Idraulica del clima: rimedi contro le alluvioni

Milano, come molte altre città italiane, si trova ad affrontare un paradosso climatico: da un lato, la siccità prolungata mette a dura prova le riserve idriche e le colture agricole, dall’altro, il rischio di forti piogge e alluvioni è sempre più concreto. Nelle ultime ore, la città ha visto scendere abbondanti precipitazioni, seppur concentrate in un breve lasso di tempo. Alcune zone si sono allagate, il fiume Seveso e il fiume Lambro hanno raggiunto la soglia di attenzione, ma senza provocare eccessivi disagi, grazie anche agli interventi messi in campo per fronteggiare questo tipo di eventi. Proprio rimedi in cantiere per fronteggiare le criticità legate al meteo è dedicato l’articolo L’idraulica del clima, di Riccardo Oldani, nel numero 379 di Focus attualmente in edicola.

Quello di Niguarda, a Milano, è un quartiere che regolarmente finiva sott’acqua dopo una pioggia un po’ più abbondante del solito, inondato dalle acque del Seveso. Il torrente è forse il più famigerato tra quelli che attraversano il capoluogo lombardo, causa di innumerevoli allagamenti nei quartieri nord della città e intorno al naviglio della Martesana, in cui sfocia. Lo scorso marzo però, in occasione delle forti precipitazioni cadute su tutto il Nord Italia, la consueta piena non si è ripetuta. Per la prima volta è stata evitata dalla “cassa di laminazione” di Bresso, un’opera idraulica appena entrata in funzione per contenere eventi di questo tipo.

PROGETTO CON POLEMICHE. Circa 120mila metri cubi di acqua, che altrimenti sarebbero finiti in negozi e scantinati o avrebbero reso inagibili viali e sottopassaggi, sono invece defluiti nel bacino, completato lo scorso autunno dopo anni di lavori e polemiche. Il progetto di Bresso, così come quelli di Senago e di Lentate, altre due località sul corso del Seveso, è in effetti stato osteggiato da gruppi di cittadini, preoccupati che le acque e i fanghi depositati dalle piene possano portare con sé sostanze inquinanti e tossiche e nuocere alla loro salute. Anche dopo il primo utilizzo dello scorso marzo ci sono state proteste, nonostante gli effetti positivi sui quartieri a valle e il pronto intervento degli addetti alla manutenzione, che hanno fatto defluire nel Seveso le acque raccolte dopo la piena e rimosso e lavato i fanghi depositati.

RISCHIO COSTANTE. Quella del Seveso non è una situazione isolata. In Italia sono centinaia i corsi d’acqua problematici da gestire, in tutte le regioni.

Ogni volta che si registrano precipitazioni più abbondanti del normale, il rischio di esondazioni incombe praticamente su ogni nostro centro urbano. Le alluvioni di Prato dello scorso novembre e in Romagna e nelle Marche del maggio 2023 sono state l’ennesima conferma di questo rischio diffuso. Tra la fine febbraio e gli inizi di marzo ce la siamo cavata non solo grazie a opere come l’invaso di Bresso, ma anche perché è nevicato oltre i 1.000 m di quota, riducendo il flusso complessivo di acqua. Se così non fosse stato, avremmo dovuto fronteggiare una situazione ben peggiore. In una sola settimana di maltempo le falde e le riserve idriche di tutto il Nord-Ovest si sono ampiamente ricostituite, raggiungendo un volume immagazzinato tra 8 e 9 miliardi di metri cubi d’acqua, dopo che per tutto l’inverno era piovuto e nevicato pochissimo.

CLIMA E CEMENTO. Ma quali sono, secondo gli esperti, le strategie più efficaci per regolare il regime idrico di un territorio e per evitare le piene? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Ravazzani, docente al Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano, un esperto in queste tematiche. Partendo da un dubbio. Sono forse i cambiamenti climatici ad aggiungere un rischio ulteriore a un territorio già ampiamente vulnerabile? «Dai dati in nostro possesso», dice Ravazzani, «il livello complessivo di precipitazioni nell’arco dell’anno in Italia è più o meno in linea con il passato. Ma è cambiata la distribuzione nel tempo, con un aumento delle piogge in inverno e una riduzione in estate, periodo in cui gli eventi atmosferici tendono a essere più concentrati nel tempo, e quindi più violenti». Cresce quindi il rischio di “bombe d’acqua”. Ma il clima che cambia non è l’unico problema. «Conta molto anche l’urbanizzazione dei territori», aggiunge l’esperto. «Noi per esempio abbiamo studiato nel dettaglio la mappa del bacino idrografico del Seveso. Negli anni Cinquanta del Novecento solo il 17% di questo territorio era urbanizzato. Nel Duemila siamo saliti al 51%. Vuol dire che più della metà del bacino è costruito o coperto da strade e non può contribuire a contenere le portate di piena, sempre più veloci ed elevate». In un territorio non costruito, le acque meteoriche, prima di incanalarsi nei corsi d’acqua, si infiltrano nel suolo attraverso fratture e porosità. L’acqua infiltrata satura i depositi alluvionali costituendo una ricarica per le falde acquifere.

Ma se a livello superficiale il terreno viene reso impermeabile dal cemento questo effetto “spugna” viene in parte compromesso.

LE CASSE DI ESPANSIONE. Come si può agire allora? «In due modi», spiega l’esperto. «Con opere di contenimento, come le casse di espansione (simili a quella di Bresso) e con strumenti di previsione capaci di anticipare in modo preciso e localizzato i rischi di piena e di segnalarli ai cittadini perché possano tutelarsi». Per esempio sigillando i seminterrati, come fanno da tempo immemore i veneziani in caso di acqua alta, oppure evitando di mettere l’auto in parcheggi sotterranei. Le casse di espansione possono essere di due tipi, spiega Ravazzani. «Ci sono quelle “in linea” al corso d’acqua di cui sfruttano la capacità d’invaso, oppure “in derivazione”, realizzate in aree esterne in cui, in caso di piena, l’acqua viene convogliata con opere e canalizzazioni. Sono in pratica porzioni di territorio delimitate da arginature e dotate di opere idrauliche, come gli sfioratori laterali, che durante le piene indirizzano il flusso d’acqua in eccesso al loro interno». Esistono molte strutture di questo tipo in Italia. Alcune sono diventate anche zone di interesse naturalistico, come le casse di espansione del Secchia, tra le province di Modena e Reggio Emilia, tutelate da una riserva regionale che è un autentico paradiso per birdwatcher e fotografi naturalisti.

IL TEMPO DI RITORNO. Ma perché le casse di espansione, o vasche di laminazione, non possono bastare a proteggere i centri abitati? Come mai servono anche soluzioni “non strutturali”? «Nel definire in fase di progetto il volume di una cassa di espansione», spiega Ravazzani, «consideriamo un livello di piena basato sul “tempo di ritorno”, cioè l’intervallo che intercorre tra due piene della stessa entità. Più il tempo considerato è lungo, più importante sarà la piena e più grande l’opera da realizzare (perché se è possibile analizzare dati storici molto indietro nel tempo, si possono individuare piene molto rare ma estremamente intense, ndr). Ma realizzare grandi opere è difficile: costano molto, sono raramente impiegate al massimo delle capacità, sollevano obiezioni e non mettono mai completamente al sicuro un’area. Gli archivi storici, per esempio, potrebbero non avere traccia di piene con tempi di ritorno più lunghi rispetto a quello considerato dai progettisti».

SISTEMI DI PREVISIONE. Le opere strutturali, insomma, agiscono sulla pericolosità, perché modificano il comportamento dei fiumi.

«Ma contro le alluvioni si può agire anche pensando alla vulnerabilità del territorio», dice Ravazzani, «con l’obiettivo di ridurre al minimo i danni. Gli interventi non strutturali hanno questo scopo». In che cosa consistono? Sono sistemi di previsione, basati su modelli matematici, per valutare in anticipo il rischio di alluvione e consentire così di informare gli abitanti interessati. Il gruppo di ricerca e di studio del Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano ha messo a punto un sistema di questo tipo, premiato anche nel 2018 per la sua utilità per i cittadini. «Si chiama SOL (dalle iniziali dei corsi d’acqua che monitora, cioè Seveso, Olona e Lambro) ed è disponibile online», precisa Ravazzani. «Ogni giorno elabora le previsioni di pioggia sul territorio interessato e indica con colori sulla mappa il livello di allarme. Una soluzione poco costosa ma efficace, grazie anche al dettaglio e alla precisione sempre maggiori delle previsioni meteo su cui si basa, costruite su modelli ogni giorno più attendibili».

IL REBUS DEI TEMPORALI ESTIVI. La sfida è di rendere questi sistemi di previsione sempre più precisi. «Il principale limite oggi», dice Ravazzani, «riguarda i temporali estivi, eventi convettivi che sono molto localizzati nello spazio e di breve durata, poche ore al massimo. È molto difficile capire esattamente dove si verificheranno e determinare la quantità di pioggia che produrranno. Una soluzione, favorita anche dalla crescente disponibilità di computer più potenti e veloci, è l’adozione di modelli probabilistici o “a ensemble”, che non generano un’unica previsione per un bacino idrografico, ma ipotizzano diverse condizioni iniziali e sviluppano quindi differenti proiezioni e scenari di distribuzione delle precipitazioni». Se un elevato numero di questi ipotetici scenari prevede un’esondazione, allora si può considerare più alta la probabilità che questa avvenga veramente. Molto difficile è poi misurare con precisione la quantità di pioggia generata da questi temporali localizzati. «Presuppone una rete molto densa di pluviometri, difficile da realizzare e da gestire», conclude Ravazzani. «Un valido aiuto proviene allora dai radar meteorologici, che non sono una tecnologia nuova in assoluto, ma sono sempre più precisi grazie all’evoluzione delle tecniche di analisi e interpretazione dei dati». Di recente la Lombardia si è dotata di tre di questi strumenti, che si aggiungono a quelli attivi nella Rete radar meteorologica nazionale, articolata su 26 sistemi.

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