Base Tuono, in gita per avere la più eloquente testimonianza della Guerra Fredda

A Folgaria, in Trentino, nella zona di Passo Coe, a 1.600 metri di altitudine, Base Tuono rappresenta l’unica testimonianza delle 106 basi che, in Europa, costituivano un possente schieramento missilistico difensivo predisposto dalla NATO nella seconda metà del secolo scorso di fronte ai Paesi dell’area comunista. In Italia ne furono costruite dodici, tutte nel Nord-Est. Si era in piena Guerra fredda, quel lungo confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ovvero tra blocco occidentale e blocco orientale, durante il quale la potenza degli arsenali di entrambe le parti avrebbe potuto annientare l’intera umanità. Fu questa consapevolezza ad impedire, anche nei momenti di maggior tensione, che si scatenasse un conflitto con armi nucleari.

I poderosi Nike-Hercules di Base Tuono testimoniano i rischi che l’umanità corse e svelano accadimenti e situazioni tutt’ora assai poco conosciuti. I missili teleguidati, armati con potenti bombe convenzionali o con esplosivo nucleare, erano pronti per

Continua la lettura su: https://www.tuttoscuola.com/base-tuono-in-gita/ Autore del post: TuttoScuola Notizie Fonte: https://www.tuttoscuola.com/

Articoli Correlati

Guerra e Matematica

La riflessione sulle guerre. Il carteggio Einstein-Freud e la matematica per gli scopi bellici.

Parte prima: il dibattito sulla guerra
Cancellare le guerre dai libri di storia è un appello del Movimento Nonviolento.
Senonché accogliere l’appello non cancellerebbe le guerre dalla storia. In assenza di riferimenti alla guerra non ci sarebbe occasione di leggere riflessioni fondamentali come queste:
“Homicidia conpescimus et singulas caedes: quid bella et occisarum gentium gloriosum scelus? […] Ex senatus consultis plebisque scitis saeva exercentur et publice iubentur vetata privatim. Quae clam commissa capite luerent, tum quia paludati fecere laudamus. Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit.”
Sono parole di Lucio Anneo Seneca in un memorabile passo di un’epistola all’amico Lucilio. L’assassinio viene punito se commesso in privato, mentre è motivo di lode e di gloria se commesso in guerra: questa la vergogna denunciata definitivamente dal filosofo latino con parole destinate a riecheggiare in ogni tempo, monito più che mai attuale quando  assistiamo come oggi a orrendi crimini di guerra perpetrati contro civili inermi.
La prevaricazione di chi si ritiene più forte militarmente a danno di un popolo trova riscontro nell’antica Grecia.
Esemplare in proposito il dialogo fra gli Ateniesi e i  Meli nella Guerra del Peloponneso di Tucidide. Gli Ateniesi, in guerra contro Sparta, inviano in via preventiva  ambasciatori presso i Meli, coloni spartani dell’isola di Melo, per indurli alla resa, ammonendo i loro consiglieri che “i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano”. I Meli chiedono come possa esserci un interesse comune fra chi accetti di diventare schiavo e chi si erga a padrone. Osservano ancora i Meli che non cercare ogni via per evitare la sottomissione sarebbe manifestazione di viltà e motivo di vergogna. Replicano gli Ateniesi che sarebbe saggio invece arrendersi a un avversario più potente. Purtroppo il  dialogo tucidideo resta attuale in una sua versione tragicamente aggiornata: oggi qualunque criminale compiaciuto di sentirsi più potente dispone della minaccia al ricorso alle armi nucleari.
Dall’antichità classica proviene anche la distinzione tra guerra difensiva e guerra offensiva.
Troviamo in Tito Livio la seguente espressione:  “Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma, quibus nulla nisi in armis relinquitur spes.”
Vale a dire che la guerra è giusta se necessaria per chi non nutra speranza alcuna di salvezza qualora non ricorra alle armi a scopo di difesa. La riflessione sulla guerra giusta era già presente in Aristotele, che da una parte condannava l’aggressione riconoscendo a chi venisse aggredito il diritto di difendersi, ma dall’altra giustificava il muovere guerra ai barbari. Analogamente nel pensiero cristiano medioevale si affermò il concetto di guerra santa contro gli infedeli, “sterpi eretici” secondo la definizione di Dante. Il bellicismo colonialistico cinquecentesco si basava sull’asserita necessità di redimere dalla loro inciviltà i popoli da colonizzare.  Insomma lo ius ad bellum, ovvero diritto di muovere guerra, giustificava in certi casi gli aggressori.
Nel secentesco trattato De iure belli ac pacis di Ugo Grozio viene esplicitato fra l’altro lo ius in bello, ovvero complesso di norme giuridiche da rispettare in  guerra.
Su questo tema si pronuncia anche Louis de Jaucourt, il quale nella voce Guerre della Encyclopédie illuminista scrive che  non v’è diritto che autorizzi “a togliere la vita per deliberato proposito ai prigionieri di guerra, né a coloro che domandano quartiere, né a coloro che si arrendono, né tanto meno ai vecchi, alle donne, ai bambini, e in generale  a tutte le persone che non hanno un’età né svolgono una professione tali da renderli atti alle armi, e che nella guerra non hanno nessuna parte e vi sono coinvolti solo perché si trovano nel paese o nel partito nemico”. Nella voce citata si condanna anche  la brutalità della guerra nei confronti della donna. Eccola tradotta dal francese:
“Essa [la guerra] ha regnato in tutti i secoli sulle più fragili basi; la si è vista sempre desolare il mondo, privare le famiglie dei loro eredi, riempire gli stati di vedove e di orfani: mali deplorevoli, ma tanto comuni! In ogni tempo gli uomini, per ambizione, per avarizia, per gelosia, per malvagità, si sono derubati, bruciati, sgozzati a vicenda […] A più forte ragione, i diritti di guerra non giustificano gli oltraggi all’onore delle donne, dato che una tale condotta non contribuisce affatto alla nostra difesa, alla nostra sicurezza né alla difesa dei nostri diritti; essa serve soltanto a soddisfare la brutalità del soldato privo d’ogni freno.”
Delitti contro l’umanità che continuano ad essere perpetrati dal “soldato privo d’ogni freno”, a ciò per giunta  incitato dalla viltà di chi in sede di comando pianifica la presa a bersaglio di  civili inermi.
La riflessione sulle cause della guerra trova una delle sue più alte espressioni nel carteggio Einstein-Freud, di cui sono qui riportati alcuni stralci in traduzione.
Il padre della teoria della relatività si rivolge per una risposta al padre della psicoanalisi:
“Caro signor Freud, c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.”
Si riportano qui alcuni passi della lunga risposta:
“Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con lei. […] Ora la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, cosi che dobbiamo ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è un’intolleranza costituzionale, per così dire il massimo della idiosincrasia. […] Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – l’atteggiamento sempre più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alla guerra in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo giudicarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.”
Evidentemente l’evoluzione civile è in inquietante ritardo nel mondo, se non giunge addirittura a configurarsi come involuzione.
Nel filone delle riflessioni sulla pace risalta la cinquecentesca Querela pacis di Erasmo.
Eccone un passo tradotto dal latino:
“E invero, se io sono la Pace, esaltata all’unisono da dèi e uomini come sorgente, genitrice, nutrice, promotrice, tutrice di ogni bene esistente in cielo o in terra, e se in mia assenza nulla mai fiorisce, è saldo, puro, santo, piacevole per gli uomini e gradito ai superi, mentre la guerra viceversa si presenta come l’oceano di tutte le sventure esistenti al mondo, […] ebbene, io allora mi chiedo in nome dell’immortale divinità: chi può ritenere che costoro siano esseri umani ed abbiano un briciolo di senno, quando a dispetto delle mie virtù si adoperano con tanti mezzi, tanta ostinazione, tante macchinazioni, tante astuzie, tanti affanni, tanti rischi a scacciarmi, per acquistare a così caro prezzo un tale profluvio di mali?”
Il testo classico in cui la ragione coltiva l’utopia è  Per la pace perpetua  di Immanuel Kant.
Fra le condizioni necessarie per assicurare la pace perpetua il filosofo annovera la totale scomparsa degli eserciti permanenti, il divieto per ogni Stato di intromettersi con la forza in un altro Stato, la necessità  della forma repubblicana della costituzione di ogni Stato e del federalismo fra Stati. Per lui, che ritiene non inconciliabili politica e morale, i politici dovrebbero avvalersi della consulenza dei filosofi. Se ci chiediamo quali filosofi, dobbiamo escludere quelli come Georg Wilhelm Friedrich Hegel,  triste figura che la guerra non la condanna, ma la esalta. È l’aberrazione della “guerra sola igiene del mondo”, come la celebra e glorifica Filippo Tommaso  Marinetti.
Encicliche dei sommi pontefici come  Pacem in terris  o Fratelli tutti vagheggiano la pace universale.
Ferma, decisa e risoluta è la  condanna ecclesiastica di ogni guerra di aggressione, definita dal Vaticano “moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega”. Anche il Papa riconosce a chi sia aggredito il diritto di difendersi. Ad ogni  posizione irenica ovvero pacifista, sia religiosa che laica, si contrappone la concezione della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi” espressa da Klaus von Clausewitz nel suo trattato Vom Kriege.
Oggi i progetti di educazione alla pace sono insidiati dalla  minaccia incombente della cosiddetta guerra nucleare preventiva.
Finora si riteneva che l’equilibrio del terrore potesse scongiurare la terza guerra mondiale. Però era già presente nel pensiero di un presidente statunitense l’idea di una guerra preventiva. La novità  consiste nel fatto che  ora l’uso di armi atomiche in funzione preventiva  è contemplato in una legge voluta da un famigerato dittatore gongolante ad ogni suo lancio di missili. Perciò, quando alla fine del suo volume sull’identità umana Edgar Morin, avvalendosi delle scienze dell’incertezza, scrive che per l’avvenire “niente è sicuro, neanche il peggio”, con tutto il rispetto per il più che centenario studioso dobbiamo purtroppo constatare che la probabilità del peggio è in aumento. Probabilità che un qualunque detentore di un potere assolutistico dia il via in un accesso di demenza, se assecondato da generali altrettanto folli,  allo sterminio della vita sul pianeta per la percezione soggettiva di una minaccia soltanto presunta.
Vittorino Andreoli in Homo stupidus stupidus. L’agonia di una civiltà, Rizzoli, 2018, osserva che la corsa agli armamenti si svolge più che mai “all’insegna della stupidità e della follia”.
Questa l’amara constatazione dello psichiatra a proposito dello scadimento cerebrale di questo o quel singolo individuo al posto di comando: “Trasformare questo pianeta in una pietra che, nuda e fredda, gira nell’universo non è più nelle mani degli dèi, ma della stupidità del potere.”
Viene in mente la conclusione di un romanzo.
Da La coscienza di Zeno di Italo Svevo: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Pablo Picasso, Guernica (1937)
Parte seconda: matematici  pro e contro  la guerra
Il trattato L’arte della guerra attribuito a Sun Tzu, risalente al VI secolo avanti Cristo, dedica spazio a una serie di fattori matematici che possono determinare l’esito di una guerra.
Il testo è organizzato in tredici capitoli dedicati all’analisi razionale delle diverse dimensioni della guerra, identificando le modalità per perseguire e riportare la vittoria. Tredici i capitoli: pianificazione e valutazione; preparazione alla guerra; attacco strategico; schieramento e disposizione dell’esercito; forze; punti di debolezza e punti di forza; scontro e manovre militari; variabili, variazioni e adattabilità; spostamenti e movimenti delle truppe; terreno; territorio e i nove campi di battaglia; attacco con il fuoco; utilizzo delle spie. Chi è esperto dell’arte della guerra deve saper controllare il fattore morale, il cuore, la forza e le diverse circostanze. Il numero non  dà vittoria certa: la vittoria deve essere creata sul campo. Tuttavia nel quarto capitolo i fattori numerico e geometrico sono  presi in  considerazione:
“Ricorda, gli elementi della strategia militare sono cinque: primo, misurazione dello spazio; secondo, valutazione della quantità; terzo, calcolo; quarto, confronto; e quinto, probabilità di vittoria. Le misurazioni dello spazio si deducono dal territorio. Le valutazioni della quantità si deducono dalle misurazioni, i calcoli dalla quantità, i confronti dai calcoli, e la probabilità di vittoria dai confronti.”
Galilei, che Einstein definisce padre della scienza moderna, si è occupato di guerra in Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali.
L’opera è stata tradotta in italiano da Alessandro De Angelis e pubblicata da Codice edizioni nel 2021. Nell’opera, realizzata in forma dialogica,  la quarta giornata è dedicata al moto dei proiettili. A un certo punto Simplicio si dimostra curioso di sapere perché i proiettili delle armi da fuoco debbano essere considerati diversamente da quelli di archi e balestre e Salvati risponde che “la velocità di una palla sparata da un moschetto o da un cannone è soprannaturale”, cioè più veloce di quella di un corpo in caduta libera:
“Infatti, se una tale palla dovesse cadere da una grande altezza, la sua velocità, a causa della resistenza dell’aria, non aumenterebbe indefinitamente. […] Sono dell’opinione che una palla di moschetto o di cannone, che cade da un’altezza grande a piacere, non produrrà un colpo così forte come se fosse sparata contro un muro da una distanza di poche braccia, cioè a distanza così breve da non essere sufficiente a far rubare l’impeto dalla resistenza dell’aria.”
In questa quarta giornata la matematica mediante una serie di proposizioni o teoremi concorre a spiegare fenomeni fisici che sono l’oggetto della balistica.
Da: il grande Blek
Ormai il progresso scientifico rende possibile l’espansione della guerra in ambito virtuale e nel dominio robotico.
Sono già in atto forme di guerra informatica o cibernetica. Attacchi a internet, diffusione in rete di notizie false, divulgazione di dati militari sensibili ne sono alcuni aspetti. Oltre a ciò ricordiamo i soldati automi dei nostri giorni. L’idea di realizzare un androide di tal genere  sarebbe però non nuova: l’avrebbe concepita  la mente di Leonardo da Vinci, ipotesi che si fonda su studi anatomici e meccanici contenuti nel Codice Atlantico.
Non si combatte soltanto sul campo di battaglia.
Intervengono nei conflitti i calcoli degli economisti. Giuseppe Della Torre, cattedratico di  Economia, distingue fra economia di guerra e guerra economica:
“Anticipo che per economia di guerra intendo l’ambito tradizionale degli studi, legato direttamente al conflitto armato, nei momenti della sua pianificazione e della sua gestione operativa, incluso il tema delle «riparazioni». Per guerra economica intendo le attività non strettamente militari, spesso preliminari o di accompagnamento o successive alle iniziative propriamente belliche. Di conseguenza, i temi delle sanzioni e degli embarghi, che sono sovente parte dell’economia della guerra, ho deciso di inserirli nella guerra economica, perché non strettamente legati al fenomeno bellico.”
La guerra economica contempla oggi, oltre che sanzioni e embarghi, la distruzione di sovrastrutture.
Fino a che punto la razionalità matematica può cogliere la realtà empirica della guerra?
In questo passo di Albert Einstein tratto da On the Method of Theoretical Physics si delinea il controverso rapporto fra matematica e fisica:
“We reverence ancient Greece as the cradle of western science. Here for the first time the world witnessed the miracle of a logical system which proceeded from step to step with such precision that every single one of its propositions was absolutely indubitable – I refer to Euclid’s geometry. […] But before mankind could be ripe for a science which takes in the whole of reality, a second fundamental truth was needed, which only became common property among philosophers with the advent of Kepler and Galileo. Pure logical thinking cannot yield us any knowledge of the empirical world; all knowledge of reality starts from experience and ends in it. Propositions arrived at by purely logical means are completely empty as regards reality. Because Galileo saw this, and particularly because he drummed it into the scientific world, he is the father of modern physics-indeed, of modern science altogether.”
Dunque Einstein riconosce all’antica Grecia il merito di avere dato all’umanità con la geometria euclidea un sistema logico preciso e indubitabile nella consequenzialità del suo svolgersi. Era però necessaria un’altra fondamentale verità, dovuta a Keplero e Galilei: il puro pensiero logico non è in grado di cogliere la complessità esperienziale. Tuttavia, argomenta ancora Einstein, logica ed esperienza risultano complementari, in quanto la ragione elabora una struttura teorica con la quale devono accordarsi i contenuti empirici:
“The structure of the system is the work of reason; the empirical contents and their mutual relations must find their representation in the conclusions of the theory.”
Nella Repubblica Platone esalta l’aritmetica e la geometria come discipline indispensabili sul piano pratico per gli scopi bellici, ma ancor più importanti sul piano teorico come mezzi di elevazione dell’animo verso la verità.
Ci troviamo così di fronte a una visione filosofica in cui la ricerca del vero  non contempla il ripudio della guerra. Quindi  alla matematica viene attribuita un’ambivalenza, anzi un ruolo dicotomico, che risulta comprensibile se si considera il periodo storico in cui Platone  visse, mentre non è accettabile oggi in quanto sappiamo ormai che la matematica può essere utile alla guerra, ma per sua natura non può non comportarne il ripudio. Il vero a cui mediante la matematica giunge col  pensiero assume una dimensione etica. Infatti una verità che non contempli l’etica è una verità falsificata. Si tratterebbe di spingere il genere umano a inverare in sé il connubio di verità ed etica. E in ciò la matematica può dare un contributo di prim’ordine.
Un noto tentativo di integrare i calcoli matematici relativi alla guerra con fattori di ordine sociale è quello di Lewis Fry Richardson in Mathematical Psycology of War.
Matematico pacifista e obiettore di coscienza, Richardson si impegnò nella ricerca di possibili rimedi preventivi all’insorgere di conflitti fra nazioni. Nei suoi sistemi di equazioni si tiene conto anche di elementi non matematici, come, ad esempio, il grado di conflittualità latente fra potenze. La sua teoria dell’equilibrio trova riscontro nell’opera di John Nash, del quale è noto il “dilemma del prigioniero”, sviluppato anche dal matematico americano di origine russa Anatol Rapoport, pacifista al pari di Richardson, cofondatore fra l’altro del Center for Research on Conflict Resolution
Ai conflitti fra nazioni è stata applicata anche la teoria dei giochi.
Nella Prussia dell’Ottocento già George Leopold von Reisswitz e il figlio Georg Heinrich Rudolf Johann avevano inventato il Kriegsspiel, gioco di guerra,  non per giocare alla guerra, ma per farla, simulandola sulla falsariga del gioco degli scacchi.  Nel suo evolversi il gioco di guerra andò svolgendosi con la supervisione di un arbitro.  I moderni wargames possono essere considerati sviluppi del Kriegsspiel. La teoria dei giochi presenta anche un aspetto costruttivo, giacché in base ad essa si può dimostrare che per due competitori è più vantaggioso cooperare piuttosto che combattersi a vicenda. Pertanto alla tradizionale strategia militare dovrebbe subentrare una strategia di altro tipo, orientata all’incontro piuttosto che allo scontro. C’è da augurarsi che anche la Ricerca Operativa si prefigga uno scopo analogo. In definitiva, i modelli matematici non necessariamente risultano adeguati per progettare o prevedere l’andamento di una guerra, mentre si palesano più funzionali alla preparazione alla pace.
I matematici italiani in guerra.
È l’argomento studiato in Laurent Mazliak, Rosanna Tazzioli. Ciascuno secondo il proprio mestiere. Lettera Matematica PRISTEM, 2015, La vittoria calcolata. Hal-01477415. Nel corso della prima guerra mondiale matematici come Vito Volterra, Eugenio Elia Levi, Mauro Picone sono apertamente a favore di un intervento italiano, ma non tutti i matematici li seguono. Vito Volterra, arruolato nell’esercito, non si limita ad assumere la posizione interventista, ma si adopera anche per mettere la matematica al servizio degli strumenti di guerra. Così anche Mauro Picone, che si dedica particolarmente alla balistica in collaborazione con matematici francesi. Dagli scambi epistolari fra matematici si desume entusiasmo patriottico per l’apporto dato alle operazioni belliche. Scrivono Mazliach e Tazzioli a proposito dell’abbandono della ricerca pura:
“L’intento è piuttosto quello di aiutare  concretamente il proprio paese cui si offre il sacrificio dei lavori teorici per consacrarsi alle applicazioni, probabilmente meno profonde, ma di immediato impiego nel conflitto.”
Tuttavia altri matematici erano su posizioni neutrali e ritenevano di dover dedicarsi agli studi teorici. Dalla  ricerca di Mazliach e Tazzioli si desume dunque il riproporsi in forma moderna della dicotomia platonica fra matematica applicata alla guerra e matematica come elevazione dello spirito. Dicotomia che va superata con il ripudio dell’uso della matematica a scopi bellici in seguito all’avvento delle armi nucleari e alla dimostrazione della loro tremenda distruttibilità nel corso della seconda guerra mondiale. Superamento necessario non solo alla matematica, ma alla scienza nel suo complesso.
Ogni pettoruto presidente di nome ma dittatore di fatto, tanto tronfio e eccitato quanto ottuso e stolto, può minacciare il ricorso alle armi nucleari tattiche o peggio con intenzioni ricattatorie.
Contro una tale esaltazione fissata, per usare un’espressione dello psichiatra Ludwig Binswanger, bisognerebbe tener presente di fronte a ogni guerra di aggressione questa presa di posizione di  scienziati russi tradotta dal russo:
“[…] La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia. Per questa guerra non ci sono giustificazioni […] è del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso […] Scatenando questa guerra la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di paese maledetto. Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora, in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri […]”
Ciò nell’anno 2022 dall’avvento dell’era cristiana.
Albert Einstein (1879 – 1955)
Albert Einstein avvertì l’urgente necessità di adoperarsi per la pace nell’era degli armamenti nucleari.
Ne discusse non solo con lo psicoanalista  Sigmund Freud, ma anche col matematico Bertrand Russell. Dalla collaborazione con quest’ultimo scaturì The Russell-Einstein Manifesto. Eccone l’incipit:
“In the tragic situation wich confronts humanity, we feel that scientists should assemble in conference to appraise the perils that have arisen as a result of the development of weapons of mass destruction, and to discuss a resolution in the spirit of the appended draft.”
È necessaria, dunque, una conferenza degli scienziati per valutare i pericoli sorti per lo sviluppo delle armi di distruzione di massa e giungere a una comune risoluzione. Sul genere umano, proseguono gli autori del manifesto, incombe una minaccia di estinzione totale. Non solo una H-bomb può distruggere intere città ben più grandi di Hiroshima, ma gli effetti della ricaduta di particelle radioattive possono anche interessare a lungo termine aree ancor più vaste.  Di qui l’inquietante interrogativo:
“Shall we put an end to the human race, or shall mankind renounce war?”
L’alternativa si pone fra rinunciare alla guerra o porre fine al genere umano. Il manifesto si conclude con la proposta agli scienziati di firmare la seguente risoluzione:
“In view of the fact that in any future world war nuclear weapons will certainly be employed, and that such weapons threaten the continued existence of mankind, we urge the governements of the world to realize, and to acknowledge publicly, that their purpose cannot be furthered by a world war, and we urge them, consequently, to find peaceful means for the settlement of all matters of dispute between them.”
Considerando dunque che l’impiego di armi nucleari minaccia di distruggere l’umanità, i governi dovrebbero rinunciare pubblicamente a mettere in atto i loro propositi con la guerra, impegnandosi a risolvere con mezzi pacifici ogni contrasto.
Giorgio Gallo nel suo saggio Costruzione della Pace: quale ruolo per la matematica? osserva opportunamente che la matematica, come ogni altra disciplina, è da considerare nel suo inverarsi in una “persona che vive in una data società e che con il suo comportamento può su essa influire”.
Di qui la responsabilità dei matematici, chiamati a prendere posizione contro la guerra e ad adoperarsi per la pace. Ce lo ricorda fra gli altri in Mathematics and Peace: Our Responsibilities il matematico brasiliano Ubiratan D’Ambrosio, citato da Michele Emmer del Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma “La Sapienza” nell’articolo La matematica della guerra.
Il destino della civiltà sul pianeta può essere affidato ai matematici?
Mentre l’uomo del nostro tempo è “ancora quello della pietra e della fionda”, come canta Salvatore Quasimodo, ci chiediamo in particolare se i docenti di matematica possano essere tramiti privilegiati di civiltà. Forse più di altre discipline la matematica è in grado di concorrere a plasmare una forma mentis orientata alla pace. L’auspicio è che le giovani generazioni siano formate non solo umanisticamente, ma anche scientificamente e soprattutto matematicamente.
Proposte di approfondimenti
Per approfondire la parte prima: academia.edu/Per_un_lessico_della_politica_pace_e_guerra
Per approfondire la parte seconda: Matematica%26Pace_Articolo.pdf

Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.

Visualizza tutti gli articoli

Crimini di guerra: Putin sarà processato?

La Corte penale internazionale dell’Onu ha aperto un’indagine sull’invasione dell’Ucraina iniziata tra il 23 e il 24 febbraio 2022 per indagare su presunti crimini di guerra commessi dalla Russia di Vladimir Putin. Non è di certo un motivo sufficiente per indurre Putin a più miti consigli, ma va anche detto che non è poi così facile essere messi prima sotto accusa e poi incriminati, e l’isolamento internazionale che ne deriverebbe potrebbe fare la differenza. Ma l’incriminazione è per adesso solo un’ipotesi: del resto, da quando il crimine di guerra è perseguito, molti ed enormi crimini sono rimasti impuniti. Ecco perché.
Chi vince detta le regole: è una delle leggi non scritte della Storia. E chi vince amministra anche la giustizia. È ciò che accadde alla fine della Seconda guerra mondiale. Tutti ricordano i processi di Norimberga ai criminali nazisti, o quelli di Tokyo contro i giapponesi. Nessuno invece è mai stato incriminato per i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, né per quelli incendiari su Dresda, in Germania. Per molti furono atti legittimi e necessari per chiudere il conflitto. Ma per altri furono decisioni per lo meno discutibili o persino, alla luce del diritto internazionale, crimini di guerra a tutti gli effetti.

La cattedrale cattolica di Santa Maria a Nagasaki distrutta dalla bomba atomica sganciata sulla città il 9 agosto 1945. La prima bomba era stata sganciata sul centro della città di Hiroshima tre giorni prima, il 6 agosto 1945.
© WikiMedia, P.D.

Non perseguibili. I bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki furono sicuramente violazioni del diritto internazionale vigente nel 1945, quando furono sganciate le due bombe atomiche. Sulla base delle leggi del tempo si trattava però di violazioni imputabili agli Stati, e non a singoli individui, quindi non perseguibili.
Fu solo nel 1946, con i processi di Norimberga contro i gerarchi nazisti, che prese forma il concetto di crimine di guerra. Prima non esisteva. Tanto meno esisteva un tribunale internazionale che potesse mettere alla sbarra capi di Stato, mentre per i militari bisognava accontentarsi delle corti marziali nazionali. Risultato: le oltre centomila vittime civili immediate (più 340.000 uccise a medio termine dalle radiazioni) del bombardamento atomico su Hiroshima, come pure le 50-80.000 di Nagasaki, rimasero senza giustizia.
Forse, notano alcuni storici, fu meglio così. Si sarebbe rischiato di mettere sullo stesso piano il regime nazista con le sue atrocità e la democrazia americana che aveva, con i sovietici, liberato l’Europa: e ciò avrebbe potuto minare il fragile equilibrio del dopoguerra.

VAI ALLA GALLERY

Fotogallery
6 agosto 1945: la bomba atomica annienta Hiroshima

Civili sotto tiro. Resta il fatto che le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki servirono più a dimostrare la forza americana all’Urss e a spezzare il morale del Giappone, ormai sconfitto sul piano militare, che a distruggere obiettivi bellici. Un risultato ottenuto colpendo i civili. Civili che, in teoria, erano già allora difesi da una risoluzione votata all’unanimità dalla Lega delle Nazioni (antenata dell’Onu) il 30 settembre 1938.
Tre i punti essenziali:

il bombardamento aereo intenzionale di civili è illegale;
gli obiettivi degli attacchi aerei devono essere obiettivi militari identificabili;
ogni attacco contro obiettivi militari legittimi deve essere condotto in modo da non bombardare per errore la popolazione.

Il presidente degli Stati Uniti Harry Truman e i suoi diretti collaboratori, giù giù fino agli equipaggi che sganciarono le due bombe atomiche, avrebbero potuto, in linea di principio, essere processati da tribunali analoghi a quello di Norimberga. E se fossero vivi potrebbero ancora esserlo. Ma la parte lesa non aveva la forza politica per chiedere un processo (né è detto che lo avrebbe ottenuto).

Città aperte. Nessuno ha mai chiesto conto neppure del bombardamento anglo-americano su Dresda, “città aperta” (priva cioè di industrie belliche o obiettivi strategici) ma indicata sulle carte degli alti comandi come snodo ferroviario importante: per distruggerlo, fra il 13 e il 15 febbraio 1945, furono sganciate oltre 6.500 tonnellate di bombe incendiarie.
Rasero al suolo la città, scatenarono una tempesta di fuoco con temperature oltre i mille gradi e uccisero da 35 a 100mila persone, per lo più civili e sfollati. Ironia della sorte, la linea ferroviaria fu riattivata poco dopo il bombardamento. Ma secondo una nota dello stesso Churchill, l’attacco serviva più a “seminare il terrore” fra i tedeschi che a conseguire un risultato strategico. E pensare che il 1° settembre 1939, alla vigilia della guerra, il predecessore di Truman, Franklin D. Roosevelt, aveva lanciato questo appello a tutte le grandi potenze: “Le forze armate non dovranno mai, in nessuna circostanza, compiere bombardamenti aerei su popolazioni civili o città indifese”.

La città di Dresda rasa al suolo tra il 13 e il 15 febbraio 1945. Durante il bombardamento anglo-americano furono sganciate oltre 6.500 tonnellate di bombe incendiarie.
© WikiMedia, P.D.

Fantasmi d’Italia. Anche per noi italiani, nell’Etiopia del 1935, gli accordi internazionali non valsero un granché. Come il Protocollo di Ginevra del 1926, ratificato dall’Italia nel 1928, che vietava l’uso di armi chimiche. Le forze italiane partirono per la guerra d’Etiopia con un bagaglio di mille tonnellate di iprite (un gas che provoca la morte per soffocamento e piaghe inguaribili) e 60mila granate ad arsine (un composto dell’arsenico).
Incoraggiato dal precedente di Norimberga, per la verità, qualcuno bussò poi alla porta del nostro ministero della Giustizia. Nell’agosto del 1949 l’Etiopia chiese all’Italia di estradare Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani (ex comandante delle forze italiane ed ex viceré d’Etiopia) come criminali di guerra. L’ex colonia intendeva sottoporli al giudizio di un tribunale internazionale composto in maggioranza da giudici non etiopi, che avrebbe seguito le procedure stabilite per Norimberga. Ma quello che valeva in Europa non valeva evidentemente in Africa, e non se ne fece nulla.

Dimenticati. Allo stesso modo, nessuno finì davanti ai giudici per la strage italiana di Domenikon, da alcuni paragonata all’eccidio nazista di Marzabotto (800 morti). Il 16 febbraio 1943 il paesino della Tessaglia (Grecia centrale) fu colpito da bombe incendiarie. La popolazione fu rastrellata e 150 maschi sopra i 14 anni furono catturati. E nel cuore della notte fucilati. Era la rappresaglia per un attacco di partigiani greci a una colonna italiana, costato la vita a 9 soldati.
Domenikon fu il primo di una serie di episodi di repressione», spiega la storica Lidia Santarelli nel documentario La guerra sporca di Mussolini, frutto di un lungo lavoro di ricerca. Il generale Carlo Geloso, comandante delle forze di occupazione, aveva le idee chiare: «Per annientare la resistenza», spiega la studiosa, «andavano annientate le comunità locali». Gli abitanti di altri villaggi subirono rappresaglie nelle settimane successive al massacro di Domenikon, e furono riferiti stupri di massa. Persino i tedeschi, che a Kalavrita (Peloponneso) uccisero per vendetta circa 1.200 civili, chiesero agli italiani di non esagerare.
Il caso dell’Italia è particolare. Il regime fascista uscì infatti sconfitto dalla guerra. Perché allora non si celebrarono processi per episodi come quelli di Domenikon? Perché prevalse la diplomazia segreta: l’Italia, dall’8 settembre 1943, era un alleato strategico dei vincitori, e tutte le 1.500 segnalazioni di crimini di guerra riguardanti il nostro Paese alla commissione speciale dell’Onu furono respinte. Per la guerra in Grecia, solo un agente dei servizi segreti dell’esercito italiano fu condannato nel 1946 ad Atene (ma graziato nel 1950). Lo stesso oblio ha inghiottito i campi di concentramento fascisti per i civili in Iugoslavia (fra il 1942 e il 1943 vi morirono circa quattromila tra iugoslavi e rom) e i 5-10mila italiani finiti nelle foibe a opera dei partigiani iugoslavi di Tito.

Leggi nuove. Se fino al 1945 i concetti di crimine di guerra e contro l’umanità erano vaghi o inesistenti, le cose cambiarono con le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949. Una di esse stabiliva un punto fermo: la tutela dei civili in tempo di guerra. Ogni Stato che abbia ratificato quella Convenzione è tenuto a ricercare, arrestare e processare gli accusati di crimini di guerra. Inoltre, le Convenzioni di Ginevra hanno introdotto un istituto fortemente innovativo: quello della “giurisdizione universale”, che consente a qualsiasi Stato che aderisca alle Convenzioni di processare un soggetto indipendentemente dalla sua nazionalità, dalla nazionalità della vittima, e dal luogo dove è stato commesso il crimine. Finora solo la Spagna vi ha fatto ricorso, per processare il dittatore cileno Augusto Pinochet.
Benché entrambi avessero sottoscritto le Convenzioni del 1949, Usa e Urss – uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale – per decenni preferirono invece affidarsi alla logica della guerra fredda: “scordiamoci il passato, tu non chiedi conto a me, io non chiedo conto a te”. Così ci volle il crollo del regime comunista per sollevare il velo di silenzio su quanto avvenne nel 1940 nella foresta di Katyn: 22mila polacchi, comuni cittadini e prigionieri di guerra, passati per le armi dai sovietici e fatti sparire in fosse comuni. Passarono 50 anni di depistaggi prima che Mosca ammettesse il massacro. Ma una sentenza russa del 2005 negò ancora che si potesse parlare di crimine di guerra, e le richieste di giustizia polacche rimasero inascoltate. Nel 2010 il governo russo accolse parzialmente la richiesta polacca, mettendo online i documenti già noti. 
Idem per quelle algerine ai francesi. Nella primavera del 1945 il generale Charles De Gaulle ordinò – a seguito dell’uccisione di alcuni europei in Algeria (allora colonia francese) – una violenta repressione che culminò nei massacri di Sétif e Guelma: almeno 8mila morti (ma c’è chi dice 40mila) riconosciuti dalla Francia solo nel 2005.

Impunità. È la logica della guerra, si dirà. Ma secondo Carla Del Ponte, ex procuratore capo dei tribunali dell’Onu per i crimini di guerra nella ex Iugoslavia e in Ruanda è solo la logica del “ciclo di impunità”: «Alcuni diplomatici affermano che la pace ha priorità sulla giustizia e che nessun accordo di pace può essere formulato senza che i leader di almeno una parte ottengano l’assicurazione di non essere perseguiti». Le convenienze diplomatiche, insomma, mettono la briglia, in nome della riconciliazione nazionale, alla giustizia internazionale.
Un rimedio ci sarebbe: la Corte penale internazionale dell’Onu istituita a Roma nel 1998. «La Corte è nata anche per agire come deterrente di futuri crimini di guerra» sostiene Del Ponte. «Può dissuadere dall’assumere il genere di decisioni prese dallo sterminatore Pol Pot in Cambogia o dai leader genocidiari in Ruanda, dai comandanti della Milizia in Sierra Leone o da Saddam Hussein in Iraq». Cina, Russia e Stati Uniti però non hanno ratificato quel trattato.

———-Questo articolo è tratto da “Crimini impuniti” di Aldo Carioli, pubblicato su Focus Storia 24 (ottobre 2008). Leggi anche il nuovo numero di Focus Storia ora in edicola.

Vuoi rimanere aggiornato sulle nuove tecnologie per la Didattica e ricevere suggerimenti per attività da fare in classe?

Sei un docente?

soloscuola.it la prima piattaforma
No Profit gestita dai

Volontari Per la Didattica
per il mondo della Scuola. 

 

Tutti i servizi sono gratuiti. 

Associazione di Volontariato Koinokalo Aps

Ente del Terzo Settore iscritta dal 2014
Tutte le attività sono finanziate con il 5X1000