Viviamo tutti più a lungo (anche gli uomini)

Come sta la popolazione mondiale? In generale, viviamo più a lungo, mentre il vantaggio di longevità delle donne rispetto agli uomini si fa ovunque più sfumato. A fotografare le tendenze sulla durata della vita globale è uno studio dell’Università di Alcalá (in Spagna) pubblicato su PLOS ONE.

Come si cambia. I ricercatori si sono chiesti se negli ultimi 30 anni le traiettorie di mortalità nei vari Paesi del mondo siano cresciute in modo convergente o divergente, se cioè le differenze in parametri come l’aspettativa di vita si facciano più lievi o più accentuate, quando si considerano diverse aree geografiche. L’analisi, che ha preso in considerazione 8 diversi indicatori di mortalità nei dati di 194 nazioni, ha concluso che le tendenze registrate nei vari Paesi sono suddivisibili in cinque macro-gruppi, che rispecchiano pressapoco la divisione per continenti. 

Due cose in comune. Nonostante queste differenze territoriali, due tendenze sembrano accomunare ogni area del mondo. L’aspettativa di vita sta aumentando in tutti e cinque i gruppi di convergenza e in tutti i Paesi considerati, mentre il divario nell’aspettativa di vita tra uomini e donne (a favore delle seconde) si sta riducendo. Gli scienziati hanno usato gli stessi modelli statistici impiegati per l’analisi per realizzare proiezioni della situazione al 2030, e hanno riscontrato che queste due tendenze proseguiranno.

Il ruolo del cromosoma Y. Tra tutti e cinque i sottogruppi di convergenza (ossia i raggruppamenti dei vari Paesi in base a caratteristiche demografiche comuni), l’Africa è la regione con i cambiamenti più significativi quanto a indicatori di mortalità. Anche nei Paesi ad alto reddito, che fanno parte di un altro sottogruppo, questi valori continuano a migliorare, sebbene a un ritmo meno marcato.

L’attenuata differenza nell’aspettativa di vita maschile e femminile può dipendere dalle migliorate condizioni degli operai che si prestano a lavori pericolosi, più spesso uomini, ma una certa differenza di longevità è destinata a rimanere in futuro, perché dipende in parte da condizioni genetiche. Il cromosoma Y è infatti associato a un aumentato rischio di mortalità e di malattie legate all’età che avanza.

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Laurea STEM: Focus Gender Gap 2025

FOCUS GENDER GAP 2025

LAUREA STEM: VERSO UNA RIDUZIONE DEL GENDER GAP

Il vantaggio della componente maschile su quella femminile tra i laureati STEM si sta lentamente assottigliando e le ragazze continuano ad avere migliori risultati negli studi. Malgrado questi dati incoraggianti, non ultimo quello che conferma le STEM come le lauree che offrono i migliori tassi occupazionali, pressoché uguali tra donne e uomini, rimane alto il differenziale retributivo, dove gli uomini percepisconoil 12,6% in più rispetto alle donne

(Bologna, 5 marzo 2025) Il focus analizza e confronta le performance, formative e occupazionali, di donne e di uomini e si basa sui più recenti Rapporti realizzati da AlmaLaurea: il Rapporto 2024 sul Profilo dei Laureati di 78 atenei, degli 82 aderenti ad AlmaLaurea, si basa su una rilevazione che coinvolge circa 300 mila laureati del 2023 e, grazie all’elaborazione delle risposte ricevute dai laureati che hanno partecipato alla rilevazione, restituisce un’approfondita fotografia delle loro principali caratteristiche.

Il Rapporto 2024 sulla Condizione occupazionale dei laureati ha coinvolto circa 660 mila laureati di 78 atenei; in particolare ha fotografato la condizione occupazionale a uno, tre e cinque anni dal conseguimento della laurea.

 

LE DONNE E L’UNIVERSITÀ

Il Rapporto 2024 sul Profilo dei laureati mostra chetra i laureati del 2023, dove è nettamente più elevata la presenza della componente femminile (60,0%), la quota delle donne che si laureano in corso è pari al 64,0% (è 57,9% per gli uomini) con un voto medio di laurea uguale a 104,8 su 110 (è 102,9 per gli uomini); occorre sottolineare che ciò è frutto anche dei diversi percorsi formativi intrapresi. In ogni caso, le donne ottengono voti di laurea superiori agli uomini praticamente in tutti i gruppi disciplinari, ad eccezione di quello letterario-umanistico.

 

Le donne si iscrivono all’università spinte da forti motivazioni culturali (30,6% rispetto al 27,6% degli uomini) e svolgono un buon numero di tirocini e stage riconosciuti dal proprio corso di laurea (64,5% delle donne rispetto al 54,9% degli uomini).

Le laureate inoltre provengono in misura maggiore da contesti familiari meno favoriti sia dal punto di vista culturale sia socio-economico. Così il 28,8% delle donne ha almeno un genitore laureato rispetto al 35,2% degli uomini. Peraltro, le donne sono meno coinvolte dal fenomeno dell’ereditarietà del titolo di laurea, soprattutto se quest’ultimo afferisce alle discipline che indirizzano verso la libera professione: tra i laureati a ciclo unico con almeno un genitore con titolo di studio universitario, infatti, ereditano la medesima laurea dei genitori il 33,2% delle donne rispetto al 45,6% degli uomini. Il differenziale di genere permane considerando anche lo status socio-economico: il 20,9% delle donne proviene da una famiglia di estrazione sociale elevata rispetto al 24,8% degli uomini. Non stupisce quindi che tra le donne sia maggiore la percentuale di chi ha usufruito di borse di studio: il 28,5% delle donne rispetto al 23,9% degli uomini.

 

LE DONNE E IL MERCATO DEL LAVORO

Il Rapporto 2024 sulla Condizione occupazionale dei laureati registra ancora una volta significative e persistenti disuguaglianze di genere.

Su tale aspetto AlmaLaurea ha sviluppato un approfondimento ad hoc evidenziando che tra i laureati di secondo livello, a cinque anni dal conseguimento del titolo, le differenze di genere, in termini occupazionali, si confermano significative e pari a 3,4 punti percentuali: il tasso di occupazione è dell’86,8% per le donne e del 90,2% per gli uomini.

A un lustro dal titolo tra le donnesono meno diffusi i contratti alle dipendenze a tempo indeterminato (49,9% rispetto al 56,1% degli uomini), mentre risultano più frequenti i contratti a tempo determinato (17,0% rispetto al 9,9% degli uomini).

È naturale che queste differenze siano legate anche alle diverse scelte professionali maturate da uomini e donne; queste ultime, infatti, tendono più frequentemente a inserirsi nel pubblico impiego e nel mondo dell’insegnamento, notoriamente in difficoltà nel garantire, almeno nel breve periodo, una rapida stabilizzazione contrattuale.

Le differenze di genere si confermano anche dal punto di vista retributivo, si parla del c.d. Gender Pay Gap. A cinque anni dal titolo, tra i laureati di secondo livello che hanno iniziato l’attuale attività dopo la laurea e lavorano a tempo pieno, le donne dichiarano di percepire 1.711 euro netti mensili, rispetto ai 1.927 euro degli uomini, con un differenziale del 12,6%.

I dati evidenziano differenze anche rispetto al tipo di professione svolta: a cinque anni dal titolo svolge un lavoro a elevata specializzazione (compresi gli imprenditori e l’alta dirigenza) il 63,1% delle donne e il 65,9% degli uomini.

 

In termini di efficacia del titolo nel lavoro svolto, misura soggettiva di coerenza tra studi compiuti e lavoro svolto in quanto si basa su valutazioni espresse dai laureati occupati, però, le differenze si attenuano notevolmente: infatti ritiene il titolo “efficace o molto efficace” per lo svolgimento del proprio lavoro il 76,4% delle donne occupate e il 74,9% degli uomini occupati.

Anche se, nelle dichiarazioni rese a cinque anni dalla laurea, non si evidenziano differenze di genere in merito alla soddisfazione complessiva per il lavoro svolto, su alcuni aspetti le donne sono leggermente meno soddisfatte del proprio lavoro. In particolare, sono meno gratificate dalle opportunità di contatti con l’estero, dalle prospettive di guadagno e di carriera, dalla flessibilità dell’orario di lavoro e dal prestigio derivato dall’attività svolta. Fa eccezione, denotando una maggiore soddisfazione nella componente femminile, l’utilità sociale del lavoro e la coerenza con gli studi compiuti.

 

La lettura dei dati conferma che le donne sono più penalizzate sul lavoro se hanno figli. Il forte divario in termini occupazionali e retributivi tra donne e uomini, infatti, aumenta in presenza di figli.

Isolando quanti non lavoravano alla laurea, il differenziale occupazionale a cinque anni dal conseguimento del titolo è pari a 2,3 punti percentuali tra quanti non hanno figli (il tasso di occupazione risulta pari all’86,8% per le donne, rispetto all’89,1% per gli uomini); tale differenzialesale addirittura a 18,2 punti percentuali tra quanti, invece, hanno figli (il tasso di occupazione risulta pari al 76,7% per le donne, rispetto al 94,9% per gli uomini). Anche in termini retributivi si confermano differenze significative (in tale analisi si considerano quanti hanno iniziato l’attuale lavoro dopo la laurea e lavorano a tempo pieno): se tra i laureati senza figli il differenziale retributivo è del 12,0%, tra i laureati con figli tale differenziale retributivo tende a raddoppiare (+21,0%).

 

LAUREATE NEI PERCORSI STEM: PIU’ BRAVE MA COMUNQUE PENALIZZATE

L’Indagine sul Profilo dei laureati 2023 mette in evidenza la diversa composizione per genere tra i laureati STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), dove la componente maschileè più elevata e raggiunge il 58,6%, rispetto al 41,4% di quella femminile; ciò riguarda in particolare i gruppi Informatica e tecnologie ICT e quello di Ingegneria industriale e dell’informazione, dove la presenza maschile supera addirittura i due terzi. Tale risultato è in controtendenza con quanto rilevato sul complesso dei laureati 2023 dove, al contrario, è la componente femminile ad essere preponderante rispetto a quella maschile. Negli ultimi anni, tuttavia, tra i laureati STEM il vantaggio della componente maschile si sta leggermente riducendo: nel 2019, infatti, gli uomini rappresentavano il 59,8% mentre le donne il 40,2%, con un differenziale di quasi 20 punti. 

 

Laureate STEM più motivate e con performance migliori

Le donne si iscrivono ad un percorso STEM spinte da forti motivazioni culturali (30,3% rispetto al 25,0% degli uomini, +5,3 punti percentuali) e svolgono un buon numero di tirocini e stage riconosciuti dal proprio corso di laurea (61,3% delle donne rispetto al 49,2% degli uomini, ben 12,1 punti percentuali in più degli uomini). Le differenze di genere in ambito STEM su questi aspetti sono superiori a quelle registrate sul complesso dei laureati del 2023.

Le donne, tradizionalmente più performanti negli studi universitari, sia in termini di voto sia in termini di regolarità negli studi, mostrano risultati migliori rispetto agli uomini anche nei percorsi STEM: sono infatti caratterizzate da un voto medio di laurea più alto (104,5 su 110, rispetto al 102,6 degli uomini) e da una migliore riuscita in termini di regolarità negli studi (tra le donne il 58,1% ha concluso gli studi nei tempi previsti rispetto al 52,7% degli uomini). Sulla riuscita universitaria le differenze di genere nell’ambito STEM sono in linea con quelle del complesso dei laureati.

 

Stabilità, utilità sociale, indipendenza: queste le aspettative delle donne STEM

Il 68,2% delle donne, rispetto al 61,3% degli uomini intendono proseguire la propria formazione; inoltre, le laureate STEM nella ricerca del lavoro danno maggiore rilevanza ad alcuni aspetti.

Le donne ricercano più degli uomini lavori stabili (il 76,9%, +11,5 punti percentuali) e danno maggiore importanza rispetto ai colleghi all’utilità sociale del lavoro (il 45,4%, +11,6 punti percentuali) e all’indipendenza/autonomia (il 63,8%, +9,5 punti percentuali). È interessante notare che la rilevanza attribuita dalle donne in area STEM a questi tre aspetti del lavoro è in costante aumento dal 2015 al 2023, precisamente per la stabilità (+6,4 punti percentuali rispetto al 2015), per l’utilità sociale del lavoro (+8,8 punti percentuali) e per l’indipendenza e autonomia (+15,6 punti percentuali).

 

Il gender gap nel mondo del lavoro per le laureate STEM è in lieve flessione ma le donne sono comunque ancora penalizzate  

L’Indagine sulla Condizione occupazionale a cinque anni dal conseguimento del titolo di secondo livello mostra elevati livelli occupazionali sia per gli uomini sia per le donne: tra i laureati STEM, infatti, il tasso di occupazione è pari al 90,1% per le donne e al 92,6% per gli uomini, con un differenziale pari a -2,5 punti percentuali (è -3,4 punti sul complesso dei laureati di secondo livello). Tale differenziale risulta più che dimezzato rispetto a quanto rilevato nel 2019 tra i laureati STEM(-5,9 punti percentuali sempre a svantaggio delle donne).

Figura 1     Laureati di secondo livello dell’anno 2018 occupati a cinque anni dalla laurea: tasso di occupazioneper genere e ambito disciplinare (valori percentuali)

Fonte: AlmaLaurea 2024, Indagine sulla Condizione occupazionale dei Laureati.

Isolando coloro che hanno iniziato l’attuale attività lavorativa dopo la laurea e lavorano a tempo pieno, tra i laureati STEM la retribuzione mensile netta è, in media, di 1.798 euro tra le donne e 2.025 euro tra gli uomini. Anche in termini retributivi, dunque, gli uomini risultano avvantaggiati rispetto alle donne, percependo il 12,6% in più (valore in linea con il dato rilevato sul complesso dei laureati di secondo livello).

L’analisi temporale, tuttavia, mostra una tendenziale riduzione del gender pay gap (nel 2019, infatti, tra i laureati STEM gli uomini percepivano il 19,0% in più rispetto alle donne).

 

In termini di caratteristiche del lavoro svolto, tra le donne STEM si rileva una minore diffusione dei contratti alle dipendenze a tempo indeterminato (-15,1 punti percentuali) e una maggiore diffusione delle attività in proprio (+5,0 punti; si tratta in particolare di studi professionali di architettura), dei contratti alle dipendenze a tempo determinato (+4,9 punti) e delle attività sostenute da borsa o assegno di studio o di ricerca (+3,5 punti).

 

Le donne STEM rilevano una maggiore coerenza tra studi compiuti e lavoro svolto

In termini di efficacia, tra i laureati STEM si rilevano livelli in linea con il complesso dei laureati di secondo livello: oltre il 75% ritiene la laurea efficace o molto efficace per il lavoro svolto. Le donne dichiarano livelli di efficacia superiori rispetto agli uomini (78,3% e 75,1%, rispettivamente), evidenziando un differenziale pari a 3,2 punti percentuali, valore doppio rispetto alla media complessiva (+1,5 punti sempre a vantaggio delle donne). Il confronto con l’analoga rilevazione del 2019 evidenzia inoltre un tendenziale aumento del differenziale di genere nei livelli di efficacia (tra i laureati STEM era 2,6 punti percentuali, sempre a favore delle donne).

AlmaLaurea è un Consorzio Interuniversitario fondato nel 1994 che a oggi rappresenta 82 Atenei.Il Consorzio è sostenuto dal contributo del Ministero dell’Università e della Ricerca e dagli Atenei aderenti. Il suo Ufficio di Statistica è dal 2015 membro del Sistan, il Sistema Statistico Nazionale.

Il Consorzio realizza ogni anno due Indagini censuarie sul Profilo e sulla Condizione occupazionale dei Laureati a 1, 3 e 5 anni dal conseguimento del titolo, restituendo agli Atenei aderenti, al Ministero dell’Università e della Ricerca, all’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) basi documentarie attendibili per favorire i processi di programmazione, monitoraggio e valutazione delle decisioni assunte dalle Università. Il Consorzio vuole essere anche un punto di riferimento per i diplomati e per i laureati di ogni grado, ai quali AlmaLaurea offre strumenti di orientamento, servizi, informazioni e occasioni di confronto tra pari, per valorizzare il loro percorso formativo e facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro. Il Consorzio raccoglie e rende disponibili online i CV dei laureati (oggi oltre 4.000.000) e affianca gli Atenei consorziati nelle attività di job placement attraverso una piattaforma web per l’intermediazione.

Favorisce, inoltre, l’incontro tra offerta e domanda di lavoro qualificato tramite la società interamente controllata AlmaLaurea srl, Agenzia Per il Lavoro (APL) che opera principalmente nell’intermediazione e nella ricerca e selezione del personale, progettando ed erogando servizi – rivolti a imprese, enti e professionisti – concepiti e offerti nell’interesse primario dei laureati e in sinergia con gli Atenei e con le Istituzioni pubbliche competenti. Il Consorzio internazionalizza i propri servizi, le competenze, le attività di ricerca in prospettiva globale, collaborando con Paesi europei – in linea con la Strategia di Lisbona – ed extra europei.

Dall’esperienza di AlmaLaurea è nata l’associazione AlmaDiploma ETS, per creare un collegamento tra la scuola secondaria superiore, l’università e il mondo del lavoro.

 

Il boom delle università telematiche in Italia: l’impatto sull’istruzione superiore

Molti si stupiranno nel constatare che il più grande Ateneo italiano non è più Università degli Studi la Sapienza di Roma, che conta nell’Anno Accademico 2023/2024, 111.960 iscritti – secondo i dati Ustat, 2024 – ma il Gruppo Multiversity SPA. Si tratta di una società di capitali privata, che annovera tra le sue Università in Italia 169.020 iscritti.Devono, infatti, essere sommati i 99.556 iscritti all’Università Telematica Pegaso con i 56.335 dell’Università Digitale Mercatorum e i 13.1292 iscritti dell’Università Telematica San Raffaele di Roma. Multiversity è proprietà di un fondo di investimento britannico CVC Capital partners a sua volta di proprietà del colosso bancario e finanziario statunitense Citigroup. Questo dato è sorprendente com’è stata sorprendete la crescita delle Università telematiche in Italia dal 2004 a oggi.Indice degli argomenti
Nascita ed evoluzione degli atenei telematici in ItaliaGli undici Atenei telematici italiani – la didattica si svolge direttamente on-line e sono Università senz’aule, se non virtuali – sono stati istituiti durante il secondo governo Berlusconi, sotto la guida della Ministra Moratti (Tipolo III, Capo 2, art. 26, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289) e attivati secondo le norme del Decreto Ministeriale del 17 aprile 2003, noto come “Decreto Moratti-Stanca”. Il primo Ateneo telematico a nascere è stato nel 2004 l’Università “Guglielmo Marconi” (D.M, MIUR, 1 marzo 2004). Successivamente, la loro crescita numerica che era arrivata a 13 Atenei, è stato limitata dal secondo governo Prodi, nel 2006, quanto Ministro Mussi, ha bloccato per l’accreditamento di nuove Univeristà telematiche (art. 2, comma 148 del DL 3 ottobre 2006, n. 262).Per oltre due decenni gli Atenei telematici hanno operato in un quadro normativo “speciale”, se non “anomalo” e molto più favorevole rispetto a quello delle università del sistema pubblico tradizionale. In particolare, la differenza più rilevante rispetto, rispetto agli Atenei pubblici era stabilita dal numero di docenti necessario per attivare un Corso di laurea che era definito della Legge del 2003, nella metà di docenti necessari per attivare un Corso di Laure nelle Università pubbliche tradizionali. Bastavano tre docenti di ruolo al posto di sei per le lauree triennali e due al posto di quatto per le magistrali.Il Decreto, che ha istituito le Università telematiche definiva, poi, un tempo di tre anni per raggiungere questi requisiti minimi di docenza, necessarissimi, ovviamente, per garantire la qualità della didattica e della formazione in uscita delle studentesse e degli studenti. Ma i governi che si sono susseguiti, soprattutto quelli di centro-destra, hanno sempre avuto sempre un occhio di riguardo per le Università telematiche private e sono stati molto elastici nel far rispettare le norme relative ai requisiti minimi di docenza e di verifica della qualità della didattica delle università telematiche. Dopo la legge Moratti-Stanca del 2003 e il Decreto Mussi, la vita di questi atenei è stata di volta in volta normata da decreti triennali, a partire dalla legge Gelmini del 2010, che hanno regolato in forma “speciale” la crescita degli Atenei telematici. Da questo punto di vista e come hanno notano Iannantuoni e Marra: “tutte le telematiche hanno potuto godere sino a oggi di un grosso vantaggio competitivo in termini di costo nei confronti delle università tradizionali. Come già veniva segnalato in un articolo del 2016 su lavoce.info (De Paola, Jappelli 2016), il corpo docente delle università telematiche era sin da allora costituito prevalentemente da professori a tempo determinato” (Iannantuoni, Marra 2016).Un successivo decreto ministeriale del 2019 ha, poi, ulteriormente modificato la situazione, introducendo requisiti di accreditamento più blandi, avvantaggiando così ancora di più, su questo versante, le università telematiche private, tanto da far sospettare a molti che queste costituissero, soprattutto per i governi di centro-destra, uno strumento “indiretto” di privatizzazione “strisciante” del sistema universitario italiano. Dopo questa precisazione, e prima di formulare una serie di ragionamenti sulle criticità e i rischi legati al successo delle Università telematiche, analizziamo come in questi vent’anni, il numero degli studenti di questi atenei sia cresciuto in modo molto rilevante.L’impetuosa crescita delle Università telematicheCome dimostra, l’ultimo Rapporto ANVUR (2023) le immatricolazioni registrate nelle Università telematiche seguono una tendenza di aumento costante rispetto delle Università del sistema pubblico. Nello specifico, tra l’anno 2013/2014 e l’anno 2022/2023, in soli 9 anni, il numero delle immatricolazioni registrate in questi Atenei è infatti più che quintuplicato, passando da 4.827 a 26.108 immatricolazioni per Anno Accademico. È stata la pandemia, a favorire determinare l’emersione definitiva del fenomeno. Se passiamo dalle “immatricolazioni” alle iscrizioni” e. cioè al totale degli studenti che stanno effettivamente “frequentando” le università telematiche in modo attivo il dato è ancora maggiore. Osservando l’intervallo temporale tra l’Anno Accademico 2013/2014 e il 2023/2024 emerge, anche in questo caso, come il numero degli iscritti “telematici” è più che quintuplicato, passando da 52.118 a 273.762 iscritti. In percentuale il numero degli iscritti alle università telematiche era, nel 2013, pari al’ 3,1% del sistema universitario e nel 2024 tale percentuale si è assestata al 14,0% del totale.I fattori di criticità delle Università telematiche privateNel nostro paese le Università private – prima della crescita esponenziale degli Atenei telematici – sono state una realtà presente, anche se decisamente minoritaria: il 6,5% degli iscritti nell’ Anno Accademico 2022/2023. Le università private “tradizionali” italiane però, si sono sempre uniformate, secondo il modello tedesco, che risale a Von Humboldt (1810), con il ruolo pubblico e nazionalmente regolato della formazione terziaria. Inoltre, prima delle telematiche, le Università private in Italia facevano riferimento a realtà ed istituzioni molto radicate nella società italiana – la Chiesa Cattolica o la Confindustria, ad esempio – che ne garantivano, l’affidabilità e la solidità istituzionale e scientifica, è per questo che di seguito le considereremo, come parte del sistema pubblico dell’istruzione terziaria italiano. Oggi però più di 270.000 mila studenti sono al di fuori di questo sistema e frequentano le “nuove” Università telematiche “private” che agiscono, spesso, come società di capitali finalizzate al profitto.Università o imprese votate al profitto?Questo è confermato dal “Parere” dalla Sezione Normativa del Consiglio di Stato che ha autorizzato, su richiesta dell’Ateneo telematico Pegaso, questi Atenei ad adottare la forma di una società di capitali (14 maggio 2019 n°1433). Il 5 luglio 2019 è stato pubblicato il Decreto del Presidente del Consiglio di amministrazione dell’Università telematica Pegaso (Gazzetta ufficiale, Serie generale n. 156), che ne modifica lo Statuto, mediante adozione della forma giuridica della società a responsabilità limitata, assumendo la denominazione di “Università telematica Pegaso S.r.l.”. Se si escludono, infatti, UniTelma (4000 iscritti) che fa capo all’Università Statale La Sapienza di Roma, e la IUL (promossa da INDIRE) con meno di 2000 iscritti, gli altri Atenei telematici sono o posso divenire a pieno titolo “imprese” che hanno come ragione sociale il profitto e non la crescita della ricerca di base e/o applicata o quella competenza e del livello culturale degli studenti. Questa “novità” nel panorama dell’istruzione universitaria italiana rende necessaria una profonda riflessione sull’effettiva rispondenza al dettato costituzionale di una parte, non ininfluente, il 14 % degli studenti del sistema universitario italiano (Ustat, 2024). L’articolo 33 della Costituzione sancisce, infatti, “che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento, garantendo alle università e alle accademie il diritto all’autonomia nei limiti delle leggi dello Stato”. La Corte costituzionale (sentenza n. 1017/1988) ha sottolineato che questa autonomia, intesa in senso ampio – normativa, didattica, scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile – è strettamente legata alla libertà di ricerca e insegnamento, principi fondamentali per preservare l’indipendenza delle istituzioni di alta cultura da qualsiasi influenza, inclusi gli interessi commerciali.La domanda che ci poniamo è però piuttosto radicale. Saranno davvero liberi gli Atenei telematici italiani che hanno nel profitto economico la loro prima priorità nella governance? Ma soprattutto la qualità della didattica e della ricerca di queste università non sarà condizionata dalla loro finalità quasi esclusivamente profit? Per rispondere a queste domande analizziamo i risultati del Rapporto ANVUR 2023 dedicato all’analisi della qualità del sistema universitario italiano, come base per sviluppare il ragionamento sulle criticità che emergono nel panorama delle Università telematiche italiane.Un rapporto docenti studenti squilibratoSe è vero che le Università telematiche hanno ampliato significativamente l’accesso all’istruzione superiore – un fenomeno che può, essere interpretato positivamente in termini di democratizzazione dell’istruzione soprattutto per studenti tradizionalmente svantaggiati: lavoratori o studenti residenti in aree periferiche – è vero, anche, che questa maggiore “accessibilità” ha in Italia un costo qualitativo. ANVUR rimarca; “L’’effetto combinato della riduzione dei requisiti di docenza richiesti per l’accreditamento dei corsi di studio, a fronte comunque di un aumento del numero dei docenti contestuale all’esplosione nel numero di iscritti, ha determinato il rilevante aumento del rapporto studenti/docenti, che è passato da 152,2% del 2012 a 384,8% del 2022 – un indicatore di circa tredici volte superiore rispetto alle università tradizionali, ANVUR 2023, p. 17). Questo dato suggerisce che l’ampliamento quantitativo avviene, come vedremo, a scapito della qualità della didattica. Gli Atenei telematici rischiano, in questo modo, di creare lauree di “seconda classe”, con un valore percepito inferiore dei titoli rilasciati rispetto a quelli delle Università del sistema pubblici. Questo potrebbe aumentare le disuguaglianze piuttosto che ridurle.Una didattica più standardizzata rispetto agli Atenei pubbliciLo squilibrio nel rapporto tra docenti/studenti può portare le Università telematiche a basarsi su modelli didattici molto standardizzati, che spesso privilegiano l’efficienza operativa rispetto alla profondità del processo didattico e all’approfondimento disciplinare. All’interno nelle Università telematiche si possano riscontrare i seguenti “indicatori” di rigidità didattica: utilizzo predominante videolezioni in fruizione asincrona;gli esami che sono spesso costituti/sostituiti da test a scelta multipla online, che sebbene pratici, riducono la complessità del processo di valutazione, compromettendo la capacità degli studenti di sviluppare pensiero critico e competenze trasversali.l’”anomalo” rapporto tra docenti/studenti, inoltre, obbliga a limitare fino ad annullare l’interazione diretta o sincrona tra studenti e docenti e tra studenti e studenti.  La standardizzazione dell’offerta didattica è ulteriormente aggravata dalla moltiplicazione dell’offerta didattica delle telematiche. Il Rapporto ANVUR 2023 segnala come “osservando l’offerta formativa delle università tradizionali (5.031 corsi di studio nell’a. A. 2021/22) e quella delle università telematiche 149 corsi di studio nell’a.a. 2021/22) si nota, rispetto all’a.a. 2011/12, il sostanziale raddoppio dei Corsi di Laurea erogati dalle seconde, a fronte di un incremento del 10% circa (poco meno di 500 corsi) delle università tradizionali” (ANVUR 2023, p. 25”.I risultati delle valutazioni ANVUR: le università pubbliche meglio delle telematicheA chiudere questo elenco di criticità che emergono nel confronto tra università telematiche e Università pubbliche vanno considerate le “valutazioni” che la stessa ANVUR ha condotto sull’operato di tutte le università italiane, nel corso delle varie visite di accreditamento periodico, avviate a partire dal 2014. Se mettiamo a confronto i giudizi ottenuti dalle Università pubbliche e quelli delle Università telematiche, in questi otto anni la differenza è molto chiara ed il confronto sembra impari.Fig 2 Le valutazioni ANVUR delle università tradizionaliFig 3 Le valutazioni delle Università telematicheLe università del sistema pubblico, secondo l’ANVUR, mostrano una valutazione molto più positiva, con i risultati delle visite periodiche “Molto Positivi” o “Pienamente Soddisfacenti” che si attestano sopra il 46%. Un risultato che riflette il rispetto di standard qualitativi più elevati, in particolare per quanto riguarda il rapporto studenti/docenti e l’organizzazione didattica.Se consideriamo, invece, le università telematiche il panorama è molto differente. Solo una piccola percentuale delle sedi telematiche riceve giudizi “Pienamente Soddisfacente” (11%) e nessuna raggiunge il livello “Molto Positivo”. La maggioranza delle sedi telematiche è valutata come “Soddisfacente” (42,1%) o addirittura il loro accreditamento è “Condizionato”, aggettivo che indica la necessita di notevoli interventi di riprogettazione dei corsi di Laurea e accrescimento del corpo docente (13%), pena la disattivazione del Corso.La distribuzione geografica mostra notevoli disparità, anche tra le università pubbliche tra Nord-Ovest e il Nord-Est che ottengono i risultati migliori rispetto al Sud e alle Isole, dove le valutazioni “Condizionato” per le telematiche sono significativamente più alte (fino al 33,3%), mentre tra le pubbliche questa valutazione è quasi assente.Questi dati confermano alcune delle criticità strutturali già discusse più sopra e rafforzano la percezione di una polarizzazione tra università tradizionali e telematiche, in cui queste ultime rischiano di produrre laureati che potrebbero non avere le stesse opportunità rispetto al mondo del lavoro rispetto a quelli di molte università pubbliche.I rimedi per le telematiche dei ministri Messa e Bernini: due punti di vista differentiPer porre rimedio a queste gravi criticità, già nel 2021 l’allora Ministro Cristina Messa emanò il Decreto Ministeriale n. 1154, che in sostanza prevedeva, il riallineamento degli Atenei telematici ai criteri ed ai requisiti minimi di docenza per gli Atenei pubblici: 9 docenti per i Corsi di Laurea Triennali (più tre tutor disciplinari per le telematiche); 6 docenti per le lauree Magistrali (più 2 tutor di riferimento per le telematiche) e 15 e 18 docenti per le magistrali a ciclo unico di 5 e 6 anni. Inoltre, per riequilibrare il rapporto tra docenti e studenti nel Decreto Ministeriale n. 1154 del 14 ottobre 2021, la numerosità massima degli studenti nei differenti corsi di laurea, viene resa eguale tra atenei in presenza e telematici. Si trattava di una vera “stretta” per obbligare le telematiche a migliorare la qualità della didattica e della docenza. Tutti questi obiettivi, poi, dovevano essere raggiunti entro il 30 novembre 2024.Le sanzioni per chi non si fosse uniformato, sarebbero state molto pesanti e avrebbero previsto la chiusura dei Corsi di Laurea e il mancato accreditamento degli Atenei. Ovviamente le Università telematiche sarebbero state messe in gravissima difficoltà dal “Decreto Messa” e per questo questi gli Atenei telematici hanno provato, più volte a bloccarlo. Sono stati presentati ricorsi al TAR del Lazio, ma la Sezione Terza ha respinto le loro istanze; queste si sono, successivamente appellate al Consiglio di Stato, che a dato loro nuovamente torto (sentenza n. 1157 del 5 febbraio 2024).Le telematiche hanno poi confidato sull’emendamento al Decreto Milleproroghe 2024 presentato da alcuni deputati della Lega (Ravetto, Stefani, Bordonali, Ziello e Iezzi), che rimandava di un anno gli obblighi ad uniformarsi ai criteri del DM Ministeriale n. 1154 (il “Decreto Messa”. L’emendamento ottenne, però, il parere contrario dalla Ministra Bernini, succeduta a Cristina Messa dopo al la caduta del Governo Draghi al Ministero dell’Università.Per risolvere questa situazione di empasse il Ministro Bernini e il centro-destra, ora al governo, hanno assunto un atteggiamento più “dialogante” con le Università telematiche e hanno rinnovato le attività di un gruppo di lavoro ministeriale già istituito dalla ministra Messa (Decreto Ministeriale 294/2021) che aveva da tempo smesso di funzionare. Questa situazione si è protratta fino ad autunno inoltrato. Il 6 Dicembre del 2024 la Ministra Bernini ha emanato un decreto (Decreto Ministeriale 6-12-2024 n 0001835e) che rappresenta una “mediazione”, anche se nella forma prevede norme anche più rigide di quello Messa per le Università telematiche.Bernini rispetto al “Decreto Messa” prevede, infatti, l’obbligo per gli atenei telematici di realizzare almeno il 20% delle lezioni on-line in forma sincrona ed inoltre, prevede, la necessità di svolgere “in presenza” gli esami di profitto, salvo deroghe per emergenze temporanee o disabilità accertate (fino ad ora gli esami potevano svolgersi on-line).Il “Decreto Bernini”, però, rappresenta una “mediazione” rispetto al Decreto Ministeriale n. 1154, perché consente alle Università telematiche una numerosità degli studenti doppia per i singoli corsi di laurea rispetto alle Università tradizionali (il decreto del 2021 allineava, come abbiamo visto, agli stessi numeri università telematiche e università pubbliche) e questo aiuta le telematiche nel raggiungere i requisiti minimi, oltre che nel moltiplicare gli introiti.Ma, ciò, che rappresenta un cambio di linea deciso rispetto all’impostazione del governo Draghi è il fatto che il termine per il raggiungimento dei requisiti minimi fissato nel Decreto del 2021 inderogabilmente al 30 Novembre 2024 è stato posticipato e non di poco. Il decreto avrà validità dall’anno accademico 2024-2025, con la possibilità, per gli Atenei telematici di sottoscrivere con l’ANVUR piani di raggiungimento “dei predetti requisiti secondo le modalità indicate dall’articolo 4 del decreto ministeriale 1154/2021, da conseguire non oltre un numero di anni corrispondenti alla durata normale dei corsi incrementato di tre. Per i piani di raggiungimento adottati in relazione ai corsi di studio accreditati sino all’a.a. 2024/2025 la durata è pari alla durata normale dei corsi incrementato di uno” (Decreto Ministeriale 6-12-2024 n 0001835, p. 5). Ciò significa che il “Decreto Bernini” concede almeno altri tre anni alle telematiche per uniformarsi alla normativa, per questo le opposizioni hanno parlato di un decreto “salva telematiche”.ConclusioniIl “Decreto Bernini” contiene certamente elementi di novità che, forse, permetteranno di migliorare la qualità dell’offerta formativa delle Università telematiche italiane così come di ridurre il loro rapporto docenti/studenti ma rappresenta un deciso arretramento normativo rispetto al “Decreto Messa” del 2021. La volontà del Ministro Messa era quella di “obbligare” le telematiche a ridimensionare si la ratio “docenti-studenti” che si attesta nel 2022/23, al numero, francamente insostenibile, di 384 studenti per docente, mentre le università tradizionali, pur al di sotto sia della media UE sia di quella OCSE, si attestano a 28 studenti per docente (ANVUR, 2023). Bernini per così dire “allunga” di molto i tempi per la riforma delle telematiche. La sua linea pare, perciò, in linea con le posizioni del centro-destra, negli ultimi venti anni, rispetto alle università telematiche (Ferri, 2017). Si tratta di una politica “accomodante” che privilegia la sostenibilità economica degli Atenei telematici privati a scapito della qualità della loro offerta formativa e didattica. Se si combina questo atteggiamento “accomodante” verso le telematiche con i tagli previsti dalla Finanziaria per il 2025 agli Atenei e alla ricerca pubblica è legittimo sospettare che il centro-destra agevoli in questo modo in maniera diretta o indiretta una progressiva privatizzazione “strisciante” di una parte non piccola del sistema universitario italiano. Solo il tempo, però, ci dirà se questo sospetto corrisponde a realtà, e soprattutto se finalmente, dopo vent’anni di rinvii gli Atenei telematici italiani, cesseranno di essere una “anomalia tutelata” del sistema universitario italiano e cominceranno finalmente a “competere” ad armi pari con le università pubbliche e private italiane, non solo quanto a numero di iscritti ma anche per la qualità della ricerca e della didattica.BibliografiaANVUR, (2023), Rapporto sul Sistema della formazione superiore e della ricerca. Sintesi, disponibile al sito https://www.anvur.it/wp-content/uploads/2023/06/Sintesi-Rapporto-ANVUR-2023.pdfDe Paola, M., Jappelli. T., (2016),” Per le lauree online un sostegno di troppo”, La voce.info, disponibile al sito: https://lavoce.info/archives/40790/per-le-lauree-online-un-sostegno-di-troppo/Ferri, P. (2017) “Università online, l’Italia tra gravi ritardi ed esamifici virtuali”, Agenda digitale disponibile al sito: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/universita-online-l-italia-tra-gravi-ritardi-ed-esamifici-virtuali/Iannantuoni, G., Marra A. “Più rigore sulle università telematiche”, Lavoce.info, disponibile al sito:von Humboldt, W. (1810), “Uber die inner und äussere Organisation der höheren wissenschaftlichen anstelten in Berlin”, tr. it., L’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a Berlino, a cura di Pievatolo, M. C. (2017)Forse anche Uninettuano che con i suoi 17.000 iscritti è stata fondata da un network di università pubbliche ↑

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