Non c’è Risorgimento senza reincarnazione. La morte secondo Mazzini

Gli ultimi momenti del patriota in una mostra al vittoriano, che ne esplora la figura distaccandosi dalle solite declinazioni spiccatamente pop 

Dei quattro “padri della patria” che nelle stampe di fine Ottocento venivano affiancati per ricordare la nascita dello stato italiano – Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi, Mazzini – i primi due sono ormai pressoché dimenticati e il terzo, benché notissimo, ha finito col diventare soprattutto una “icona pop” (come suonava il titolo di una mostra torinese di un paio d’anni fa).

A impersonare il Risorgimento resta oggi soprattutto Mazzini, a destra come a sinistra: lo ha citato più volte la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma qualche mese fa sono stati dei deputati del Pd a chiedere che il bellissimo ritratto che gli dedicò Silvestro Lega, di proprietà di un museo del Rhode Island, fosse acquistato dal nostro paese o almeno potesse tornare momentaneamente in Italia. Ed è appunto questo ritratto – dedicato a “Gli ultimi momenti di Giuseppe Mazzini” – il fulcro della mostra che si apre il 31 maggio a Roma, al Vittoriano, per la cura di Edith Gabrielli: “L’ultimo ritratto: Mazzini e Lega, storie parallele del Risorgimento” (catalogo Electa).

Come si capisce, si tratta di una mostra assolutamente singolare, che celebra Mazzini ponendo però al centro il momento della morte, attraverso il ritratto che, di un uomo dall’esistenza indubbiamente fuori dal comune, raffigura la fase estrema dell’esistenza in cui diventa simile a qualunque altro essere umano. Anche perché la scelta artistica di Lega fu precisamente quella di rappresentare non la morte di un personaggio eroico, ma al contrario la fragilità di una persona stanca e malata, alla vigilia del trapasso. Proprio questa scelta fece sì che il quadro non piacesse per nulla ai seguaci di Mazzini e, non trovando acquirenti in Italia, venisse portato in Inghilterra per approdare infine negli Stati Uniti.
Dato il soggetto, il quadro di Lega richiama l’attenzione su un aspetto particolare: la relazione di Mazzini con la morte. Il tema fu affrontato anni fa, per il periodo successivo al decesso, da Sergio Luzzatto con un piccolo e originale libro dedicato alla storia della salma di Mazzini, cioè al tentativo dei suoi seguaci di imbalsamarne il corpo attraverso una nuova tecnica di “pietrificazione”, così da poterlo esibire al pubblico ogni anno (ciò che avvenne solo una volta, nel 1873, a un anno dalla scomparsa quando, riaperta la bara, si constatò che l’imbalsamazione non era ben riuscita e si desistette dal ripetere l’iniziativa). Ma quella che meriterebbe di essere indagata è soprattutto la relazione tra Mazzini in vita e il tema della morte. Tutta la sua abbondantissima produzione di scritti e la sua torrenziale attività epistolare, ad esempio, sono caratterizzate dalla presenza di un lessico mortuario, con frequenti riferimenti a cimiteri e sepolcri, scheletri e fantasmi, ossa e cadaveri (perfino con i “vermi che brulicano sopra”); scrisse un’infinità di volte che la monarchia era un cadavere, che l’Italia portata all’unità sotto il segno dei Savoia non era altro che uno scheletro senza vita e così via. Al di là di questo lessico dai tratti gotici, caro alla sensibilità romantica, il riferimento, anzi l’esaltazione, della morte tornava poi nell’insistenza con cui Mazzini predicava la necessità di sacrificarsi per la patria, difendendo il valore e la necessità del martirio. 

Soprattutto, la sua visione della morte si caratterizzava per una granitica fede nella reincarnazione che prese corpo dalla metà degli anni Trenta in contatto con la cultura democratico-repubblicana francese (credevano nella reincarnazione personalità a lui ben note come Jules Michelet o George Sand). “La morte non esiste”, scrisse una volta Mazzini ad Aurelio Saffi; intendeva dire che l’individuo, dotato di un’anima immortale, passa attraverso esistenze successive, che si svolgono in sedi diverse dalla terra e gli permettono, se ha bene operato, di avvicinarsi progressivamente a Dio. In un opuscolo del 1870 ribadiva di credere “in una serie indefinita di re-incarnazioni dell’anima, di vita in vita, di mondo in mondo, ciascuna delle quali rappresenta un miglioramento dell’anteriore”. L’idea che si ha della morte ha per tutti, individui comuni e grandi personalità, un indubbio rilievo nel determinare i caratteri dell’esistenza. Nel caso di Mazzini fu anche la fede nella reincarnazione che contribuì a infondere in lui quella determinazione straordinaria che notarono già i contemporanei, quella singolare capacità di non abbattersi di fronte a nulla e proseguire nella propria battaglia dopo ogni insuccesso. 
E tuttavia questo aspetto delle idee di Mazzini è stato generalmente ignorato, prima dai suoi seguaci e poi anche dagli storici (ma non da tutti: se ne occupò, con poche ma precise pagine, Salvemini in un suo libro di oltre un secolo fa). La cosa credo abbia una spiegazione abbastanza semplice: l’imbarazzo dei mazziniani e di vari studiosi di Mazzini di fronte a credenze reincarnazioniste che contraddicevano le posizioni fortemente laiche in cui essi si riconoscevano. Così, di fronte a Mazzini che, perfino in un’opera diffusissima come Dei doveri dell’uomo, affermava di credere nella reincarnazione, si è preferito far finta di nulla, decidendo – con qualche arbitrarietà – che si trattava di un aspetto in fondo poco importante.  
 

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