50 miglia a nord-ovest di Parigi? C’era più inquinamento atmosferico a Giverny che a Londra? No. Quello che accadeva, invece, è che la pittura di Monet diventava sempre più poetica e più vicina all’astrazione. Qualcosa di suggestivo e astratto, con connessione immediata alle emozioni».

Il ponte giapponese (1899), conservato a Parigi presso il museo d’Orsay, è uno dei quadri più famosi di Monet. Appartiene al tardo periodo della carriera del maestro dell’impressionismo, quando comprò una proprietà nella cittadina di Giverny. 
© Shutterstock

Scienza vs arte. Il dibattito tra scienziati e esperti d’arte resta aperto. D’altra parte, anche Albright e Huybers ammettono che con il loro studio non pretendono certo di riscrivere l’estetica dell’impressionismo ma spiegare, almeno in parte, l’evoluzione stilistica nelle carriere dei due pittori. Concludono i ricercatori: «studiare come l’inquinamento e il cambiamento climatico possa influenzare il lavoro degli artisti può essere comunque interessante, osservando come descrivono il loro ambiente e come l’ambiente influenzi ciò che scelgono di guardare».

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