Il fegato può crescere nei linfonodi?

Usare i linfonodi di pazienti in vita come piccoli bioreattori, cioè ambienti nei quali coltivare altrettanti fegati in miniatura. Sembra fantascienza ma è l’obiettivo, molto concreto, della LyGenesis, azienda di biotecnologie della Pennsylvania che punta ad alleggerire le liste d’attesa per il trapianto di fegato con un trattamento rivoluzionario, ora per la prima volta testato sull’uomo. 

Poche cellule donate. La terapia è stata sviluppata un decennio fa e consiste nel prelevare un tipo di cellule del fegato (gli epatociti) da un donatore e iniettarle in alcuni linfonodi – piccoli organi a forma di fagiolo situati lungo le vie linfatiche – del paziente bisognoso di trapianto. I linfonodi sono “filtri biologici” in cui si organizza la risposta immunitaria dell’organismo contro i patogeni. Ognuno di noi ne ha circa 600: sono irrorati da piccoli vasi sanguigni e si trovano disseminati in punti strategici come ascelle, inguine, addome, collo.

L’ambiente adatto. Gli scienziati di LyGenesis hanno scoperto che all’interno dei linfonodi le cellule del fegato riescono a proliferare, a dividersi e a sviluppare vasi sanguigni propri. Il processo dura diversi mesi: con il passare del tempo, e mano a mano che gli epatociti si organizzano, il linfonodo scompare e al suo posto rimane un fegato in miniatura. L’idea è che i linfonodi, pieni di cellule immunitarie, offrano l’ambiente ideale per la sopravvivenza cellulare; e che, avendone in abbondanza, non è un problema se nel processo se ne perde qualcuno. 

Scoperta casuale. Questa possibilità è emersa quasi per caso, quando i ricercatori della compagnia statunitense hanno trapiantato senza risultati cellule di fegato sane nel fegato di topi con malattia epatica. Non avendo avuto successo, hanno provato a iniettare le cellule anche in altri punti del corpo dei topi, nella speranza che altrove potessero sopravvivere. La maggior parte dei roditori è morta, ma quelli che avevano ricevuto iniezioni di cellule epatiche nell’addome sono sopravvissuti. In seguito, le autopsie hanno mostrato che nei loro linfonodi addominali si erano formati dai 20 ai 30 mini-fegati.

I trial sull’uomo. In seguito, gli scienziati hanno iniettato le cellule di fegato direttamente nei linfonodi di topi, maiali e cani, trasformando i piccoli organi in fegati in miniatura funzionanti. Ora l’esperimento su una dozzina pazienti con malattia epatica all’ultimo stadio: il primo di loro è stato operato il 25 marzo 2024 con una procedura che ha implicato l’inserimento di un tubo attraverso la trachea per localizzare con gli ultrasuoni un linfonodo e iniettare in esso una piccola quantità di epatociti di un donatore.

L’intervento è andato bene, ma serviranno alcuni mesi per capire se gli epatociti si siano riorganizzati in un mini-organo funzionante. Per ora il paziente non ha mostrato segni di migliorata attività epatica.

Speranze e limiti. Se dovesse funzionare, la terapia avrebbe il potenziale (che per ora sembra utopico) di ridurre di molto le liste di attesa per un trapianto perché, spiega Michael Hufford, co-fondatore di LyGenesis, «un organo donato oggi cura un paziente. Usando questo approccio, con un organo si potrebbero curare 75 o più pazienti», a ciascuno dei quali andrebbe una piccola porzione di cellule epatiche.

Non è noto tuttavia quanti mini-organi e quante cellule servano per curare una persona con un fegato del tutto fuori uso, né quanto durino i nuovi fegati formati nei linfonodi. Se avessero una funzionalità temporanea, potrebbero comunque servire da “ponte” per guadagnare un po’ di tempo, in attesa del trapianto vero e proprio.

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Che cos’è il trapianto fecale?

Prendereste una pillola di cacca? Non storcete il naso: in un prossimo futuro potrebbe essere una cura per le malattie croniche intestinali, la sclerosi multipla, l’autismo, perfino i tumori. Per quanto possa sembrare strano, la cacca può essere un’ottima medicina grazie ai batteri che contiene, se a farla è stata una persona in ottima salute: permette di concimare – letteralmente – con microbi buoni l’intestino di chi ha una malattia in cui invece batteri cattivi hanno preso il sopravvento. Sarà sempre più spesso una terapia risolutiva. E, mentre i ricercatori studiano come mettere la cacca in una capsula da inghiottire, già oggi il trapianto fecale guarisce molte persone.

Tutto dipende dal fatto che abbiamo un mondo intero nella pancia: il microbiota, ovvero la massa di microbi che popolano l’intestino, è composto da centinaia di specie batteriche per miliardi di microrganismi che tutti assieme rendono conto di circa uno-due chili del nostro peso. Nei nostri circa sette metri di intestino, però, possiamo avere giardini rigogliosi di batteri buoni, che producono molecole benefiche mantenendo in salute corpo e mente (gran parte della serotonina, la molecola della felicità, viene sintetizzata proprio qui), o campi di sterpaglie se a prendere il sopravvento sono germi cattivi che aumentano l’infiammazione e producono sostanze dannose.

Flora batterica nell’intestino. La cacca di chi è sano contiene “microrganismi-semi” che possono prendere il sopravvento sulle erbacce. La flora batterica “ricresce” e l’intestino torna un giardino in salute, condizionando in positivo lo stato di tutto l’organismo. Perché il microbiota è l’ago della bilancia del nostro benessere: durante il convegno dell’International Society of Microbiota è stato sottolineato che la flora batterica intestinale è decisiva nel funzionamento di cervello, polmoni, reni, fegato, cuore e che una disbiosi, ovvero un’alterazione delle specie presenti nel nostro giardino intestinale, è connessa allo sviluppo di innumerevoli malattie.

Secondo il rapporto emerso dal convegno, il microbiota sarà la prossima rivoluzione della medicina. Come conferma Giovanni Barbara, docente di medicina interna del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna, «la flora batterica intestinale non è decisiva solo per la probabilità di malattie del tratto gastrointestinale, ma sappiamo che incide sul rischio cardiovascolare, di tumori, di disturbi dell’umore, di malattie neurologiche. Modificare il microbiota, quindi, sarà sempre più un obiettivo nella cura di tante condizioni».

Il procedimento del trapianto di microbiota. Da qui l’idea del trapianto fecale, anche se sarebbe meglio chiamarlo trapianto di microbiota.

Che è emerso anni fa come cura dell’infezione da Clostridioides difficile (prima chiamato Clostridium difficile), un batterio che può prendere il sopravvento quando la flora intestinale è indebolita, per esempio da antibiotici. Può dare infezioni ricorrenti, con complicazioni anche mortali, che resistono alle cure antibiotiche. Il procedimento? Da un donatore sano si prende il “materiale di scarto”, lo si analizza, lo si tratta (centrifugandolo e filtrandolo) e poi si trasferisce nel ricevente con un colonscopio o come clistere.

Ma in un prossimo futuro basterà inghiottire una pillola. Per cani e gatti esiste già ed è stata messa a punto in Italia. Per l’uomo poco tempo fa BiomeBank, una biotech australiana, ha ottenuto la prima approvazione per un farmaco basato sul microbiota per combattere C. difficile: oggi è in siringhe e somministrato nell’intestino, ma prossimamente si potrà assumere in capsule. Già sperimentate in diversi studi: alla University of Minnesota hanno usato capsule liofilizzate o trasferimento nel colon in 269 pazienti, verificando che l’efficacia è uguale. screening dei donatori di cacca. «Il trasferimento di materiale fecale dal donatore al ricevente non è complesso, ma ha costi non irrilevanti dovuti all’organizzazione necessaria e soprattutto allo screening dei donatori», sottolinea Antonio Gasbarrini, direttore dell’Area Medicina Interna, Gastroenterologia e Oncologia medica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma. «L’unico rischio del trapianto è la possibilità di trasferire germi patogeni o profili microbici sfavorevoli nel lungo periodo. Perciò il processo di selezione del donatore è molto rigoroso, tanto che meno del 3-5 per cento dei potenziali candidati diventano donatori».

Donare la cacca è insomma un gesto semplice, basta non tirare l’acqua del water. È tutta l’analisi prima e dopo che complica le cose. «Abbiamo tante richieste per donare, ma la procedura è lunga», precisa Barbara. «Sottoponiamo i volontari a vari passaggi con questionari per capire la loro storia clinica e le loro abitudini: devono esser persone giovani, sane, con un’alimentazione corretta e senza disturbi come ansia o depressione, devono essere nati da parto naturale e allattati al seno. Poi sulle feci raccolte eseguiamo analisi per capire i ceppi batterici presenti ed escludere chi è portatore di germi patogeni: il ministero della Salute ha stilato una lista di microrganismi che rendono inutilizzabile il materiale, continuamente aggiornata in caso emergano nuove conoscenze. Oggi per esempio facciamo lo screening anche per SARS-CoV-2». E si cercano come l’oro i “superdonatori” che danno risultati particolarmente buoni.

Il trapianto fecale in Italia. Il trapianto è stato regolamentato ed esiste un Programma Nazionale sul Trapianto di Microbiota Fecale Umano, gestito dal Centro Nazionale Trapianti, che, oltre a indicare le procedure, identifica le strutture dove farlo e i candidati alla terapia. L’Italia è stata fra i primi Paesi al mondo a eseguire il trapianto fecale, al Policlinico Gemelli nel 2013, e da allora si sono aggiunti alcuni centri autorizzati fra cui Bologna, Pisa, Firenze. «A oggi l’unica indicazione approvata in clinica è l’infezione recidivante da C. difficile, tra le prime cause di mortalità durante il ricovero negli anziani», spiega Gasbarrini. «Al Gemelli abbiamo eseguito più di 600 trapianti con la guarigione dell’infezione nella maggioranza dei casi, dati confermati da studi su popolazioni ampie che mostrano come il trapianto fecale sia la migliore opzione terapeutica in chi non risponde a una prima linea di antibiotici».

In questi casi bastano una o due infusioni di materiale fecale per arrivare a percentuali di successo del 90%, contro un massimo del 30% con gli antibiotici di seconda linea: una ricerca del Policlinico Gemelli ha mostrato che la sopravvivenza aumenta di oltre un terzo e i giorni di degenza si dimezzano. Uno studio condotto all’Università di Aarhus in Danimarca è stato interrotto perché i risultati nei pazienti con C. difficile che avevano ricevuto il trapianto erano troppo superiori rispetto a quelli di chi era stato trattato con cure standard, perciò «sarebbe stato poco etico non offrire il trapianto a tutti», ha spiegato l’autore, Simon Mark Dahl Baunwall.

Il microbiota che fa bene. E le indicazioni per il trapianto fecale sono destinate ad aumentare, vista la mole di ricerche che dimostrano quanto modificare in senso “buono” il microbiota faccia bene alla salute e in quante situazioni ci sia una disbiosi (troppe specie con effetti negativi, insufficiente diversità microbica, pochi batteri di specie benefiche). In molti casi si sta indagando l’efficacia del trapianto. Che, per esempio, di recente ha dimostrato di poter aiutare persone con allergie gravi alle arachidi, che reagiscono anche a tracce di esse nei cibi: Rima Rachid del Food Allergy Program Boston Children’s Hospital (Usa) ha usato materiale congelato, in capsule da ingerire. Risultato: pazienti che non tolleravano neppure mezza arachide potevano mangiarne un paio senza problemi.

Le sperimentazioni sono in corso per malattie come l’artrite reumatoide, la sclerosi laterale amiotrofica, la sclerosi multipla e l’autismo, oltre che per patologie intestinali come la sindrome dell’intestino irritabile, il morbo di Crohn o la colite ulcerosa.

«I dati raccolti sulle malattie infiammatorie intestinali sono promettenti, se si selezionano bene riceventi e donatori», dice Barbara. «I risultati che si stanno ottenendo sono così buoni che il percorso per arrivare alla clinica sarà verosimilmente rapido per tante applicazioni. Ci sono prove, per esempio, che il trapianto fecale possa essere utile in pazienti con tumori come il melanoma che non rispondono all’immunoterapia, perché il microbiota sembra fondamentale nelle risposte ad alcuni trattamenti antitumorali. A Bologna stiamo iniziando uno studio per valutare se possa ridurre il rischio di complicanze infettive nei trapianti di fegato. I campi di applicazione sono tanti, anche perché ormai non si può più prescindere, in nessuna malattia, dalla valutazione del ruolo del microbiota».

Pillole di cacca. Al punto che forse useremo il metodo anche come elisir di giovinezza: al Quadram Institute dell’East Anglia University (Uk) hanno dimostrato che il trapianto di microbiota da un giovane a un anziano può far regredire vari segni dell’invecchiamento in organi come intestino, occhi, cervello. È successo nei topi, ma chissà che in futuro non troveremo in farmacia pillole di cacca per ringiovanire.

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10 cose che (forse) non sai sulla cacca

Le CAR-T contro le malattie autoimmuni

Un tipo di immunoterapia che ha rivoluzionato la lotta ai tumori è stata ora impiegata per la cura di malattie autoimmuni nei bambini. La CAR-T, la terapia genica basata su linfociti T ingegnerizzati, è stata usata per la prima volta in tre giovani pazienti affetti da gravi patologie non altrimenti trattabili presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. I bambini, colpiti da lupus erimatoso sistemico e dermatomiosite, sono ora in completa remissione: un successo – stando ai risultati appena presentati dagli scienziati coinvolti a Rotterdam, in occasione dell’ultimo congresso europeo di reumatologia pediatrica, e a Padova, nell’ambito dei lavori del Centro Nazionale 3 per lo sviluppo della terapia genica previsto dal PNRR.

CAR-T: che cos’è? La terapia CAR-T – la sigla sta per Chimeric Antigens Receptor Cells – è una terapia genica personalizzata che utilizza i globuli bianchi (linfociti T) del paziente modificati in laboratorio e fatti espandere, prima di essere reintrodotti nell’organismo per infusione. I linfociti T sono cellule del sistema immunitario che normalmente neutralizzano i patogeni e conservano nel tempo la memoria dell’attacco ricevuto. Per questo tipo di terapia, vengono prelevati dal corpo del paziente e modificati geneticamente in modo da esprimere sulla loro superficie un recettore CAR (recettore chimerico di antigene), capace di aumentare la risposta immunitaria.

Un diverso uso. Di solito questa terapia, che è ancora piuttosto rara e costosa perché si basa sulle cellule del singolo paziente, viene usata per trattare tumori del sangue (come leucemie, linfomi e mielomi) resistenti alle altre cure, benché stia dando risultati promettenti anche contro alcuni tumori solidi. Nel nuovo lavoro è stata sfruttata contro le malattie autoimmuni, che dipendono da un’aggressione del sistema immunitario che si rivolta, erroneamente, contro i tessuti e gli organi del suo stesso corpo.

Un bersaglio preciso. Quanto la CAR-T è impiegata contro i tumori del sangue, i linfociti T ingegnerizzati riconoscono come bersaglio l’antigene CD19, espresso dalle cellule tumorali. Ma questo stesso antigene CD19 è espresso anche dai linfociti B, cellule immunitarie che hanno un ruolo cruciale nel determinare le malattie autoimmuni di cui sono affetti i tre pazienti trattati, il lupus erimatoso sistemico e la dermatomiosite. In pratica è stato usato lo stesso bersaglio, stavolta per curare malattie non neoplastiche.

Benefici tangibili. Il lupus eritematoso sistemico è una malattia cronica di tipo autoimmune che può colpire vari organi e sistemi (cuore, polmoni, reni, fegato, sistema nervoso, vasi sanguigni). La dermatomiosite è una malattia infiammatoria autoimmune che colpisce i muscoli e la pelle.

I tre pazienti sono due ragazze italiane di 17 e 18 anni colpite da lupus (una malattia che interessa più spesso le femmine dei maschi) e un bambino ucraino di 12 anni con dermatomiosite. Tutti e tre erano in condizioni gravi con malattie non rispondenti ai trattamenti di solito usati.

Dopo le infusioni di CAR-T hanno ottenuto benefici sostanziali e le loro malattie, dalle quali non si può guarire del tutto, sono andate in remissione (scomparsa totale dei sintomi): i pazienti hanno ora una buona qualità di vita e non devono più ricorrere a farmaci immunosoppressori.

Che cosa si farà ora. «I risultati ottenuti con le cellule CAR-T ci incoraggiano a proseguire nella direzione di un trial clinico che possa comprendere un numero più ampio di pazienti pediatrici affetti da varie malattie autoimmuni in cui un ruolo fondamentale nello sviluppo è giocato dai linfociti B» ha detto Fabrizio De Benedetti, responsabile dell’area di ricerca di Immunologia, Reumatologia e Malattie infettive dell’Ospedale romano. La letteratura medica recente descriveva 5 casi di pazienti adulti affetti da lupus trattati con le CAR-T, ma mai prima d’ora si era tentata la terapia in ambito pediatrico.

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11 cose scoperte da poco sul corpo umano

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