La sclerosi multipla arrivò dalle steppe

L’origine di una malattia degenerativa diffusa nel Nord Europa è stata fatta risalire al popolo di pastori nomadi che 5.000 anni fa si espanse dall’Asia centrale all’Europa. I geni che predispongono alla sclerosi multipla furono introdotti nella parte settentrionale del nostro continente dagli Yamnaya, gli allevatori delle steppe che in molti luoghi sostituirono le popolazioni di cacciatori raccoglitori europei. Anticamente, queste varianti avevano un ruolo protettivo, mentre oggi risultano svantaggiose.

A ricostruire la storia di questa e di altre malattie sono quattro articoli scientifici pubblicati su Nature e basati sulla più ampia banca dati di DNA antico.

Un rischio non omogeneo. La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa nella quale il sistema immunitario attacca per errore la guaina che isola e protegge le fibre nervose di cervello e midollo spinale. Finora sono state individuate 233 varianti genetiche che aumentano di circa il 30% il rischio di sviluppare questa patologia. Nei Paesi del Nord Europa si verificano circa il doppio di casi di sclerosi multipla rispetto a quelli diagnosticati nell’Europa meridionale, ma le ragioni di questa differenza non erano ancora chiare.

Un pesante bagaglio. L’eredità genetica lasciata negli Europei dagli Yamnaya (o Cultura di Jamna), i pastori nomadi capaci di domare i cavalli e provenienti dalle attuali Russia e Ucraina, è – per ragioni inerenti ai luoghi della loro espansione – assai più marcata nei moderni abitanti del Nord Europa, e meno presente nelle popolazioni odierne dell’Europa meridionale. Un team di 175 ricercatori da tutto il mondo guidato dagli scienziati delle Università di Cambridge, di Copenhagen e della California, Berkeley ha ora scoperto che le varianti genetiche associate al rischio di sclerosi multipla “viaggiarono” insieme agli Yamnaya, spostandosi dalle steppe asiatiche all’Europa nord-occidentale.

Un database unico al mondo. La scoperta è stata possibile grazie all’analisi del DNA estratto dalle ossa e dai denti di circa 5000 individui conservati in collezioni museali e vissuti in Europa occidentale e in Asia in varie epoche (dal Mesolitico al Neolitico alle Età del Bronzo e del Ferro, a quella Vichinga), a cominciare da 34.000 anni fa. Gli antichi profili genetici fanno parte della più vasta e completa banca dati di DNA antico, la Lundbeck Foundation GeoGenetics Centre. Il team li ha confrontati con i dati genetici di circa 400.000 persone dei giorni nostri conservati nello UK Biobank, un importante database medico britannico, scoprendo che questa stessa predisposizione genetica alla sclerosi multipla era presente anche in individui vissuti migliaia di anni fa.

Da utili a dannosi. Questi geni dovevano all’epoca rappresentare un vantaggio per la sopravvivenza dei pastori dell’Eurasia, perché li proteggevano dalle infezioni trasmesse dagli animali che allevavano. Allo stesso tempo, però, aumentavano il rischio di sclerosi multipla. Rischio che è diventato tanto più evidente nell’era moderna, come spiega Astrid Iversen, coautrice del lavoro presso l’Università di Oxford: «Oggi abbiamo vite molto diverse da quelle dei nostri antenati in termini di igiene, alimentazione e possibilità di cure mediche. Questo, insieme alla nostra storia evolutiva, significa che potremmo essere più suscettibili a certe malattie rispetto ai nostri antenati, incluse le condizioni autoimmuni come la sclerosi multipla».

A ogni popolo i suoi malanni. Sempre dagli Yamnaya potrebbe discendere anche la tendenza delle popolazioni nordeuropee ad essere più alte di quelle del Sud Europa. Mentre diverse condizioni mediche sarebbero riconducibili all’influsso genetico di altre antiche popolazioni migrate nel nostro continente.

Per esempio, gli abitanti dell’Europa meridionale, che tipicamente conservano una maggiore porzione di DNA di antichi agricoltori, sono più predisposte geneticamente a sviluppare disturbo bipolare, un grave disturbo psichiatrico. Mentre gli abitanti dell’Est Europa hanno un rischio genetico più elevato di sviluppare Alzheimer e diabete di tipo 2. Per dirla con le parole di William Barrie, coautore del lavoro e scienziato dell’Università di Cambridge, «siamo eredi di antichi sistemi immunitari in un mondo moderno».

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Sclerosi multipla e mononucleosi

Un virus che il 90% della popolazione mondiale incontra almeno una volta nella vita potrebbe avere un ruolo chiave nell’esordio della sclerosi multipla. Da tempo si pensa che il virus Epstein-Barr, patogeno che appartiene alla famiglia degli Herpesvirus (la stessa di herpes e varicella) e che è responsabile della mononucleosi infettiva (la “malattia del bacio”), sia in qualche modo legato alla genesi della sclerosi multipla in una piccola porzione di persone infettate. Ma stabilire un collegamento preciso tra le due cose è un compito difficile, perché possono passare molti anni dall’infezione ai primi sintomi della sclerosi multipla.

L’obiettivo sbagliato. La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da un attacco anomalo del sistema immunitario ad alcune componenti del sistema nervoso centrale – e in particolare alla mielina, il rivestimento che isola e protegge le fibre nervose nel cervello e nel midollo spinale. Per questo è considerata una patologia autoimmune. Passate ricerche hanno suggerito che questo “fuoco amico” si scateni perché il virus Epstein-Barr imita una proteina prodotta nel cervello e nel midollo spinale, fatto che spinge il sistema immunitario ad attaccare per errore anche questa molecola, scambiata per “estranea”.

Riconosci questo virus? Nel nuovo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, un gruppo di scienziati dell’Università del Texas si è concentrato su una specifica componente del sistema immunitario: non gli anticorpi come in altre ricerche ma i linfociti T, incaricati di riconoscere ed eliminare le cellule infettate dai virus.

I linfociti T sono specializzati nel riconoscere specifici antigeni, ossia frammenti del patogeno che in quel momento sta attaccando l’organismo. Una volta riconosciuto l’antigene si attivano e proliferano, invadendo l’organismo di cloni di linfociti antigene-specifici, e amplificando così la risposta immunitaria.

Gli scienziati hanno analizzato le interazioni tra i linfociti T prelevati dal sangue e dal fluido cerebrospinale di 8 pazienti con i primi sintomi di sclerosi multipla e vari virus, incluso il virus Epstein-Barr, o cellule infettate da esso coltivate in laboratorio.

Una minaccia nota. Il team ha sequenziato i recettori presenti all’esterno dei linfociti T per capire quali antigeni – e quindi quali virus – fossero in grado di riconoscere. Il 13% di quelli prelevati dal sangue dei pazienti riconosceva il virus Epstein-Barr (per fare un paragone: solo il 4% riconosceva il virus dell’influenza). Ma all’interno del fluido cerebrospinale, cioè del liquido che irrora il sistema nervoso centrale, l'”esercito” di cloni di linfociti T diretti contro le cellule colpite da virus Epstein-Barr risultava “esploso”, e numerosissimo: rappresentava cioè il 47% di tutte le cellule analizzate.

Un legame c’è. Per gli autori dello studio, ciò indicherebbe che il virus della mononucleosi e soprattutto il tipo di risposta orchestrata contro di esso in una ristretta fascia di pazienti, siano o responsabili della genesi della sclerosi multipla o per lo meno contribuiscano ad essa. Altri esperimenti stanno indagando in che modo. Quella descritta potrebbe essere la famosa “pistola fumante”, ossia la prova in flagrante, della relazione che lega il virus Epstein Barr alla sclerosi multipla, tuttavia 8 pazienti sono un campione molto piccolo per esserne certi. Bisognerà partire da qui per approfondire questo legame, e provare a spezzarlo.

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