Il Viagra riduce il rischio di Alzheimer?

Nella decennale rincorsa a un farmaco che possa curare l’Alzheimer, il Viagra sembra un candidato assai improbabile. Per questo suscita curiosità una ricerca, appena pubblicata su Neurology, secondo la quale il farmaco contro la disfunzione erettile potrebbe anche ridurre il rischio di questa forma di demenza. 

Dati a confronto. Nello studio coordinato da Ruth Brauer, farmacoepidemiologa della Scuola di Farmacia dell’University College of London, sono stati analizzati i dati registrati in pubblici database sulla salute di circa 270.000 uomini del Regno Unito senza segni clinici di demenza e ai quali cui era stata diagnosticata una disfunzione erettile. Gli scienziati hanno confrontato il tasso di Alzheimer diagnosticato nei cinque anni successivi nei pazienti a cui era stato prescritto il Viagra, o un farmaco della stessa classe, e in quelli in cui non era stato prescritto (la modifica di alcuni fattori dello stile di vita è infatti la prima soluzione, spesso efficace quanto la “pillola blu”, ai problemi di disfunzione erettile).

Meno a rischio. Il rischio di Alzheimer nei pazienti a cui era stato prescritto il Viagra è risultato inferiore del 18% rispetto ai pazienti del secondo gruppo. Il tasso di diagnosi della demenza è parso ancora più basso in coloro che avevano ottenuto più di 20 prescrizioni nel periodo di cinque anni considerato dallo studio. La ricerca non ha potuto verificare se in effetti, al di là delle prescrizioni, i pazienti avessero poi utilizzato il farmaco con costanza.

Associazione, non causa-effetto. Lo studio è di tipo osservazionale: si limita a osservare un’associazione e non può dimostrare che il Viagra (o farmaci simili), abbia un effetto protettivo contro l’Alzheimer; o se invece, per esempio, gli uomini sessualmente più attivi e meno a rischio di demenza siano più inclini anche a farsi prescrivere Viagra.

Alcune possibili spiegazioni. Il Viagra appartiene a una classe di farmaci chiamati inibitori della fosfodiesterasi 5 (PDE5) usati nel trattamento contro la disfuzione erettile. Questi medicinali rilassano i vasi sanguigni aumentando il flusso di sangue richiamato nel pene, ma l’effetto potrebbe estendersi anche al cervello, dove la migliorata circolazione potrebbe – ma è soltanto un’ipotesi – aiutare a smaltire l’accumulo di proteine il cui eccesso è tossico, come la beta-amiloide. La presenza di placche di questa proteina è strettamente legata alla malattia di Alzheimer, anche se non è chiaro se ne sia la causa.

Studi su animali dimostrerebbero inoltre che Viagra & co. aumentano indirettamente i livelli di una sostanza chimica importante per la memoria, l’apprendimento e l’attenzione, il neurotrasmettitore acetilcolina.

No a facili conclusioni. Anche per questi ragioni, studi passati avevano già indagato l’associazione tra Viagra e malattia di Alzheimer, con risultati contrastanti. Uno di questi è del 2021 e non aveva trovato alcun effetto protettivo della pillola blu rispetto a una malattia complessa come l’Alzheimer.

Madhav Thambisetty, ricercatore dell’US National Institute on Aging e autore di quello studio, ha spiegato al Guardian che in lavori come questi c’è sempre il rischio di fattori confondenti che non vengono misurati e che possono alterare i risultati, come la qualità del sonno (strettamente legata al rischio di demenze) o il modo in cui i partecipanti si prendono cura del loro diabete, qualora ne siano affetti. Secondo lo scienziato appare poi poco plausibile che un farmaco da usare solo al bisogno come nel caso della disfunzione erettile possa alterare il corso di una malattia cronica, progressiva e degenerativa come l’Alzheimer.

Indagare meglio. Altri ricercatori potrebbero esplorare la connessione tra Viagra e Alzheimer, possibilmente costruendo studi in cui vengano coinvolti anche uomini senza disfuzione erettile, e anche le donne, che sono più spesso colpite dall’Alzheimer.

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Le quattro proteine che predicono l’Alzheimer

L’abbondanza nel sangue di alcune molecole strettamente correlate al rischio di sviluppare demenze rende un po’ più concreta la possibilità di mettere a punto esami del sangue per la diagnosi precoce di malattie come l’Alzheimer. L’analisi di campioni prelevati da oltre 50.000 pazienti ha permesso di identificare quattro proteine che predicono il rischio di demenza in generale, e più nello specifico di demenza di tipo Alzheimer e demenze vascolari, anche 15 anni prima della comparsa dei sintomi. La scoperta è stata pubblicata su Nature Aging.

Una corsa contro il tempo. Ormai da decenni gli scienziati lavorano alla possibilità di individuare l’Alzheimer e altre forme di demenza in uno stadio pre-sintomatico o comunque molto precoce, la fase in cui i pazienti possono beneficiare al massimo delle (poche, costose e ancora rischiose) terapie contro gli accumuli proteici tipici della malattia. Un team di scienziati della Fudan University di Shanghai (Cina) ha analizzato i campioni di sangue congelato prelevati da 52.645 adulti del Regno Unito senza demenza tra il 2006 e il 2010, nell’ambito del progetto di raccolta dati per il database sanitario UK Biobank. A distanza di 10-15 anni, più di 1.400 partecipanti avevano sviluppato una qualche forma di demenza.

A caccia di connessioni. Con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale, i ricercatori hanno studiato le connessioni tra circa 1.500 proteine presenti nel sangue e il rischio di incorrere in una demenza negli anni successivi. Hanno così scoperto che quattro proteine in particolare, chiamate Gfap, Nefl, Gdf15 e Ltbp2, erano presenti in quantità fuori dalla norma in coloro che in seguito avrebbero ricevuto diagnosi di demenza per ogni causa, e più nello specifico di Alzheimer o demenza vascolare (la seconda più comune forma di demenza).

Di che proteine si tratta? La Gfap è una proteina che fornisce supporto strutturale agli astrociti (un tipo di cellula nervosa) e che – così come la Gdf15 – era già stata proposta in passato come possibile marcatore diagnostico per la malattia di Alzheimer. Le persone con alti livelli di Gfap sono risultate due volte più a rischio di sviluppare demenza rispetto alle persone con quantità normali della proteina nel sangue, e quasi tre volte più a rischio di Alzheimer.
Un’altra proteina, la Nefl, è invece legata ai danni alla fibra nervosa; e la Gdf15 può aumentare in risposta al deterioramento dei vasi sanguigni cerebrali. Inoltre, alti livelli di Gfap e di Ltbp2 risultano altamente predittivi per la demenza rispetto ad altre malattie cerebrali: la loro alta concentrazione può iniziare almeno 10 anni prima della diagnosi.

Trovare i più a rischio. Gli scienziati hanno usato algoritmi predittivi per capire quali tra i pazienti che avevano donato il sangue sarebbero incorsi in forme di demenza (potendo poi verificare le loro ipotesi con le diagnosi reali). Hanno dato in pasto a modelli di machine learning i dati sui livelli delle 4 proteine, insieme a indicazioni demografiche come età sesso, livello di istruzione e storia familiare dei partecipanti. Hanno addestrato i modelli con le informazioni relative a due terzi dei volontari, e testato le loro capacità di previsione sui rimanenti 17.549 partecipanti.
Ebbene, gli algoritmi hanno previsto l’incidenza di tre sottotipi di demenza, incluso l’Alzheimer, con un’accuratezza del 90% – e questo, usando campioni raccolti più di 10 anni prima della diagnosi.

Diagnosi precoci, per tutti. Anche se i biomarcatori individuati andranno ulteriormente verificati prima di essere ufficialmente inclusi in un test, la speranza è che possano essere utili per sviluppare sistemi di diagnosi precoce dell’Alzheimer e di altre demenze e – cosa non di poco conto – che questi esami possano avere un prezzo davvero accessibile per essere usati su larga scala. Rispetto agli altri studi su possibili indicatori precoci di forme di demenza, questo (se confermato) avrebbe inoltre il merito di fornire una diagnosi differenziale tra le più comuni forme di declino cognitivo.

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