Venezia, dal 30 maggio al 2 giugno torna in Laguna il Festival dei Matti

Dal 30 maggio al 2 giugno torna in Laguna il Festival dei Matti, iniziativa culturale indipendente ideata e curata da Anna Poma che dal 2009, ogni anno, a Venezia, si interroga e interroga la cittadinanza sulla questione del rapporto tra follia e normalità, tra salute e sofferenza mentale. ‘Primavera non bussa. Futuri ri-belli’, titolo che rende omaggio a Fabrizio De Andrè, “vuole essere un auspicio e un antidoto a un tempo gravido di minacce, a un lungo inverno di ferro e di fuoco, distruzioni, catastrofi ambientali, sopraffazioni, nuove e vecchie forme di esclusione, abusi, sofferenza senza cura”, spiegano gli organizzatori in un comunicato stampa.

Il Festival “porterà in scena la primavera cantata da De André, che non bussa, entra sicura e prende per mano, sul filo della stagione culturale e politica che Franco Basaglia ha inaugurato e che per noi non smette di durare” con molti ospiti: Ernesto Venturini, Stella Goulart, Juliana Saúde Barreto e Rafael Costa, e Massimiliano Minelli, Francesco Vacchiano, Anna Toscano e Gianni Montieri, Mariasole Ariot e Francesco Deotto, Massimo Cirri, Erika Rossi, Gisella Trincas, Francesca Coin, Francesca Re David, Ilaria Cucchi, Luca Rondi, Stefano Cecconi, Marica Setaro, Mario Colucci, Miguel Benasayag, Ken Loach, Accademia della Follia, i collettivi Nuova generazione, e Assemblea di Salute e Cura di Padova, Teatro dell’oppresso, S’ambarkamo. “Il Festival interpella i versi dei poeti, le immagini di fotografi, registi, artisti, le parole delle scienze umane, la musica, la voce di chi ha attraversato esperienze di sofferenza psichica riaprendo giochi e prospettive su temi che riguardano la vita di ciascuno di noi. Come singoli e come comunità”, si precisa.

La giornata inaugurale di giovedì 30 maggio, presso l’ Auditorium di M9 – Museo del ‘900 di Mestre, si aprirà con l’incontro ‘Franco Basaglia in Brasile. Una primavera che non passa’. Protagonisti Ernesto Venturini, Stella Goulart e gli artisti Juliana Saúde Barreto e Rafael Costa che interverranno sul lascito del messaggio che Basaglia elaborò in Brasile nel 1979, l’anno prima della sua prematura scomparsa. Una serie di incontri che lo videro confrontarsi con moltissime persone (tra addetti ai lavori, cittadini comuni, studenti a San Paulo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte) “divenuti miccia di un discorso che in Brasile continua a generare pensiero critico, lotta alla violenza istituzionale, mosse di rianimazione sociale collettive, persino una giornata nazionale (il 18 maggio) di lotta antimanicomiale”. “Nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita di Basaglia, vedremo immagini di quella giornata, assisteremo ad una performance, ci interrogheremo su come sia potuta accadere una presa che oggi in Italia, nonostante la straordinaria rivoluzione culturale che ha portato all’emanazione legge 180, sembri svuotata, resa innocua o comunque sospinta nelle retrovie del discorso e delle pratiche di salute mentale egemoni”.

Nella stessa giornata, dalle 21, Anna Toscano e Gianni Montieri racconteranno le primavere “Senza calendario” di Goliarda Sapienza e Juan Carlos Onetti, “scrittori dislocati fuori del tempo ordinario”. Venerdì 31 maggio, nel chiostro dell’Accademia di Belle Arti, la giornata inizierà con il laboratorio del Teatro dell’oppresso ‘Disa(r)marsi Di amori e dis-amori. Del sentirsi disarmati di fronte a modelli che non ci appartengono, del volersi disarmare di fronte alla violenza che prende il sopravvento’ curato da Maddalena Martini insieme a Claudia Antonangeli e Alessia Mongelli. Alle 16.30 studentesse e studenti dell’Accademia di Belle Arti e dell’Università Ca’ Foscari Venezia racconteranno “del confine tra follia e normalità, del nostro stare a cavallo tra due dimensioni che ci abitano a partire dal confronto tra le proprie esperienze, inclinazioni, desideri e con gli attrezzi della loro diversa formazione”. A seguire alle 18.00 con la Senatrice Ilaria Cucchi, Stefano Cecconi, Antonio Esposito e Luca Rondi si discuterà “dell’inverno della ‘Sicurezza’, “i luoghi ‘chiusi’ dell’istituzione totale- carceri, centri per il rimpatrio, residenze per la misura di sicurezza, reparti psichiatrici, luoghi di violenza legalizzata, aria sottratta, avvelenamenti e fughe chimiche, erosione dei diritti. E degli antidoti collettivi ancora da inventare”. Alle 20.30 è previsto ‘Vogliamo il pane e anche le rose’, un dialogo videoregistrato che Ken Loach ha regalato al Festival, “un incontro con un grande regista che non smette di portarci primavere di parole e immagini, grazie al suo meraviglioso impegno civile contro ipocrisia, disuguaglianza, meccanismi burocratici schiaccianti e politiche che inchiodano la working class ad un male di vivere senza apparente via d’uscita”. A seguire la proiezione dell’ultimo film del regista, The old Oak.

Sabato 1° giugno al Teatrino di Palazzo Grassi saranno in scena le primavere irriverenti dei giovani di Ultima Generazione “che scompaginano le regole del gioco, simulando distruzioni che non avvengono a dispetto di un ordine rassicurante e igienizzato. Un ordine che invece quella distruzione continua a produrla e a nasconderla”. Insieme a loro, le ragazze e ragazzi dell’Assemblea di Salute e Cura di Padova, un collettivo “che prova a rammendare le ferite di un sociale senza comunità, che precipita ognuno nella disperazione, nella solitudine, nella malattia”.

Nei successivi due incontri si parlerà di lavoro tra alienazione e riscatto: alle 11.30 insieme a Francesca Coin e a Francesca Re David il tema sarà quello delle ‘Grandi dimissioni’, “il gesto con cui sempre più persone in tutto il mondo si sottraggono a contesti lavorativi di sfruttamento radicale, regole tossiche e lesive di ogni diritto, condizioni che ammalano i lavoratori, consegnando loro la responsabilità di questa stessa sofferenza”. Nel pomeriggio, dopo la proiezione di ’50 anni di Clu’ documentario prodotto da Cooperativa lavoratori uniti Franco Basaglia, Massimo Cirri e Erika Rossi, autori e regista, e Gisella Trincas, discuteranno della storia di una cooperativa di lavoro che ha accompagnato a Trieste il ritorno degli internati in manicomio alla cittadinanza, alla dignità, al riconoscimento e al contratto sociale e che ancora oggi, garantisce opportunità di lavoro non nocive a chi il mercato escluderebbe a priori.

Alle 18.30 l’incontro ‘Oltre le passioni tristi’ realizzato in collaborazione con Writers in Conversation dell’Università di Ca’ Foscari Venezia, vedrà protagonista Miguel Benasayg, il filosofo e psicoanalista argentino che “da anni si interroga sul male di vivere del nostro tempo, sui sortilegi e miti del neoliberismo, (individualismo, iperperformatività, antagonismo esasperati) sulle storture e aberrazioni della digitalizzazione delle vite, sul futuro fattosi minaccia, ma anche, al di là delle passioni tristi, su insperate traiettorie di cura collettiva. In un mondo che non sembra consentire alternative alla rassegnazione, al disimpegno, alla distrazione immersiva delle persone ridotte a profilo, Benasayag prefigura altri futuri possibili, nell’alleanza dei corpi e delle vite”.

La giornata di sabato si chiude con lo spettacolo ‘Quelli di Basaglia, a 180 gradi….’. Protagonista è l’Accademia della Follia, “compagnia di un teatro che agisce da ‘progetto anticorpo’ smontando i confini tra normalità e follia, confini geografici, culturali, di generazione, di classe”. L’Accademia ritorna sulla scena del Festival con un omaggio a Franco Basaglia e alla straordinaria epopea di un movimento e di una storia che hanno cambiato i destini di migliaia di persone e sbarrato, per tutti noi, la possibilità di cadere fuori dal contratto sociale perché giudicati matti da una diagnosi che è sempre una sentenza”. Domenica 2 giugno, sempre al Teatrino di Palazzo Grassi, l’ultima giornata di appuntamenti si apre con l’incontro ‘Franco Basaglia Fare l’impossibile’ a partire dalle recenti pubblicazioni di Mario Colucci e Marica Setaro, “due testi importanti che riportano in luce la vocazione critica del pensiero e dell’opera di Franco Basaglia, la diffidenza dinanzi ad ogni pacificazione dei conflitti e della cancellazione delle contraddizioni che non smettono di riaprirsi. Basaglia vi appare come un uomo determinato ma anche pervaso dai dubbi, consapevole dei rischi di una battaglia collettiva che apre le grandi questioni del rapporto tra scienza e democrazia, tra cura e custodia, tra un’esclusione che annienta e un’inclusione che recupera il diverso solo per renderlo funzionale alla propria organizzazione”.

A seguire, in ‘Schegge di rivolta’, i poeti Francesco Deotto e Mariasole Ariot “racconteranno dell’altrove che ci abita e dei luoghi confine in cui tentiamo di trattenerlo e cancellarlo. Con uno sguardo che disloca il dentro nel fuori e il fuori nel dentro e si fa specchio delle contraddizioni di cui siamo fatti, di un dolore che è anche spiazzamento e rottura, sottrazione, dissenso e scheggia di rivolta”. Alle 17.30 si tornerà al Brasile e alle sue primavere basagliane, con un incontro che, “da un punto di vista teorico e antropologico, proverà ad indagare con Francesco Vacchiano, Massimiliano Minelli, Ernesto Venturini e Stella Goulart il lavoro di decostruzione istituzionale e le pratiche di liberazione marginali che fanno del Brasile ancora oggi un terreno sorprendente di alternativa al discorso egemonico sulla salute mentale”. A chiudere il Festival alle 18.30 saranno le percussioni dei S’ambarkamo e una danza collettiva in Campo San Samuele “a celebrare la Primavera che non bussa e ha in corpo futuri ri-belli”.

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13 maggio 1978 entra in vigore la Legge Basaglia

Cent’anni fa nasceva Franco Basaglia (1924-1980), un ritratto dello psichiatra attraverso l’articolo “Matti da slegare” di Fabio Dalmasso tratto dagli archivi di Focus Storia.

La città dei matti. A Trieste tutti lo conoscono come l’ex Opp, sigla che fino al 1980 indicava l’Ospedale psichiatrico provinciale. In realtà si chiama Parco di San Giovanni, ma nella percezione cittadina è rimasta l’immagine della “città dei matti”. Quel luogo dove gli immensi padiglioni erano divisi in base alle diagnosi degli “ospiti”: qui gli uomini tranquilli, là le donne agitate e in un altro ancora i “sudici”, ben distanti dai villini riservati ai paganti tranquilli, divisi tra prima e seconda classe.

Una rivoluzione. Poi arrivò Franco Basaglia e tutto cambiò. Da luogo di reclusione, l’Opp divenne il simbolo e la realizzazione di quel sogno, quell’utopia che qualcuno bollò come folle e che lo psichiatra inseguiva da anni: restituire la dignità a quegli uomini e a quelle donne, a cui i manicomi l’avevano tolta. Molto semplice, ma fu una rivoluzione.

ANTIFASCISTA. Franco Basaglia nacque a Venezia l’11 marzo 1924. La sua infanzia, scrivono Francesco Parmegiani e Michele Zanetti nel loro libro Basaglia. Una biografia (Lint), «appare per qualche aspetto contraddittoria rispetto alla giovinezza e soprattutto alla maturità: è un ragazzino che parla poco, piuttosto scontroso, con pochi amici». Saranno il liceo prima (frequentato a Venezia) e l’università poi (a Padova) a provocare un profondo e radicale mutamento in Basaglia. Quel ragazzino taciturno, infatti, si trasforma: la passione politica si concretizza in una fiera e decisa opposizione al fascismo della Repubblica Sociale Italiana. «Giovani studenti universitari, questi oppositori del regime, finiscono tutti nella prigione di Santa Maria Maggiore di Venezia».

Vita privata. Il futuro psichiatra ci rimane quasi sei mesi, fino alla fine della guerra. È in quella cella che nasce in lui l’avversione verso le istituzioni chiuse. A 22 anni incontra per la prima volta la donna che gli starà al fianco tutta la vita, Franca Ongaro (1928-2005), moglie e indispensabile collaboratrice. Il fidanzamento dura sette anni e nel 1953 i due si sposano: l’anno dopo nasce il figlio Enrico e nel 1955 la figlia Alberta.

MONDI SEPARATI. Nel frattempo Basaglia porta a termine gli studi: si laurea in medicina nel 1949, specializzandosi nello studio delle malattie nervose e mentali (1953) presso la clinica diretta dal professor Giovanni Battista Belloni (1896-1975). Ma in questi anni non incontra mai il manicomio: come sottolineano Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio nel loro volume Franco Basaglia (Bruno Mondadori), «clinica universitaria e manicomio restano mondi separati, solo nominalmente appartengono alla stessa disciplina».

Tanta teoria e poca pratica, come racconterà lo stesso Basaglia ripensando a quegli anni: “Direi che tutto l’apprendimento reale avviene fuori dall’università”.

Il concorso. Appassionato di filosofia, Basaglia inizia a interessarsi alle nuove correnti della psichiatria che lo portano a nutrire dubbi sull’approccio utilizzato fino a quel momento. La svolta giunge nel 1961: l’amministrazione provinciale di Gorizia indice un concorso per la direzione del locale ospedale psichiatrico. Lui partecipa e vince.

L’ARRIVO A GORIZIA. Il passaggio dalle aule universitarie agli stanzoni del manicomio è traumatico: tutta la teoria assorbita all’università sembra disgregarsi di fronte alla realtà violenta dell’istituto. Sarà proprio questa prima esperienza (“un ospedale di 500 letti, dove erano usuali elettroshock e insulina”) a far dire allo psichiatra che “la psichiatria non si può insegnare all’università […] lo studente infarcito di definizioni con le quali classifica la schizofrenia, la psicosi maniacodepressiva, l’isteria, non sa che cos’è la ‘pratica psichiatrica’, e per questo dovrebbe uscire dall’università e andare in manicomio per incontrare i malati e comprendere i loro problemi”.

I cambiamenti. Dopo l’iniziale smarrimento, però, Basaglia accetta la sfida e si mette in azione: crea una squadra di collaboratori, soprattutto giovani psichiatri conosciuti a Padova, e decide di dare un primo segnale: eliminare i “corpetti”, cioè le camice di forza che venivano usate per i pazienti più irrequieti. Non solo: abolisce il camice bianco per dottori e infermieri, uno degli ostacoli che impediscono la nascita di un rapporto paritario tra medici e pazienti. Per Basaglia è fondamentale accostarsi ai malati, prenderli letteralmente sottobraccio per parlare e comprenderli. Per farlo occorre superare il trauma che quella “divisa” di medici e operatori porta con sé.

Umanizzare i rapporti. Eliminati corpetti e camici bianchi, Basaglia mette al bando anche l’elettroshock e organizza i primi incontri di gruppo, le prime assemblee dove siedono tutti in circolo: medici, infermieri e pazienti. All’inizio c’è diffidenza, i malati non parlano, ma lentamente il muro si incrina, si aprono brecce di dialogo: «I primi concreti segnali di autonomia di pensiero e giudizio arrivano come risposta alla richiesta di affrontare un argomento qualsiasi, di dare suggerimenti sulle cose da cambiare all’intero dell’ospedale che li ospita», scrivono Parmegiani e Zanetti. Per Basaglia è la conferma che l’approccio è giusto, che solo umanizzando il rapporto medici-pazienti si può sperare di migliorare la vita dei malati e curarli davvero.

Le critiche. Ma l’entusiasmo dello psichiatra e del suo team di collaboratori si deve scontrare con le voci critiche, anche all’interno dell’amministrazione provinciale. È soprattutto un fatto di cronaca nera ad aggravare la situazione: nel settembre 1968, infatti, Alberto Miklus, usufruendo di un permesso di uscita, uccide la moglie. Lo psichiatra viene rinviato a giudizio per concorso in omicidio con il suo collaboratore, e medico curante di Miklus, Antonio Slavich. Entrambi verranno assolti, ma l’episodio ha inevitabilmente conseguenze: Basaglia si prende una pausa e, dopo sei mesi trascorsi al Community Mental Health Centre di New York come visiting professor, lascia la direzione a Gorizia e accetta (nel 1970) quella dell’istituto di Parma.

LA RIVOLUZIONE CONTINUA. Quando lascia Gorizia, Basaglia è già un nome importante della psichiatria internazionale: nel 1967 aveva pubblicato Che cos’è la psichiatria? (Einaudi) e l’anno seguente L’istituzione negata (Einaudi). Nel 1969 sempre Einaudi aveva invece stampato Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, curato con Franca Ongaro.

A Parma, nel manicomio di Colorno, cerca di riproporre e ampliare l’esperienza goriziana, ma ostacoli burocratici e politici gli impediscono di completare i progetti. Sarà ancora una volta il Nordest a offrirgli l’opportunità per proseguire il lavoro. Nel 1971, infatti, vince il concorso per direttore dell’Ospedale psichiatrico di Trieste. Fin dal suo arrivo, alla fine del 1971, Basaglia prosegue il cammino intrapreso a Gorizia e alza il tiro: dispone la libera circolazione dei pazienti in quasi tutta la struttura; elimina alcune reti protettive; prosegue con le assemblee aperte e avvia una formazione professionale per gli infermieri. Soprattutto dà il via con prudenza, ma senza ripensamenti o dubbi, alla “liberazione” di gruppi di malati che vengono alloggiati in appartamenti fuori dall’ospedale, seguiti da medici e infermieri ma liberi di muoversi per la città, di condurre la propria vita.

CULTURA E DIGNITÀ. Nel manicomio, nel 1973, nasce la Cooperativa sociale lavoratori uniti, con una sessantina di malati addetti alla pulizia dei locali, delle cucine e del parco. I padiglioni che un tempo ospitavano i pazienti reclusi si trasformano in luoghi culturali: vengono invitati esponenti di spicco della cultura, come Dario Fo, che porta a Trieste alcuni dei suoi spettacoli; jazzisti internazionali come Ornette Coleman e Giorgio Gaslini; artisti poliedrici quali Franco Battiato e Moni Ovadia.

Vacanze pazzesche. Sempre in quegli anni nasce Marco Cavallo, il grande equino di cartapesta divenuto simbolo della rivoluzione basagliana.

E poi le vacanze per i “matti” (per il mare a Grado, per la montagna si opta per le Dolomiti bellunesi) e un memorabile viaggio in aereo: grazie alla collaborazione con Alitalia, Basaglia organizza un volo per un centinaio di ospiti del manicomio, uomini e donne. L’aereo decolla dall’aeroporto triestino di Ronchi dei Legionari (Gorizia), «si dirige verso Venezia, fa un paio di giri sulla città e torna a Ronchi. L’equipaggio definisce ammirevole la compostezza dei “matti”, la loro disciplina durante il volo e straordinaria la loro felicità al termine dell’esperienza», raccontano Parmegiani e Zanetti.

LA fine dei manicomi. Sotto la guida basagliana dell’Opp triestino i malati che possonoentrare e uscire sono sempre più numerosi: quando ne aveva assunto la direzione i ricoverati erano quasi 1.200, dopo poco più di tre anni erano meno di 850. E quando Basaglia se ne andrà, nel 1979, ne rimarranno soltanto 130. Quella che per molti è “l’invasione dei matti” non è sempre ben accolta e arrivano anche le denunce (una dozzina di procedimenti giudiziari per Basaglia). Nulla però può fermare l’onda che travolge il vecchio sistema psichiatrico. Ora l’obiettivo è uno soltanto: la chiusura del manicomio contestualmente all’apertura dei centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, in varie zone della città (il primo aprirà nel 1975).

La 180. I semi per la legge 180 sono gettati e presto verranno raccolti i frutti. Il 13 maggio 1978, infatti, il parlamento approva la tanto attesa (e necessaria) riforma psichiatrica con la promulgazione della legge 180, nota anche come “Legge Basaglia”. Due i principi alla base del testo: anche per chi è vittima di disturbi psichici il trattamento sanitario rientra nel campo del diritto alla salute e, dall’entrata in vigore della legge, i manicomi non possono più accogliere nuovi casi. Di fatto si sancisce la chiusura di tali istituti e contemporaneamente l’organizzazione sul territorio di adeguate strutture alla quale rivolgersi. «Basaglia aveva insistito affinché venisse rispettata la contemporaneità tra la chiusura dei manicomi e la funzionalità dei Centri di salute mentale sul territorio, o comunque di servizi alternativi.

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