Il Parkinson è anche un disturbo della percezione?

Quante persone ci sono nella stanza in cui vi trovate? Se doveste rispondere in fretta e senza la possibilità di contare, tendereste a sovrastimarne il numero: è un fenomeno noto che, dal punto di vista evolutivo, ha perfettamente senso. Meglio sbagliarsi per eccesso, nel contare potenziali nemici o minacce, anziché per difetto.

Ora uno studio della Scuola politecnica federale di Losanna (EPFL) ha trovato che, in chi sperimenta allucinazioni, e in particolare nei pazienti che ne soffrono a causa del Parkinson, questo errore di conteggio per eccesso è particolarmente spiccato. Una scoperta che potrebbe cambiare il modo in cui la malattia viene interpretata, e anche – si spera – anticiparne la diagnosi.

Chi è là? Le allucinazioni indagate nello studio, pubblicato su Nature Communications, sono chiamate allucinazioni di presenza: le persone che ne soffrono avvertono la forte sensazione della presenza di qualcuno vicino a loro o nella loro stanza, anche quando nessun altro è presente.

Queste false percezioni, considerate meno gravi rispetto alle allucinazioni visive, tendono a manifestarsi in una fase precoce della malattia di Parkinson – talvolta prima ancora della diagnosi. E i pazienti che ne soffrono sembrano essere anche più predisposti a sviluppare declino cognitivo come conseguenza del Parkinson. Ecco perché queste allucinazioni sono un ottimo obiettivo di studio per chi spera di anticipare il più possibile le cure per questa malattia.

Illusioni a comando. I ricercatori svizzeri hanno indotto artificialmente le allucinazioni con una combinazione di stimoli in realtà virtuale (usata per ricreare la presenza di cinque, sei, sette o otto persone in una stanza vuota, proiettata su uno schermo per 200 millisecondi) e robotica: un dito robotico apparentemente attivato da un joystick in mano ai soggetti picchiettava sulla loro schiena in modo asincrono rispetto ai loro comandi.

Questa piattaforma ha permesso di determinare in modo scientificamente accurato se qualcuno fosse suscettibile o meno alle allucinazioni di presenza, senza per forza doversi affidare a questionari di autovalutazione. Gli scienziati ne hanno inoltre sviluppata una versione semplificata da usare a casa e online, in modo non intrusivo e senza l’aiuto di personale medico.

cogliere i segnali. Il team ha coinvolto in un test online 170 pazienti con Parkinson, 69 dei quali con allucinazioni di presenza. Questo sottogruppo di pazienti ha in effetti contato più spesso un maggior numero di persone nella stanza virtuale rispetto ai pazienti privi di allucinazioni. Un particolare importante ai fini terapeutici perché, come spiega Fosco Bernasconi, coautore dello studio «abbiamo strategie per determinare se un paziente con malattia di Parkinson sperimenta allucinazioni di presenza o meno, il che significa che in futuro dovremmo riuscire a identificare e monitorare coloro che sono più inclini a declino cognitivo per indirizzarli a trattamenti precoci».

Un nuovo paradigma. «Il fatto che i pazienti con Parkinson abbiano un maggior grado di sovrastima nel contare le persone è stupefacente, perché la malattia è tradizionalmente considerata un disturbo del movimento» aggiunge Olaf Blanke, che dirige il Laboratorio di Neuroscienze Cognitive all’EPFL. «Qui dimostriamo che il Parkinson potrebbe essere anche un disturbo della percezione, specialmente degli stimoli sociali, e che le “presenze invisibili” nella malattia di Parkinson potrebbero ostacolare ancora di più il lavoro di conta del cervello sociale».

Il più tardi possibile. «Uno dei traguardi che speriamo di raggiungere è arrivare, se non a una diagnosi, a una prognosi il più precoce possibile del Parkinson» chiarisce Blanke. «Possiamo individuare queste allucinazioni, questi cambiamenti nel cervello, 10, 20, 30 anni prima che la malattia si manifesti? Perché a quel punto potremmo potenziare le terapie che modificano la malattia e che sperano di posticipare il suo inizio di 10, 20 o 30 anni».

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Un antidiabetico mette un freno al Parkinson

Un farmaco usato contro il diabete di tipo 2, il principio attivo lixisenatide, sembra rallentare l’avanzamento dei sintomi motori del Parkinson. Poiché il medicinale è il secondo antidiabetico, dopo l’exenatide, a dimostrare un effetto benefico contro la malattia di Parkinson, si rafforza l’ipotesi secondo la quale questa condizione potrebbe essere legata all’insulino-resistenza, la scarsa sensibilità delle cellule dell’organismo all’azione dell’insulina. Il nuovo studio è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine.

Parenti famosi. Lixisenatide ed exenatide appartengono, come la più nota semaglutide (o Ozempic), alla classe degli analoghi del GLP-1 (glucagon-like peptide 1) nativo, un ormone prodotto dall’intestino incaricato di stimolare la produzione di insulina e inibire quella di glucagone (un altro ormone, che fa aumentare il livello di zuccheri nel sangue) quando la glicemia è elevata. Questi farmaci da tempo impiegati contro il diabete sono di recente diventati famosi perché favoriscono la perdita di peso (per approfondire). Ma la semaglutide, diversamente da exenatide e lixisenatide, non arriva facilmente fino al cervello, il che ne fa un candidato meno promettente nei trial contro il Parkinson.

Lo studio. Un team di scienziati coordinati da Wassilios Meissner, dell’Ospedale Universitario di Bordeaux, ha diviso in due gruppi 156 pazienti che avevano di recente ricevuto una diagnosi di Parkinson, una malattia degenerativa caratterizzata da tremore a riposo, rallentamento nei movimenti volontari, rigidità muscolare, difficoltà nell’equilibrio, spesso demenza. I volontari hanno continuato ad assumere i farmaci contro il Parkinson, ma a metà di essi sono state somministrate, per un anno, iniezioni giornaliere di lixisenatide, all’altra di un placebo. Prima, durante e dopo lo studio gli scienziati hanno monitorato i sintomi motori dei pazienti.

le redini alla malattia. Dopo 12 mesi, i pazienti che avevano ricevuto il farmaco antidiabetico non hanno mostrato alcuna progressione dei loro sintomi motori, mentre chi aveva avuto il placebo è peggiorato, anche se solo di tre punti, nella scala usata per stimare l’avanzamento di questa malattia neurodegenerativa: una differenza che gli scienziati hanno definito «piccola, ma clinicamente significativa». La differenza è rimasta anche dopo due mesi dalla fine del trial e dopo che i farmaci contro il Parkinson erano stati sospesi dalla sera alla mattina.

Un cauto entusiasmo. L’assunzione del farmaco non è stata indolore, con circa la metà dei pazienti sotto lixisenatide che ha lamentato nausea, e il 13% che ha accusato episodi di vomito. Ma i risultati incoraggiano a proseguire nella sperimentazione e passare dal trial di fase 2, quello appena concluso, a un trial di fase 3, che recluti un maggior numero di pazienti e possa far luce su questi punti: è davvero il lixisenatide a rallentare la progressione del Parkinson? Se sì, quanto dura l’effetto e qual è il dosaggio ideale? Per quanto a lungo andrebbe preso? Darebbe beneficio anche ai pazienti che si trovano in altre fasi della malattia rispetto a quella iniziale?

Parkinson e diabete. Quale legame? La ricerca mette in luce anche aspetti interessanti sulla natura e l’origine del Parkinson. Da tempo si sa che le persone con diabete di tipo 2 sono più a rischio di sviluppare questa malattia, ma è anche noto che il rischio diminuisce in chi assume farmaci analoghi al GLP-1 contro il diabete. Inoltre, gli studi post-mortem dei cervelli di pazienti con il Parkinson hanno evidenziato anomalie cerebrali compatibili con l’insulino-resistenza, anche in chi non aveva ricevuto una diagnosi di diabete. Sembrerebbe quindi esserci un collegamento tra le due condizioni, che andrà approfondito.

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