Cresco, gioco, imparo: alla scoperta degli dei greci

Oggi per la rubrica “crescogiocoimparo” andiamo alla scoperta delle divinità greche.

Creare materiali su questo tema mi è piaciuto tantissimo: PF li adorava e da piccolo avevamo la casa invasa da libri e libretti.

Ecco cosa ho creato:

Per prima cosa ho realizzato un libretto a fisarmonica in cui vengono spiegate le caratteristiche di queste divinità: dove vivevano, com’era la loro relazione con gli uomini…

Ho poi realizzato un libretto a ventaglio dove sono presentate le varie divinità e le loro particolarità: per ognuna una foto, il nome e la descrizione

Per fare divertire i bimbi e rendere l’attività più interattiva ho creato il passaporto delle divinità, in cui i bimbi devono inserire le foto degli dei, il loro nome e i loro poteri

Troverete poi delle marionette da costruire insieme ad un tempio per continuare a giocare con i vari personaggi

Infine ho creato un divertente memory (dovete stampare le carte 2 volte) perfetto per allenare la memoria e la concentrazione ed allo stesso tempo memorizzare i vari nomi.

Scoprite qui tutte le attività proposte nella rubrica crescogiocoimparo.


Trovate tutte le matrici da stampare qui


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Post di Paola Misesti

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Una passeggiata a Capo Sunio, in Grecia

Là dove la terra di Atene si immerge nel mare degli dei, si erge possente il tempio di Poseidone.

Su quel promontorio di roccia il sole lo avvolge, il vento lo consuma e le onde gli sussurrano voci antiche.

Ma dove si trova esattamente questa meraviglia? È in Attica, nel punto più a sud della penisola greca, a una sessantina di chilometri dal centro di Atene, su uno sperone roccioso alto circa 60 metri.

La sua storia inizia intorno al 490 a.C., quando viene iniziato un tempio dorico perìptero esàstilo (cioè con un giro di colonne attorno alla cella e sei colonne in facciata) realizzato in poros, una pietra calcarea molto usata in età arcaica.L’edificio, però, non era affatto arcaico. Le colonne, infatti, rispettavano già il rapporto pari al doppio più una tra il numero di quelle dei fronti e il numero di quelle sui lati, che sarà tipico dell’età classica. Dunque le colonne di questo primo tempio erano già 6×13.
Il tempio non era ancora completo quando, nel 480, i Persiani di Serse distruggono tutti i monumenti dell’Attica. Ma la risposta di Pericle non si farà attendere. Dopo aver avviato i lavori del Partenone e degli altri edifici dell’Acropoli di Atene, vuole ricostruire anche il tempio di Capo Sunio, sia per omaggiare quel dio, Poseidone, che aveva perso nella contesa sull’Attica contro Atena, sia per ripristinare quell’avamposto proteso verso il mare Egeo, simbolo della forza militare e politica degli ateniesi.

E così, tra il 444 e il 440 nasce un nuovo tempio leggermente più grande del precedente ma a quello molto simile, di cui ingloba lo stilobate. Stavolta però è tutto in marmo e presenta alcune importanti novità.

Queste riguardano soprattutto la cella e il suo rapporto con la peristasi: le due ante del lato est sono allineate con la terza colonna mentre quelle del lato ovest (il retro del tempio) sono allineate con la mezzeria della terza colonna. Il risultato è che il portico posteriore è più profondo di quello anteriore, un caso unico nell’intero panorama dei templi greci.

Sembra un dettaglio insignificante ma era attraverso questi particolari che ogni tempio si differenziava dagli altri, alla continua ricerca del modello perfetto.

Un’altra novità assoluta era negli elementi decorativi. Il fregio dorico aveva metope lisce, ma all’interno della trabeazione correva un fregio ionico, cioè una fascia continua con scene in bassorilievo. Nel Partenone questa fascia circondava la parete esterna della cella. Qui invece circondava il deambulatorio. Di quelle sculture rimane solo qualche frammento al Museo Archeologico di Lavrio, a nord di Capo Sunio.

Infine sono inedite anche le colonne. Alte 6,10 metri, presentano un rapporto tra altezza e diametro di base pari a 5,78, una misura che corrisponde a uno slancio verticale che non era stato raggiunto neanche dalle colonne del Partenone (in quel caso il rapporto è pari a 5,48).A mitigare la snellezza di questi fusti, che erano anche privi di èntasis (cioè il rigonfiamento a circa un terzo dell’altezza tipico dei templi arcaici), interviene una singolare riduzione del numero di scanalature. Nelle colonne doriche sono in genere 20, ma qui sono 16. Questa scelta potrebbe derivare dal tentativo di offrire spigoli meno affilati all’azione corrosiva dei venti.

Le vicende successive possiamo immaginarle. Con il declino della civiltà greca il tempio cade in abbandono e le sue pietre vengono in gran parte smontate e riutilizzate come materiale da costruzione. Eppure le rovine di Capo Sunio non smisero di affascinare generazioni di viaggiatori, tanto da far ribattezzare il promontorio “Capo Colonne“.

Tra gli autori antichi che hanno descritto il tempio c’è il geografo Pausania, detto il Periegeta. La sua Guida della Grecia, risalente al II secolo d.C., si apre proprio con la descrizione del promontorio (Ma scambia il tempio per quello di Atena, che era invece edificato poco distante e che a quell’epoca era stato già smontato): “Nel continente della Grecia verso le isole Cicladi, e il mare Egèo, sporge fuori dell’Attica il capo Sunio; e v’ha per chi lo costeggia un porto, e sulla sommità è il tempio di Minerva Suniade.” Ma ne parlarono anche Omero, Erodoto, Euripide, Sofocle, Aristofane e Strabone.

Il tempio tornerà a far parlare di sé nei resoconti dei viaggiatori a partire dal Seicento. Ma la sua epoca d’oro sarà l’Ottocento, il secolo del Romanticismo e dell’amore sfrenato per le rovine di un passato splendore.È questo il periodo a cui risalgono le più antiche raffigurazioni del tempio di Poseidone come quelle dell’italiano Simone Pomardi e dell’inglese Edward Dodwell, due artisti che viaggiarono assieme in Grecia tra il 1804 e il 1806 lasciando una preziosa testimonianza delle condizioni in cui si trovavano gli edifici classici all’inizio del XIX secolo.

Cinque anni dopo il tempio sarà visitato da un viaggiatore d’eccezione: George Gordon Byron. Il poeta inglese era lì per il suo Grand Tour, affascinato da quel misto di antichi miti e suggestioni orientali. Di quelle emozioni resta traccia nel poemetto Le isole della Grecia (dentro il Don Giovanni, 1819-1824):
Place me on Sunium’s marbled steep,Where nothing, save the waves and I,May hear our mutual murmurs sweep;There, swan-like, let me sing and die:A land of slaves shall ne’er be mine,Dash down yon cup of Samian wine!
(Mettimi sulla rupe in marmo di Sunio, / Dove niente, salvo le onde e me, / Possa udire spazzare i nostri reciproci mormorii; / Là, come un cigno, lasciami cantare e morire: / Una terra di schiavi non sarà mai mia, / Butta giù quella tazza di vino di Samo!)

L’esaltazione per quel luogo magico, per quell’incanto di marmo, fu tale che lord Byron non potè resistere alla tentazione di incidere la sua firma sul tempio, alla base del pilastro destro del pronao.

Oggi gli daremmo del vandalo, ma all’epoca non esisteva il concetto di beni culturali e apporre la propria firma su un monumento era quasi obbligatorio per ogni viaggiatore. Non faremo l’errore di giudicare un uomo di duecento anni fa con i criteri e la sensibilità dell’epoca attuale…Per altro l’amore di Byron per la Grecia non era quello del ricco intellettuale in vacanza: sentiva fortemente l’aspirazione del popolo Greco alla libertà contro il dominio turco e per questo andrà a combattere nel 1823 nella Guerra d’indipendenza greca morendo l’anno dopo (forse di meningite) a Missolungi, uno dei teatri più drammatici degli scontri.Il dipinto che lo raffigura sul letto di morte, simile a un eroe antico, mostra sullo sfondo proprio un tempio, simbolo di quella culla di civiltà.

Dopo il 1832, con la fine della Guerra d’indipendenza, nuovi artisti si recano a Capo Sunio per disegnare il magnifico tempio mentre altri, pur non essendosi recati personalmente in Grecia, ne hanno lasciato immagini superbe ed evocative. Sto parlando di William Turner, il pittore degli eventi atmosferici estremi, delle nebbie e delle tempeste. Il suo tempio al chiaro di luna, del 1834, è la rovina romantica per eccellenza. Non è gotica, come quelle amate da Friedrich, ma è ugualmente ricca di mistero.

Dai suoi dipinti vennero tratte anche numerose incisioni come quelle di Edward Finden del 1832.

La versione più drammatica arriverà nel 1856 con il russo Ivan Ajvazovskij. Si tratta di Sunio in tempesta, una scena che mescola la vista sublime di un vascello sbattuto dalle onde con la veduta pittoresca del tempio in cima al promontorio, illuminato dalla luce bianca della luna.

Il tempio non è il protagonista del dipinto ma è una scelta comprensibile per un pittore innamorato del mare come Ajvazovskij. E forse rende meglio degli altri la spettacolare collocazione scelta dagli antichi greci per erigere la struttura.
Oggi Capo Sunio con il suo tempio è una rinomata località turistica. Le sedici colonne superstiti (delle trentotto originarie) attirano ogni giorno centinaia di visitatori.

La maggior parte ci va per il panorama e per assistere a quello spettacolo mozzafiato che è l’ora del tramonto. E io non volevo essere da meno…
Questo è il paesaggio che si può ammirare ai piedi del tempio, dove si ammassa la folla prima del crepuscolo.

Ma io non volevo perdermi la vista del tempio contro il cielo del tramonto. Per questo mi sono spostata sulla punta retrostante, in modo da cogliere in controluce quelle millenarie colonne.

Ecco, il sole scompare sotto l’orizzonte. Il cielo si tinge di rosso e quei marmi, come segno fragile ma eterno dell’incontro tra uomo e natura, si disegnano sottili sulla roccia.

È un attimo sospeso. Fugace come la bellezza e come la felicità.
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Diciassette artisti e un ventaglio

Non mi ero mai imbattuta in nulla di simile. E per questo mi ero ripromessa di raccontarlo qui sul blog.
È un oggetto esposto al Museo Nazionale per l’arte, l’architettura e il Design di Oslo, assieme a migliaia di altri manufatti altrettanto affascinanti. Ma questo meritava un piccolo approfondimento, quanto meno per la sua originalità.
Sto parlando di un ventaglio dipinto. Non uno di quelli di stoffa, pensati per stare in mano a una signora: quello che ho visto è tutto in legno ed è formato da 17 dipinti autonomi realizzati da quindici pittori e due pittrici norvegesi, tutti allievi di Knud Bergslien.

Quest’opera collettiva è stata pensata proprio per essere donata all’anziano maestro, direttore di una rinomata scuola di pittura dal 1870 al 1900 (frequentata, tra gli altri, anche da Edvard Munch), in occasione dell’anniversario del 1898.

Ciascun artista ha dipinto una stecca a olio con un paesaggio, un ritratto o una scena di vita rurale. L’effetto è molto vario, sia per le tinte utilizzate che per i soggetti. Tuttavia l’insieme è unificato dall’elemento centrale di snodo, un pavone con la coda aperta.

Trovo molto interessante che anche l’orientamento della propria immagine sia stato scelto liberamente dai pittori: qualcuno ha deciso di tenere conto della posizione della propria stecca nel ventaglio aperto e ha orientato di conseguenza la scena (come nei primi quattro paesaggi da sinistra) mentre altri hanno scelto di usare come orizzonte della veduta, l’asse longitudinale della stecca. Altri ancora hanno dipinto ponendo la stecca in verticale, specialmente per le figure umane.
Vediamo rapidamente i vari elementi partendo da sinistra. L’elenco ordinato degli autori è leggibile nella didascalia del museo.

La prima, dunque, è di Otto Sinding. Si tratta di una marina con montagne innevate sullo sfondo, probabilmente un fiordo norvegese.

La scelta non meraviglia visto che Sinding era specializzato in paesaggi costieri, specialmente delle isole Lofoten.

È un paesaggista anche il secondo autore, Amaldus Nielsen. Il suo stile però è più lirico e ricorda il linguaggio dei pittori romantici tedeschi.

Il terzo pittore, Christian Skredsvig, ha scelto invece una scena più pittoresca: un laghetto con due mucche che si abbeverano, il prato e i riflessi delle nuvole sull’acqua. D’altra parte questo è il suo soggetto preferito, come si evince dalla sua produzione.

La stecca successiva è del ben più noto Christian Krogh, pittore cosmopolita dedito alla rappresentazione dei ceti sociali più bassi e di scene di vita quotidiana che influenzerà anche l’arte di Munch. Naturalmente il suo contributo è una figura umana e in particolare un pescatore.

Gustav Lærum è l’autore della quinta stecca. Lui era prevalentemente un illustratore, ma in questo caso ha dipinto a olio un piccolo ritratto, probabilmente la figura di Axel Heiberg, diplomatico norvegese e munifico mecenate delle arti e delle scienze.

La sesta stecca è stata dipinta da Gerhard Munthe con una scena di vita rurale, un tema frequente nella produzione di questo pittore e illustratore.

L’autore della settima stecca è Hans Gude, pittore paesaggista che, per l’orizzonte marino della sua scena, sceglie di riferirsi alla posizione del ventaglio aperto. Bella la scelta di far inclinare il veliero per via del vento nel senso della stecca.

Con Hans Heyerdahl si torna alla figura umana. Non ci è dato sapere chi sia il giovane ritratto nella sua stecca, ma potrebbe essere un autoritratto vista la somiglianza del taglio degli occhi con altri autoritratti del pittore.

La stecca seguente, la nona del ventaglio, è opera di Carl Fredrik Sundt-Hansen. Come nell’opera di Munthe anche qui c’è una scena di genere: una ragazzina in abiti tradizionali appoggiata al fianco di una casa di legno. L’autore è ricordato proprio per questo genere detto “nazionalista-romantico”, con cui ha raccontato la vita del popolo.

La decima stecca, dipinta da Fredrik Kolstø, è un omaggio al destinatario del ventaglio: il ritratto di Knud Bergslien, dal caratteristico baffone bianco. L’autore è un pittore realista che si è occupato prevalentemente di ritratti e paesaggi.

Anche la stecca successiva contiene un ritratto. Stavolta si tratta dell’esploratore e scienziato Fridtjof Nansen (premio Nobel per la pace nel 1922), dipinto da Jacob Bratland. Nansen era già famoso per essere stato il primo uomo ad attraversare la Groenlandia con gli sci nel 1888-1889. Nel 1893 tentò di raggiungere il Polo nord con una nave da lui attrezzata e poi con il kayak e infine a piedi, ma dovette fermarsi alla latitudine di  86°14′ (comunque mai raggiunta prima da nessun’altro). Riuscirà a tornare in patria solo nel 1896 grazie a una spedizione britannica incrociata nella “Terra di Francesco Giuseppe”. 

Il simpatico cagnolone dipinto nella dodicesima stecca è opera di Karl Uchermann, un pittore noto proprio per i suoi dipinti di animali e in particolare di cani.

L’uomo ritratto nella tredicesima stecca è Frederik Hjalmar Johansen, esploratore e compagno d’avventura di Nansen nel tentativo di conquista del Polo Nord. L’autore invece è Severin Segelcke, artista (ma anche ufficiale dell’esercito) noto soprattutto per le illustrazioni di libri di viaggio.

Axel Ender, autore della quattordicesima stecca, ha preferito invece una scena di vita rurale con la raffigurazione di una donna in abiti tradizionali davanti a una casetta con il tetto coperto d’erba. Questo è perfettamente in linea con la sua produzione, incentrata sulla vita del popolo, specialmente d’inverno.

La stecca successiva raffigura ancora un altro esploratore. In questo caso si tratta di Eivind Astrup, ricordato per aver più volte attraversato e mappato la Groenlandia. Il dipinto è stato realizzato dalla celebre e talentuosa ritrattista Asta Nørregaard.

La stecca successiva, la sedicesima, è un paesaggio malinconico con una donna in primo piano, opera di Eilif Peterssen. Stavolta l’orientamento è quello del bordo sinistro della stecca, un formato senz’altro più adatto a un’ampia veduta. Il soggetto è ripreso, pressoché identico, da un suo quadro di due anni prima (il terzo della sequenza).

Il ventaglio si conclude con la stecca dipinta dalla pittrice Elisabeth Sinding (cugina di Otto Sinding, l’autore della prima stecca) che raffigura una slitta trainata da cavalli, uno dei suoi soggetti preferiti. Questa è, a mio parere, una delle opere più belle del ventaglio per l’audace composizione in prospettiva – per altro coerente col formato trapezoidale – e per le delicate scelte cromatiche.Non bisogna dimenticare che l’area dipinta in ogni stecca  è lunga circa 25 cm e larga, nella sua parte più ampia, solo 7.

A questo punto si apre un piccolo mistero: contando le stecche si arriva a diciassette, più una stecca nera che copre il ventaglio quando è chiuso. Eppure, sia nella didascalia affissa accanto all’opera nella sala, sia sul sito del museo, vengono elencati diciotto artisti. Ma, escludendo che l’ultimo dell’elenco, cioè Thorolf Holmboe, possa aver dipinto di nero la sua stecca, che fine ha fatto il suo contributo? Forse era previsto ma non è stato realizzato? Forse è andato perduto? Di certo scriverò al museo per avere maggiori chiarimenti.
Ad ogni modo, che abbia diciassette o diciotto stecche, questo ventaglio rimane un oggetto straordinario come tutte le opere collettive: manufatti che mettono assieme, in modo armonioso, tanti mondi artistici individuali. È un prodotto che nel mondo della scuola avrebbe una forte valenza educativa: realizzare un ventaglio di gruppo, scegliendo ognuno liberamente il proprio tema e il proprio stile, significa imparare a mantenere la propria autonomia senza omologazioni ma, allo stesso tempo, partecipare a progetto unitario il cui valore complessivo è maggiore della somma delle singole parti.
Di questi ventagli collettivi ne ho trovati in rete solo pochi altri esempi di fattura tedesca o polacca, di fine Ottocento o inizio Novecento.

Il più appariscente è questo con venti stecche dipinte, di gusto vagamente simbolista. Tra le firme ne spicca una piuttosto nota: Franz von Stuck, autore della terza immagine.

Io, intanto, ho già pensato a come riciclare gli stecchini di legno del gelato… se solo avessi più tempo!

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