La più antica arte figurativa, 45 mila anni fa. Nascosta in una grotta indonesiana

Ancora lì, ancora lo stesso team di ricercatori dietro la scoperta. L’annuncio è quello destinato, ancora una volta, a riscrivere il nostro lontano passato artistico. Per quanto non è chiaro però, lasciano capire gli stessi ricercatori, perché la regione dove tutto è avvenuto si sta confermando un vero scrigno in materia di arte rupestre e potrebbe riservare ulteriori sorprese. Di cosa parliamo? Della scoperta della più antica testimonianza di arte figurativa, in una grotta indonesiana nell’isola di Sulawesi da parte del team di Adam Brumm della Griffith University, in Australia.

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Nella grotta dove iniziò la storia dell’arte

Almeno una volta nella vita bisognerebbe andare a vederla, come la Ka’ba della Mecca o la Basilica di San Pietro a Roma. Nel sud della Francia c’è un santuario per l’umanità, una grande caverna in cui l’uomo non solo rese omaggio alle sue prime divinità, ma realizzò le prime manifestazione artistiche, per sette mila anni, a partire da 36 mila anni fa. Si tratta della grotta di Chauvet-Pont-Arc, presso Vallon-Pont-d’Arc, nella valle del fiume Ardèche (Francia).
Qui, quasi cento pitture che raffigurano cavalli, bisonti, leoni, rinoceronti e cervidi – secondo la ricostruzioni degli studiosi, tutti spiriti di divinità animali – dimostrano che l’uomo era già padrone di tecniche come lo sfumato per dare il senso della prospettiva e del volume alle figure: faceva trasparire l’azione e la tensione emotiva dei soggetti rappresentati, anticipando metodi del Rinascimento. Un patrimonio straordinario, dunque, che gli archeologi decisero subito di preservare: la grotta fu infatti chiusa al pubblico per impedire il degradarsi dei dipinti che già avevano visto verificarsi in altre grotte (come quelle di Lascaux in Francia e Altamira in Spagna) dal calore, dalla luce e dalle spore di muffe e batteri portati dai visitatori. Dieci anni fa sono però iniziati i lavori per realizzarne una replica, aperta nel 2015, che permettesse di non alterare i dipinti originali e garantire a tutti di poter visitare questo straordinario monumento.

TALE E QUALE. Così è nata Chauvet 2, la più grande e precisa replica di arte parietale preistorica del mondo: si tratta di una grotta artificiale che riproduce esattamente quelle opere d’arte in grandezza naturale, in un ambiente ricostruito con il metodo dell’anamorfosi, che garantisce la stessa percezione che si ha nella grotta reale giocando sulla prospettiva in spazi ridotti, calcolata in modo matematico.
Quando si entra in Chauvet 2 a colpire è la grandiosità delle volte, la maestà delle stalattiti, la solennità delle pitture. Tutto sembra vero. Sulla destra ci sono anche i massi che, cadendo, chiusero definitivamente, 29.500 anni fa, l’ingresso naturale della grotta, dopo che era stata frequentata per 7 mila anni dall’uomo del Paleolitico. I suoi scopritori moderni, gli speleologi Jean-Marie Chauvet (che ha dato il nome alla grotta), Éliette Brunel e Christian Hillaire, entrarono per caso da una fenditura nel dicembre del 1994 e si trovarono sbalorditi in un ambiente sotterraneo di 8.500 metri quadrati.

LABORATORIO ARTISTICO. La prima sezione della grotta presenta figure di mammut. Furono realizzate seguendo la forma delle stalattiti che ricordavano questi animali. Un elemento a favore della teoria che prima di disegnare, l’uomo preistorico usava ritrovare con l’immaginazione nelle rocce o in altri elementi naturali le sembianze di animali importanti per la sua vita di cacciatore.
Si tratta del principio della psicologia della forma (noi vediamo quello che ci aspettiamo partendo solo da alcuni indizi reali). Nel caso degli uomini preistorici che esplorarono per primi la grotta, questi videro dei mammut nelle stalattiti e rimarcarono la loro forma animale tracciandone i contorni con ocra rossa.

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Sulle pareti della grotta di Chauvet

COME UNA FIRMA. Poco più avanti ci sono i “punti-palma”, chiazze fatte probabilmente a scopo rituale utilizzando ocra rossa sui palmi delle mani da “stampare” sulle pareti. Un modo per mettersi in contatto con il mondo sotterraneo, una sorta di firma del visitatore preistorico. Tali “firme” compaiono sulle pareti della grotta anche con l’impronta positiva di mani intere, di solito destre, e con la tecnica stencil, cioè soffiando il colore in polvere con una cannuccia, in pratica un sottile osso cavo, in modo da lasciare il negativo di tutta la mano.
A un certo punto compaiono due orsi disegnati con ocra rossa sulla superficie piana di una parete. Anche due pantere e un uccello rapace con le ali aperte. In questa parte della grotta, la luce del sole entrava dall’ingresso naturale, ma spingendosi oltre, l’unico modo di vedere e di dipingere era utilizzare delle torce.

RIPRODOTTI NEI PARTICOLARI. Sulle pareti che si presentano umide e tenere alla scalfittura, gli artisti usarono fare incisioni con schegge di selce o di osso o più semplicemente con le dita. Troneggiano un grande cavallo selvatico e la figura di un gufo, con le due penne sulla testa che sembrano orecchie (non presenti per esempio nella civetta o nell’allocco) a dimostrazione che ai tempi c’era una conoscenza dettagliata delle varie specie di rapaci notturni. In un caso, la roccia tenera ha permesso di raffigurare due mammut bianchi in bassorilievo.
Dove le pareti tornano a essere dure, le figure non sono più rosse, come nella parte iniziale, ma nere, tracciate con il carboncino. Cervi megaceri e stambecchi dalle lunghe corna appaiono in posizioni dinamiche, come usciti dagli scatti di un fotografo naturalista. Rinoceronti, bufali e cavalli sono rappresentati con la tecnica dello sfumato per dare volume e aspetto tridimensionale ai soggetti.

CONVIVENZE PERICOLOSE. La grotta era anche un rifugio per orsi in letargo, come dimostrano i loro graffi sulle pareti o gli avvallamenti provocati dal loro peso. L’orso delle caverne (Ursus spelaeus) era più grande dell’attuale orso bruno: pesava dai 5 ai 10 quintali e ritto sulle zampe posteriori era alto 3 metri. Sono sparse migliaia di ossa di individui che morirono nel sonno letargico.
Nemmeno un osso di orso porta tracce di macellazione, segno che i Sapiens non mangiavano la sua carne. L’orso delle caverne era piuttosto un animale sacro: un cranio venne posto su una roccia, come una reliquia su un altare, e altri 50 crani vennero messi a formare una sorta di cerchio magico attorno a quello centrale. Sulle pareti cinque cavalli selvatici corrono allineati e un gruppo di leoni sbuca da dietro lo sbalzo di una roccia all’inseguimento di una mandria di bufali.

Un cavallo dalla doppia criniera, altra rappresentazione che voleva dare il senso del movimento, in particolare della testa durante il galoppo.
© J. Clottes/MC

QUASI CINEMA. Impressiona il senso dell’azione: i leoni hanno le orecchie basse come segno di aggressività, colli protesi verso le prede e bocche più o meno aperte per definire ringhi e ruggiti. La fuga disordinata dei bufali e anche di alcuni cavalli trasmette la loro paura. In un’altra pittura, una coppia affiatata di leoni ci ricorda che a quei tempi, 30 mila anni fa, i maschi non avevano ancora evoluto la criniera.
Altre figure hanno sapore cinematografico. Come in un cinetoscopio, che mostrava le prime sequenze a scatti del cinema degli albori, ecco la figura di un rinoceronte lanoso ripetuta varie volte con il lungo corno per comunicare il suo movimento. Ci sono poi rinoceronti e bufali a 8 zampe per dare il senso della corsa. Lo stesso effetto del famoso quadro di Natalija Goncharova del ciclista che pedala con 4 gambe (v. sotto), ma quel quadro è del 1913 e la grotta di Chauvet non era ancora stata scoperta: Goncharova quindi non poteva sapere che 30 mila anni prima qualcuno ebbe la stessa idea per comunicare il movimento.

Nella grotta di Chauvet, un bufalo rappresentato con otto zampe anticipava l’invenzione dell’immagine in movimento ovvero, il cinema.
© M.Azéma/ CNP/NC

L’UOMO MANCA. Grandi assenti sono però le figure umane. Come gli aborigeni australiani, forse gli artisti di Chauvet credevano di discendere da animali totem, cioè divini: dipingere esseri umani non doveva essere importante o addirittura era un tabù. C’è una sorta di eccezione visibile su una stalattite, la vulva di una donna, associata però a un bufalo che la sovrasta. La sessualità e la maternità non erano ai tempi solo cose umane, ma concetti universali. E no, l’uomo del Paleolitico non si riteneva al centro del creato.

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