La mappa interattiva dell’Universo

L’immensità dell’universo non ci consente di immaginare una sua rappresentazione grafica.

In realtà, un gruppo di astronomi ha recentemente elaborato una mappa interattiva dell’universo osservabile, che è stata creata a seguito della conversione effettuata ai dati raccolti in 15 anni dallo Sloan Digital Sky Survey.

In questa mappa possiamo osservare una grande varietà di oggetti cosmici rappresentati; dai quasar blu alle galassie ellittiche.

Per la sua elaborazione sono state utilizzate le osservazioni effettuate dall’osservatorio Apache Point situato nel Nuovo Messico, che hanno catturato 200mila galassie, ognuna delle quali raggruppa miliardi di stelle e mondi ancora da scoprire.

Va precisato che i 200.000 oggetti mostrati sulla mappa non costituiscono la totalità dei dati ottenuti dalle osservazioni. Infatti, se tutti gli oggetti presenti sulla mappa dovessero essere rappresentati, finirebbero per sembrare un incomprensibile mare di puntini.

Per darvi un’idea di quanto sia vasto l’universo solo la Via Lattea, che ha un diametro di 100.000 anni luce, rappresenta un solo pixel della mappa.

Per esplorare la mappa dovete scorrere fino in fondo alla pagina fino a trovare un’opzione chiamata Explore the map sul lato destro dello schermo e cliccarvi sopra.

E sebbene la mappa non offra la possibilità di esplorare ogni angolo dell’universo, è almeno utile per fornire l’idea di quanto sia insignificante il nostro pianeta all’interno del vasto mare di oggetti cosmici.

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Le prime foto del James Webb Space Telescope

È l’appuntamento scientifico che aspettavamo con il fiato sospeso, il culmine di una missione scientifica a cui si lavora da oltre 20 anni: il James Webb Space Telescope, il telescopio più grande e potente mai costruito, ha pubblicato le sue prime vere immagini a colori, inaugurando così il suo lavoro in orbita.

Un assaggio di scienza. Già le prime fotografie di prova, ottenute durante l’allineamento degli specchi del mega osservatorio, avevano dato un’idea delle capacità del telescopio: ora il capolavoro ingegneristico costato circa 10 miliardi e mezzo di dollari sfoggia l’intera gamma di possibilità di ricerca che può offrire. Insieme alle immagini sono stati resi disponibili i dati spettroscopici, informazioni scientifiche dettagliate desumibili dalla luce acquisita dal JWST, che possono essere scaricate e usate a scopo di ricerca.

I target di queste prime foto. I soggetti di questa prima tornata di immagini sono stati selezionati da un comitato scientifico di NASA, ESA e dell’Agenzia Spaziale Canadese (CSA), e sono stati scelti apposta per dimostrare che cosa può fare il telescopio. Sono:

La Nebulosa della Carena (Nebulosa di Eta Carinae, NGC 3372): è una delle nebulose a emissione (una nube interstellare di gas ionizzati) più grandi e brillanti del cielo, nonché uno degli oggetti celesti più osservati in assoluto. Si trova a circa 7600 anni luce di distanza, nella costellazione della Carena. Ospita molte stelle massicce diverse volte più grandi del Sole e al suo interno sono attivi fenomeni di formazione stellare.

Non sono montagne illuminate dalla Luna ma è la sommità di una regione di formazione stellare: NGC 3324, la Nebulosa della Carena, qui fotografata nel vicino infrarosso dalla Near-Infrared Camera (NIRCam) del James Webb. Possiamo immaginarla come la sommità di una cavità scavata dalla radiazione ultravioletta e dai venti stellari di stelle estremamente calde, giovani e massicce che si trovano al centro della bolla, fuori dall’inquadratura. La radiazione altamente energetica di queste stelle scolpisce la parete della nebulosa, erodendola. La foto rivela numerose stelle prima nascoste e nuove galassie sullo sfondo. I picchi delle montagne sono in realtà gas caldissimi ionizzati. Questa fase di formazione stellare precoce è difficile da catturare perché per ogni stella dura soltanto da 50.000 a 100.000 anni, ma la sensibilità eccezionale del telescopio James Webb è riuscita a documentarla.
© NASA, ESA, CSA, and STScI

WASP-96b (di cui è stato realizzato lo spettro): è un esopianeta gigante gassoso scoperto nel 2014 che si trova a circa 1150 anni luce dalla Terra. Questo pianeta gioviano caldo orbita attorno alla sua stella ogni 3,4 giorni e ha una massa pari all’incirca la metà di quella di Giove.

Il JWST ha rilevato la composizione atmosferica dell’esopianeta WASP-96 b: nell’involucro che avvolge il pianeta extrasolare ha rintracciato la firma inequivocabile dell’acqua, insieme alla presenza di nubi e foschia. Il 21 giugno il telescopio ha misurato la luce del sistema planetario mentre questo gigante gassoso transitava davanti alla sua stella. Quelli che vedete sono la curva di luce della stella durante il transito e lo spettro di trasmissione, che segnala appunto la presenza di acqua. Un’anteprima delle misurazioni che il JWST effettuerà sugli esopianeti più promettenti nelle zone abitabili delle loro stelle.
© NASA/ESA/CSA

La Nebulosa Anello del Sud (NGC 3132): una nebulosa planetaria (cioè un involucro incandescente di gas espulso nella fase finale della vita delle stelle). Somiglia a una piscina di luce, un capolavoro estremo creato da una stella nell’ultima fase della sua evoluzione. Ha un diametro di circa metà anno luce e si trova a 2000 anni luce dalla Terra.

Alcune stelle se ne vanno “col botto”. In queste nuove immagini della Nebulosa Anello del Sud (NGC 3132), nel vicino infrarosso (a sinistra) e nel medio infrarosso (a destra) si notano dettagli mai visti prima dagli astronomi. Il JWST ha messo in luce per la prima volta la seconda stella all’interno della nebulosa. Due astri che danzano in un’orbita molto stretta plasmano la forma di questo involucro gassoso. La stella più luminosa al centro non è la fonte primaria della nebulosa ma contribuisce a determinarne la forma. La vera sorgente è la seconda stella, meno visibile, in basso a sinistra, lungo una delle scie di diffrazione della prima (la si nota meglio nell’immagine a destra, catturata dallo strumento MIRI, Mid-Infrared Instrument, del telescopio). Questa seconda stella meno brillante, circondata da un guscio di polveri, ha espulso almeno otto strati di gas e polveri nell’arco di migliaia di anni.
© NASA, ESA, CSA, STScI, and the Webb ERO Production Team

Il Quintetto di Stephan è un gruppo di cinque galassie a 290 milioni di anni luce nella costellazione di Pegaso. Fu il primo gruppo compatto di galassie a essere scoperto ed è il più studiato fra tutti gli ammassi galattici compatti. In realtà le componenti del sistema sono quattro galassie interagenti, coinvolte in una serrata danza celeste con ripetuti incontri ravvicinati, mentre una quinta è stata associata al gruppetto per motivi prospettici.

Il Quintetto di Stephan in una nuova luce: questo enorme mosaico è la più grande immagine catturata dal JWST – copre circa un quinto del diametro della Luna, e contiene circa 150 milioni di pixel da circa 1000 immagini separate. La foto fornisce nuovi dettagli su come le interazioni tra galassie possono aver guidato l’evoluzione galattica nell’Universo primordiale. Si possono vedere dettagli mai osservati, come ammassi di giovani stelle, code di gas e onde d’urto derivanti dall’interazione di una delle galassie, NGC 7318B (al centro), con le altre.
© NASA, ESA, CSA, and STScI

L’ammasso di galassie SMACS 0723 è una regione celeste che ha abbastanza gravità da distorcere la luce delle galassie distanti dietro di sé e permette così di esplorare i confini dell’Universo. Si tratta di una lente gravitazionale che deflette e amplifica la luce delle galassie sullo sfondo. È il soggetto della primissima foto, svelata in anteprima l’11 luglio dal Presidente Biden in persona.

Il primo “campo profondo” di Webb (“Webb’s First Deep Field”) – un’immagine a lunga esposizione, per raccogliere la massima quantità di luce possibile e catturare anche galassie poco luminose – è stato acquisito in un giorno circa di lavoro del telescopio. Anche Hubble si era cimentato in imprese simili (vedi), ma questa foto coglie sorgenti di luce anche 100 volte più fioche.

Un dettaglio della prima immagine del Telescopio James Webb, l’ammasso di galassie SMACS 0723. Le galassie in primo piano sono a 4,5 miliardi di anni luce da noi e fanno da lente gravitazionale per osservare le centinaia di galassie ancora più lontane, che si vedono sullo sfondo. Si tratta delle galassie più vecchie e lontane mai osservate all’infrarosso. Per approfondire
© NASA, ESA, CSA, and STScI

Un’altra immagine dell’ammasso galattico SMACS 0723, questa volta nel medio infrarosso (a sinistra nella foto composita). A destra si vede lo stesso ammasso nella lunghezza d’onda del vicino infrarosso: la foto era sta svelata in anteprima l’11 luglio. Nella foto a sinistra, gli oggetti blu che mostrano scie di diffrazione sono galassie, e queste galassie nella fattispecie sono molto antiche – contengono pochissime polveri e gas per formare nuove stelle. In entrambe le immagini, le galassie più piccole sono anche le più lontane. In quella a sinistra, nel medio infrarosso, le galassie più vicine sono quelle più verso il bianco. Il verde indica invece galassie le cui polveri includono un mix di idrocarburi e altre sostanze chimiche.
© NASA, ESA, CSA, and STScI

Come previsto dagli esperti, questo primo pacchetto di immagini offre un assaggio dei temi scientifici che hanno ispirato la missione del telescopio: l’Universo primordiale, l’evoluzione delle galassie nel tempo, il ciclo di vita delle stelle e dei pianeti extrasolari.

JWST: che cos’è e come funziona. Il James Webb Space Telescope, frutto della collaborazione tra la Nasa, l’Esa e l’Agenzia spaziale canadese, è uno strumento ai limiti delle possibilità tecnologiche attuali che permetterà di studiare ogni fase della storia dell’Universo, dall’interno del Sistema Solare fino alle galassie più antiche, e rispondere a domande irrisolte sulla storia del cosmo e sul ruolo della Terra in esso.

Macchina del tempo. Sarà in grado di osservare una parte di spazio e di tempo mai visti prima, arrivando a 13,5 miliardi di anni fa, l’epoca in cui si sono formate le prime stelle e le prime galassie. La luce di quei primi oggetti celesti si è allungata (“spostata verso il rosso”) per effetto dell’espansione dell’Universo, e arriva oggi a noi come radiazione infrarossa. Il James Webb Space Telescope è stato studiato apposta per vedere questa luce infrarossa con una risoluzione e una sensibilità senza precedenti.

La luce nel vicino infrarosso rivela come si sono formate le galassie e permette di sbirciare al di là degli involucri di polvere che avvolgono le stelle appena nate. Quella nel medio infrarosso penetra le fredde regioni di polveri stellari dove si assemblano gli astri e mostra come le stelle massicce e i buchi neri plasmano il loro vicinato celeste. Al momento le osservazioni cosmologiche che arrivano più indietro nel tempo si spingono fino a 330 milioni di anni dopo il Big Bang, ma con le capacità di questo nuovo telescopio si spera di infrangere anche questo record.

I telescopi osservano soltanto una parte dello spettro elettromagnetico. In questo confronto si notano le frequenze di osservazione di tre telescopi spaziali: Webb, Hubble e Spitzer (un telescopio all’infrarosso ormai in pensione). Lo specchio primario del James Webb ha un potere di catturare la luce sei volte maggiore di quello di Hubble: una caratteristica particolarmente importante per captare le lunghezze d’onda più lunghe e fioche, quelle in cui il nuovo osservatorio è specializzato. Anche Hubble riesce in parte a vedere nell’infrarosso, ma è stato ottimizzato per cogliere soprattutto lunghezze d’onde più corte dello spettro elettromagnetico, l’ultravioletto e la luce visibile. In un certo senso i due telescopi sono complementari.

C’è vita là fuori? Anche se il James Webb Space Telescope è stato pensato per osservare le galassie lontane, permetterà anche di studiare origine ed evoluzione dei pianeti del nostro sistema e confrontarle con quelle degli pianeti extrasolari: il telescopio esplorerà quelli nella zona abitabile delle loro stelle e usando una tecnica chiamata spettroscopia a trasmissione esaminerà la luce della loro stella filtrata dalla loro atmosfera, per risalire alla loro composizione chimica e annusare eventuali tracce di vita.

Con il suo specchio primario di 6,5 metri di diametro quasi 3 volte più largo di quello del suo predecessore, e sensori molto più sofisticati, il JWST potrà raccogliere molta più luce di Hubble ed estendere il campo di indagine astronomica a distanze e a lunghezze d’onda maggiori, che ci permetteranno di osservare oggetti più freddi e più antichi di quelli che Hubble poteva rilevare.

Il vantaggio del freddo. Per essere capace di osservazioni così precise nell’infrarosso, è necessario che il telescopio e i suoi strumenti lavorino a temperature estremamente basse: il James Webb Space Telescope funziona a -233 °C, cioè a soli 40 gradi sopra lo zero assoluto. A queste temperature, può osservare la radiazione infrarossa prodotta dalle sorgenti celesti che sulla Terra è nascosta da quella generata dall’atmosfera, ed essere sicuro di non emettere a sua volta radiazioni che possano interferire con i segnali inviati dagli oggetti che osserva.

Questa “freddezza” è una delle ragioni dell’orbita singolare scelta per il telescopio: a differenza di Hubble, il James Webb Space Telescope non orbita attorno alla Terra ma attorno al Sole, in un punto di osservazione privilegiato chiamato L2 (punto Lagrange L2). Si tratta di un luogo gravitazionalmente stabile tra il Sole e la Terra, a 1,5 milioni di km da noi, particolarmente favorevole per un satellite. È qui che il JWST è stato parcheggiato. 

Dimensioni degli specchi, distanza orbitale, capacità di visione: Hubble e il suo successore James Webb Space Telescope a confronto in un’infografica.
© ESA

Le componenti del telescopio. Il James Webb Space Telescope si compone di due parti fondamentali: lo specchio e il corpo della sonda. Il primo è da record: la sua superficie, 7 volte quella di Hubble, permette al telescopio di raccogliere le poche manciate di fotoni che ci arrivano dall’universo primordiale. Realizzare, ma soprattutto spedire nello Spazio uno specchio così grande, è quasi impossibile. Per questo lo specchio è composto da 18 specchi esagoni di berillio rivestiti in oro, che si sono dispiegati e bloccati nelle loro posizioni permanenti soltanto in orbita.

Il corpo della sonda invece si compone di antenna per le comunicazioni, pannelli solari per ricaricare le batterie e propulsori per orientare il telescopio. E soprattutto dello scudo. Per evitare che le radiazioni del Sole, della Terra e della sonda stessa scaldino il telescopio e interferiscano coi sensibilissimi strumenti, lo specchio è infatti protetto da ben 5 fogli isolanti. Si tratta di Kapton, un materiale già usato per le tute degli astronauti, placcato a sua volta di alluminio e silicio per riflettere più radiazioni possibili. I sottilissimi fogli si sono dispiegati soltanto nello spazio aperto, raggiungendo l’ampiezza di un campo da tennis.

E ora? A partire da oggi il James Webb Space Telescope inizierà a lavorare a pieno regime ai suoi obiettivi scientifici. L’agenda dettagliata di questo primo anno di osservazioni non è stata diffusa, ma ne sapremo presto di più. Per ora, lasciamo qui una lista di domande alle quali speriamo che il telescopio possa se non rispondere del tutto, almeno offrire qualche spiraglio di luce: che aspetto aveva l’Universo primordiale? Quando si sono formate le prime stelle e le prime galassie? Come si sono evolute le prime galassie nel tempo? Che cosa può dirci questo, su materia ed energia oscura? Come si formano le stelle? Che cosa determina quante se ne formano e la loro massa? Quando muoiono, che impatto ha la loro fine sul mezzo in cui si trovano? Dove e come si formano i sistemi planetari? C’è altra vita al di fuori del Sistema Solare?

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