Willy, l’ebreo che scelse di perdersi in una sperduta fattoria nel cuore d’America

Joshua Singer ha la capacità di raccontare le piccole storie così come la grande trazione del secolo, quella dei rivolgimenti storici e dei passaggi epocali. Il nodo, per i narratori così come per i narrati, è sempre quello di capire come preservare la cultura ebraica attraverso i cambiamenti

Tanto per cominciare, non si scrive Israel Joshua Singer ma Yisroel Yehoshua Zinger. Casca l’asino della translitterazione – dettagli, direte voi – e i guai sono solo all’inizio. Perché dev’essere stato divertente tradurre Willy, inedito di Israel Joshua Singer che Giuntina (156 pp., 18 euro) manda in libreria per la gioia del nostro completismo, patologia connaturata al lettore singeriano. Ma facile no. “Tradurre un testo yiddish”, racconta Enrico Benella che, fresco di cimento, ci spiega cos’ha comportato, “significa raramente tradurre solo dallo yiddish: gli inserimenti di altre lingue sono molto frequenti. In Willy, oltre allo yiddish, sono presenti daytshmerish cioè yiddish germanizzante, ebraico con vocalizzazione ashkenazita, poi inglese, tedesco, polacco e russo; la lunghezza dei singoli inserti varia da singole parole a frasi intere. Nell’originale questi inserti sono trascritti foneticamente in yiddish con caratteri ebraici, con alcuni adattamenti quando in yiddish manca il suono originale. Molte volte non sono affatto tradotti, dando per scontato, l’autore, che il lettore yiddishofono – quasi mai monolingue, ma il cui livello di plurilinguismo può variare molto – ne comprendesse il significato”.

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