Bollire l’acqua elimina le microplastiche, ma soltanto se c’è il calcare

Bollire l’acqua per renderla potabile è un metodo usato da secoli, soprattutto nei Paesi asiatici. Tuttavia, se portare l’acqua ad ebollizione per almeno 10-15 minuti uccide la maggior parte dei batteri, virus e parassiti numerose ricerche si interrogano ora quale effetto questa prassi abbia sugli agenti inquinanti.
 

Uno studio realizzato in Cina e pubblicato su Environmental Science & Technology Letters riporta ora che la bollitura e il filtraggio dell’acqua di rubinetto, se dura, cioè contenente molto carbonato di calcio, potrebbero contribuire a rimuovere quasi il 90% delle nano e microplastiche presenti. Le nano e microplastiche sono apparentemente ovunque: nell’acqua, nel suolo e nell’aria e la contaminazione delle riserve idriche con nano e microplastiche (NMP), che possono avere un diametro di un millesimo di millimetro o di 5 millimetri, è diventata sempre più comune. Gli effetti di queste particelle sulla salute umana sono ancora in fase di studio, anche se gli

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Così la plastica entra dentro di noi

La tartaruga marina con un sacchetto sul muso; lo stomaco di un capodoglio ricolmo di tappi e di altri frammenti colorati; le isole di plastica in mezzo agli oceani. E ancora: la foca strozzata da una rete da pesca e i fiumi che riversano in mare quantità immense di bottiglie, stoviglie e confezioni monouso. Sono queste le immagini che ci vengono in mente quando si parla di inquinamento da plastica. Di certo, invece, non pensiamo al nostro cibo, all’acqua che portiamo in tavola e, tanto meno, all’aria attorno a noi. Eppure, un numero crescente di studi documenta che il corpo di noi umani del XXI secolo è pieno di plastica. E che questo materiale arriva proprio da lì: da ciò che mangiamo e beviamo e, ancora di più, da ciò che respiriamo.

cibo e acqua contaminati. La plastica – materiale pressoché indistruttibile – ha invaso i nostri ambienti sotto forma di particelle minuscole: le microplastiche, di dimensioni inferiori ai 5 millimetri, e le nanoplastiche, che vanno da 1 a 1.000 nanometri (milionesimi di millimetro). Diverse per forma e composizione, queste particelle si formano dalla frammentazione di pezzi più grandi, e non è raro trovarle, per esempio, nei cibi. I prodotti ittici sembrano i più contaminati, ma microplastiche e nanoplastiche sono presenti anche nel sale da cucina (trovate da ben 18 studi!), nel latte, nel miele, nel riso, nello zucchero, in diverse bibite e persino nella birra, che normalmente si vende in bottiglie di vetro o in lattine di alluminio.
La contaminazione di pesci, molluschi e crostacei arriva certamente dal mare. Meno chiara, invece, è l’origine delle microplastiche trovate negli altri prodotti, anche se il sospetto è che derivi in gran parte dalle pellicole che li avvolgono e dalle confezioni. Per lo stesso motivo, del resto, può contenere plastica anche l’acqua in bottiglia, sebbene le microparticelle siano state trovate pure in quella che esce dal rubinetto, seppure in concentrazioni inferiori.

un corpo pieno di plastica. Le conseguenze di questa esposizione prolungata e costante non sono sorprendenti: gli studi che hanno cercato microplastiche all’interno del nostro corpo sono ancora pochi, ma il dato preoccupante è che quelli che lo hanno fatto le hanno sempre trovate. Per esempio, nel 2019, una ricerca dell’Università di Vienna, pubblicata su Annals of Internal Medicine, ha trovato 9 diversi tipi di microplastiche nelle feci di tutti e 8 i volontari che si sono prestati alle analisi.

Analoghi test più recenti, condotti all’Università di Pechino, le hanno isolate dalle feci di 23 volontari su 24. Si potrebbe obiettare che, finché sono eliminate “naturalmente”, le microplastiche non dovrebbero preoccuparci più di tanto. Questo però non accade sempre.
Uno studio inglese pubblicato su Science of the Total Environment ha documentato la presenza di ben 12 tipi diversi di microplastiche e nanoplastiche nel tessuto polmonare di 11 pazienti sottoposti a un intervento chirurgico (su un totale di 13 esaminati). I ricercatori si sono stupiti della varietà ma anche della quantità rilevata (1-2 particelle per grammo di tessuto) e del fatto che i corpi estranei erano penetrati molto in profondità nei polmoni. Segno che, con le microplastiche, il sistema naturale di “pulizia” delle vie respiratorie funziona meno bene di quanto potremmo sperare. E questo studio non è neppure una prima assoluta: una ricerca brasiliana aveva trovato microplastiche nei polmoni di 13 persone, su 20 esaminate. E in precedenza un risultato simile era stato ottenuto su tessuti prelevati da cadaveri.

Sangue al polistirolo. Ancora più significativa è però una ricerca pubblicata su Environment International da un gruppo dell’Università di Amsterdam. Questa volta sotto la lente della scienza è finito il sangue: il liquido che, attraverso i vasi, raggiunge ogni organo e ogni singola cellula. Ebbene, nei prelievi di 17 dei 22 volontari che hanno accettato di sottoporsi ai test sono state trovate microplastiche di vario tipo, in una concentrazione media di 1,6 microgrammi per millilitro. Il polimero più comune era il polietilene tereftalato (o PET, con cui si fanno per esempio le bottiglie), rilevato nella metà dei soggetti positivi. A seguire, il polistirene (o polistirolo), presente nel 36% dei campioni, il polietilene (nel 23%) e il polimetil metacrilato (5%).
Con quali conseguenze? Sebbene tutti i volontari fossero in buona salute, i ricercatori sottolineano che le dimensioni delle particelle sono tali da poter ostruire i capillari, compromettendo la microcircolazione. Inoltre, è del tutto plausibile che, tramite il circolo sanguigno, le microplastiche possano raggiungere diversi organi (in particolare, fegato e reni) e accumularsi lì, perché il nostro corpo non è in grado di degradarle né di sbarazzarsene. Uno studio condotto su topoline gravide ha trovato anche che le microplastiche inalate, una volta raggiunto il sangue, possono arrivare alla placenta e passare nel feto.

Gli effetti sulla nostra salute. Gli effetti di un’esposizione che dura negli anni sono tutt’altro che chiari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un report che ha fatto il punto sugli studi disponibili, sottolineando proprio la mancanza di dati sufficienti a trarre conclusioni.

C’è da dire che la plastica è un materiale inerte, che tende a non interagire chimicamente con i tessuti biologici, tanto che molti dispositivi impiantati nell’organismo per scopi medici sono proprio di plastica. La situazione però cambia, quando ci si sposta sulle dimensioni del micro e del nano. Lo documenta, fra gli altri, una ricerca che ha coinvolto le università di Genova e di Milano, e che suggerisce che le nanoparticelle di polistirene sono in grado di inserirsi nelle membrane delle cellule, rendendole più lasse, più disordinate e più suscettibili alle alte temperature. I test sono stati eseguiti su membrane ottenute in laboratorio, che riproducono le caratteristiche di quelle cellulari.

dai tessuti sintetici ai polmoni. Un altro studio, pubblicato su Environment International, si è invece focalizzato sulle interazioni fra microplastiche e tessuto polmonare, utilizzando un modello sperimentale molto innovativo: gli organoidi. «Gli organoidi sono strutture biologiche ottenute a partire da cellule staminali, che riproducono le caratteristiche di un tessuto nelle tre dimensioni», spiega Lorenza Lazzari, responsabile Laboratorio di Medicina Rigenerativa del Policlinico, che ha coordinato la ricerca assieme a Paolo Tremolada, del dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’Università di Milano.
In laboratorio, i “mini-polmoni” sono stati esposti per due settimane a diverse concentrazioni di microplastiche che, per avvicinarsi il più possibile a ciò che accade nella realtà, erano fibre ottenute dal filtro di un’asciugatrice, dopo un ciclo eseguito su capi sintetici di vario tipo (per la precisione: una maglietta di poliestere, sei canottiere e due coperte di colori diversi). «Abbiamo osservato che la presenza di microplastiche non è neutra», illustra la ricercatrice, «gli organoidi si adeguano e, crescendo, tendono a inglobarle, attivando anche processi di tipo infiammatorio».

Inoltre, la contaminazione riduce l’attività di un gene (chiamato SCGB1A1) che ha effetti antinfiammatori, antitumorali e detossificanti. Lavorando su cellule in coltura, anche altri gruppi hanno trovato che le microplastiche favoriscono le infiammazioni, inducendo anche uno stress di tipo ossidativo, che può danneggiare i tessuti. Recentemente, esperimenti condotti alla Goethe University di Francoforte (Germania) e all’Università di scienze e tecnologie di Trondheim (Norvegia) hanno evidenziato che a scatenare il rilascio di molecole infiammatorie sono soprattutto le particelle dalle forme irregolari.
Un grosso limite degli studi condotti finora è che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono piuttosto distanti da ciò che accade nella realtà.

«Nel mondo reale, l’esposizione alle microplastiche è continua e si verifica nel corso di anni, mentre nei nostri test, così come in quelli di tanti altri laboratori, i tempi sono necessariamente limitati», riprende Lorenza Lazzari. L’Oms rileva inoltre che solitamente le particelle testate negli studi somigliano davvero poco a quelle che incontriamo nel nostro ambiente.

Le particelle sporche. Queste ultime, infatti, sono molto eterogenee e, soprattutto, sono “sporche”. «Le microplastiche possono accumulare una grande varietà di contaminanti veicolandoli all’interno del corpo. Per esempio, i pile sono trattati con sostanze ignifughe, mentre altre molecole, e persino alcuni microrganismi, potrebbero aderire alle particelle disperse nell’ambiente», osserva Lazzari. Nella maggior parte dei casi, è plausibile che i contaminanti arrivino in concentrazioni così basse da non rappresentare un pericolo. L’Oms invita però i ricercatori a investigare anche su questo aspetto: si tratta di terreno molto vasto e quasi completamente inesplorato.

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