Visto il cuore della Supernova 1987A

La Supernova 1987A, situata nella Grande Nube di Magellano, una galassia nana satellite della Via Lattea, è una delle stelle esplose più note ad astronomi ed astrofili, perché è la supernova più vicina e luminosa vista nel cielo notturno negli ultimi 400 anni. Ora, un gruppo internazionale di astronomi, tra cui il professor Mike Barlow dell’UCL (University College di Londra), ha scoperto la prima prova conclusiva dell’esistenza di una stella di neutroni al centro della supernova osservata 37 anni fa, da cui il nome.

Stelle di neutroni. A questo punto va fatto un passo indietro per capire l’importanza della scoperta. Va ricordato che le supernove sono lo spettacolare risultato finale del collasso di stelle più massicce di 8-10 volte la massa del Sole. Quando tali stelle esplodono, danno origine a elementi chimici, come carbonio, ossigeno, silicio e ferro, che rendono possibile la vita che altrimenti non ci sarebbero nell’Universo. Il nucleo finale che si forma dopo l’esplosione può dare origine a stelle di neutroni molto piccole, composte dalla materia più densa dell’Universo conosciuto, o a buchi neri. 

Circa la nascita di tale supernova, che in realtà esplose 168.000 anni fa, c’è anche un elemento interessante da menzionare: i “neutrini”, particelle subatomiche estremamente piccole, prodotti nella supernova vennero rilevati sulla Terra il 23 febbraio 1987, esattamente il giorno prima che la supernova fosse vista, anticipando l’evento agli astronomi. Ad oggi, tuttavia, non era certo se ciò che rimase dell’esplosione fosse propriamente una stella di neutroni, poiché ciò che è rimasto dell’esplosione è stato oscurato dalla polvere che l’esplosione stessa produsse.

 

James Webb ha le prove. Nel nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science, i ricercatori hanno utilizzato due strumenti del James Webb Space Telescope (JWST), MIRI e NIRSpec, per osservare la supernova alle lunghezze d’onda dell’infrarosso e hanno trovato prove di atomi pesanti di argon e zolfo i cui elettroni esterni erano stati strappati via – cioè gli atomi erano stati ionizzati – vicino al punto in cui è avvenuta l’esplosione della stella. Con questi dati a disposizione gli astrofisici hanno creato vari scenari al computer e hanno scoperto che questi atomi avrebbero potuto essere ionizzati solo dalla radiazione ultravioletta e dai raggi X provenienti da una stella di neutroni calda e raffreddatasi successivamente. La superficie della stella di neutroni infatti, sarebbe passata da circa un 100 milioni di gradi centigradi – subito dopo l’esplosione – a non più di un milione di gradi.

  

Il co-autore, il professor Mike Barlow (UCL Physics & Astronomy), ha dichiarato: «La nostra rilevazione – con gli spettrometri MIRI e NIRSpec di James Webb – di forti linee di emissione di argon ionizzato e zolfo dal centro stesso della nebulosa che circonda la Supernova 1987A è la prova diretta della presenza di una sorgente centrale di radiazioni ionizzanti. I nostri dati possono essere adattati solo con una stella di neutroni come fonte di energia di quella radiazione ionizzante. È davvero entusiasmante essere riusciti a risolvere il mistero della reale esistenza di una stella di neutroni che si nasconda nella polvere che la circonda da più di 30 anni».

 

Esplosione non ancora terminata. Stando alla ricerca, mentre la maggior parte della massa della stella in esplosione si sta ora espandendo fino a 10.000 chilometri al secondo ed è distribuita su un grande volume, gli atomi di argon e zolfo ionizzati sono stati osservati vicino al centro, dove è avvenuta l’esplosione vera e propria. La radiazione ultravioletta e i raggi X che si ritiene abbiano ionizzato gli atomi, furono previsti nel 1992, ma solo ora se ne ha la prova diretta.

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BH3, il buco nero più massiccio della Via Lattea

A scanso di equivoci va subito detto un elemento importante: il più grande buco nero –  Sagittarius A* – della nostra galassia, la Via Lattea, si trova al suo centro e possiede una massa paragonabile a circa 4 milioni di volte quella del nostro Sole. Ma quel buco nero è frutto di una lunga evoluzione della nostra galassia, prodotta dallo scontro tra altre galassie durante i quali buchi neri di vario tipo si sono fusi in quello che oggi possiamo “osservare”.
Il buco nero stellare più grande della via Lattea. Recentemente, invece, un gruppo di astronomi ha identificato il buco nero stellare più massiccio mai scoperto nella Via Lattea nei dati della missione Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea: in altre parole si tratta del buco nero più grande diretta conseguenza della morte di una stella. Lo si è scoperto grazie ad uno strano movimento di una stella che ruota attorno ad esso. I dati del Very Large Telescope dell’Osservatorio Europeo Australe (VLT) e di altri osservatori a Terra, sono stati poi utilizzati per verificare la massa del buco nero, stimandola 33 volte quella del Sole.

Gaia BH3: Massiccio e vicino alla Terra. I buchi neri stellari si formano dal collasso di stelle massicce, e quelli più massicci precedentemente identificati nella Via Lattea possiedono una massa all’incirca 10 volte superiore a quella del Sole. Anche il buco nero stellare che era il più massiccio conosciuto nella nostra galassia fino ad oggi, Cygnus X-1, non supera le 21 masse solari. Si capisce dunque che il buco nero in questione è davvero eccezionale. Sorprendentemente, questo buco nero è anche estremamente vicino a noi: a soli 2.000 anni luce di distanza, nella costellazione dell’Aquila, è il secondo buco nero più vicino alla Terra. Soprannominato Gaia BH3 (o BH3), è stato trovato mentre il gruppo di astronomi stava rivedendo le osservazioni realizzate dal telescopio Gaia in preparazione di un nuovo imminente rilascio di dati, da mettere a disposizione di tutti i ricercatori. 

Una stella povera di metalli. Per confermare la scoperta, vari astronomi hanno utilizzato anche dati provenienti da osservatori a Terra, incluso lo strumento UVES (Ultraviolet and Visual Echelle Spectrograph) sul VLT dell’ESO, situato nel deserto di Atacama in Cile. Queste osservazioni sono state importanti perché hanno rivelato proprietà fondamentali di una stella-compagna del buco nero, la quale, insieme ai dati di Gaia, hanno permesso agli astronomi di misurare con precisione la massa di BH3.

Ma come si formano buchi neri di tali dimensioni? Attualmente l’ipotesi più valida ritiene che potrebbero formarsi dal collasso di stelle con pochissimi elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio nella loro composizione chimica. Si ritiene che queste cosiddette stelle povere di “elementi pesanti” perdano poca massa nel corso della loro vita, e quindi abbiano più materiale rimasto per produrre buchi neri di massa elevata dopo la loro morte. Ma finora mancavano prove che collegassero direttamente le stelle povere di elementi pesanti ai buchi neri di massa elevata. Ora, poiché le stelle in coppia tendono ad avere composizioni simili, risulta evidente che la compagna di BH3 contenga importanti indizi sulla stella che è collassata per formare questo eccezionale buco nero.

I dati UVES hanno mostrato che la compagna era una stella molto povera di elementi pesanti, indicando che anche la stella che collassò per formare BH3 era povera di essi, proprio come previsto. Ulteriori osservazioni di questo sistema potrebbero rivelare di più sulla sua storia e sullo stesso buco nero. Lo strumento GRAVITY sull’interferometro VLT dell’ESO, ad esempio, potrebbe aiutare gli astronomi a scoprire se questo buco nero stia attirando materia dall’ambiente circostante verso sé, ad esempio dalla stella compagna. La ricerca dunque, su questo incredibile oggetto è solo agli inizi.

James Webb ha visto la galassia più antica

Quella che per gli astronomi e per il telescopio spaziale Hubble era poco più di un puntino di luce si è rivelata una delle galassie più antiche, se non la più antica mai scoperta e frutto della fusione di galassie ancora più vecchie. A raccontarci tutto ciò è il telescopio spaziale James Webb. La collaborazione internazionale di un progetto chiamato Glass del James Webb Space Telescope ha effettuato osservazioni dettagliate della galassia soprannominata Gz9p3, che si vede come era appena 510 milioni di anni dopo il Big Bang.

Miliardi di stelle. Una galassia dunque, dell’Universo ancora infante, visto che ora ha 13,8 miliardi di anni. Il gruppo di lavoro ha scoperto che, proprio come molte altre galassie primordiali osservate dal JWST, Gz9p3 è molto più massiccia e matura di quanto ci si aspetterebbe per una galassia dell’Universo da poco nato. In quella galassia infatti, sono già presenti miliardi di stelle, mentre invece ci si attenderebbe la presenza di solo qualche centinaia di milioni di astri.

Gz9p3, la galassia in fusione più brillante conosciuta nei primi 500 milioni di anni dell’Universo (osservata tramite JWST) A sinistra: la fotografia mostra un nucleo a “doppio nucleo” all’interno della regione centrale, indice della fusione di due galassie. A destra: i contorni del profilo di luce rivelano una struttura allungata e grumosa prodotta dalla fusione delle galassie. Dietro di essa la presenza di materiale fuoriuscito dallo scontro, che sembrerebbe ancora in atto.

Frutto di uno scontro primordiale. Gz9p3 accresce il mistero dell’Universo primordiale in quanto non solo è più massiccia del previsto, ma è circa 10 volte più massiccia di altre galassie osservate dal JWST in epoche simili della storia dell’Universo. Spiega Kit Boyett, membro del gruppo di ricerca e dell’Università di Melbourne, per la pubblicazione Pursuit dell’Istituto: «Solo un paio di anni fa, Gz9p3 appariva come un singolo punto di luce attraverso il telescopio spaziale Hubble, ma ora utilizzando il JWST abbiamo potuto osservare questo oggetto con un certo dettaglio com’era 510 milioni di anni dopo il Big Bang, circa 13 miliardi di anni fa. Gz9p3 è semplicemente straordinaria. Oltre alle dimensioni e alla maturità, anche la sua forma rivela indizi sulla sua creazione».
Gli astronomi hanno potuto determinare che Gz9p3 ha una forma complessa con due macchie luminose che rivelano due nuclei densi. Ciò indica che Gz9p3 è stato probabilmente creato quando due galassie primordiali si sono scontrate nell’Universo neonato. Questa collisione poteva essere ancora in corso nel periodo in cui gli astronomi hanno studiato Gz9p3 con il JWST.

Più stelle del previsto. «L’immagine JWST della galassia – spiega Boyett – mostra una morfologia tipicamente associata a due galassie interagenti. E la fusione non è terminata, perché vediamo ancora due componenti. Quando due oggetti massicci si uniscono in questo modo, di fatto nel processo eliminano parte della materia che apparteneva a ciascuna di esse.

E tutto ciò lo si può osservare nelle immagini del Webb».

Oltre a determinare l’età, la massa e la forma di questa antica galassia, Boyett e colleghi sono riusciti a sondare più in profondità Gz9p3, per esaminare la popolazione stellare di queste galassie in collisione. Poiché le stelle giovani sono più luminose delle loro controparti più vecchie, di solito dominano le immagini delle galassie. «Per esempio – dice Boyett – una popolazione giovane e brillante, nata dalla fusione delle galassie, che ha meno di qualche milione di anni, supera per luminosità una popolazione più anziana che ha già più di 100 milioni di anni».

I metalli delle stelle. Utilizzando la spettroscopia (il meccanismo in grado di determinare la composizione delle stelle) gli astronomi sono riusciti a separare le due categorie in questa galassia primordiale. Le stelle più vecchie sono più ricche di “metalli”, in quanto hanno già fuso tutto l’idrogeno in esse contenuto, il quale si è trasformato in elio che a sua volta, fondendo, ha dato origine ai metalli che si osservano. Ciò significa che le stelle più vecchie sono più ricche di metalli rispetto alle stelle più giovani, che sono ancora dominate dall’idrogeno e da una certa quantità di elio. Da questo studio gli astronomi hanno scoperto che la popolazione di vecchie stelle in Gz9p3 era molto più grande di quanto si sospettasse in precedenza.

Mentre gli astronomi erano consapevoli di questo ciclo di vita e morte stellare e del crescente arricchimento di metalli delle successive generazioni di stelle, le osservazioni di Gz9p3 indicano che le galassie potrebbero essere diventate “chimicamente mature” più velocemente di quanto si sospettasse in precedenza. In altre parole, le due galassie si sono arricchite di stelle molto velocemente e ciò, molto probabilmente, è legato proprio alla loro fusione. Quando le galassie si scontrano, infatti, possono accelerare la formazione delle stelle non solo in numero, ma anche nella velocità con la quale nascono, si accrescono e muoiono.

Anche la nostra Galassia. La maggior parte delle grandi galassie dell’Universo sono cresciute in questo modo; la nostra galassia, la Via Lattea, mostra essa stessa una storia di fusioni. Oggi la Via Lattea forma stelle a un ritmo stentato, ma questo cambierà quando entrerà in collisione con la nostra vicina galassia, Andromeda, tra circa 4,5 miliardi di anni.

 Ciò causerà un afflusso di gas che darà il via a un nuovo attacco di nasciate stellari.

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